Pubblichiamo questo interessante contributo proveniente dalla Francia perché traccia a nostro modo di vedere un interessante elenco di ordini di problemi che la questione agricola contiene in se stessa e che le attuali mobilitazioni stanno portando alla ribalta mediatica e sociale. Ovviamente è necessario – ma forse non lo sarebbe – precisare che solo una parte delle rivendicazioni dei trattori francesi possono essere assimilate alle nostrane, ma questa parte ha comunque rilevanza. Il tutto ovviamente parte dalle tre letterine magiche che sostengono il settore agricolo da decenni; PAC, Politiche Agricole Comunitarie. L’elargizione di sussidi a favore di agricoltura e allevamento da parte delle PAC ha permesso a queste di salvarsi e in alcuni casi di prosperare – spesso più di sussidi che di produzione ma vabbè – allo stesso tempo ha imposto le modifiche al settore ben descritte nell’articolo, quindi riduzione delle aziende, esasperata meccanizzazione (e ora tecnologizzazione), diffusione di mega aziende e produzioni intensive, utilizzo della chimica e via dicendo. Seppur le piccole scelte di tutti i giorni dei consumatori potrebbero iniziare indirizzare in minima parte l’economia verso un cambiamento positivo, concordiamo col testo quando si dice che non potrà essere la soluzione. Ma quindi quale potrebbe essere la soluzione? Non è facile dirlo, apriamo perciò un dibattito, con questo e altri contributi già pubblicati e con altri che speriamo ci arrivino anche dai lettori. Potete inviarci elaborati vostri o link a questa mail: maistrali@autistici.org

Nonostante qui si parli di Francia, il nostro approccio come sito rimane sempre lo stesso, quindi quello di partire dalle vicende a noi più vicine, quelle sarde. Negli ultimi mesi la pressione imposta su persone e territorio dalla speculazione energetica ha portato molte persone e molti gruppi ad affrontare la questione dell’utilizzo della terra e dei metodi di produzione del cibo. Ma non solo, il tentativo di trasformazione di ampie porzioni di territorio da agricolo a industriale viene riconosciuto come una delle priorità su cui lottare, ma allo stesso tempo emerge la poca propensione a far sì che quei territori diventino industrie agricole, da qua si aprono le critiche di chi sostiene che non si può dire No a tutto. Forse è così? C’è un male minore? Noi crediamo che il principio di autodeterminazione di un territorio e delle persone che lo vivono sia intoccabile, per cui anche su questo tema partiremo con i nostri ragionamenti da qua.

Posizione e appello di Les Soulèvements de la terre sull’attuale movimento agricolo

È ormai trascorsa una settimana da quando il mondo agricolo ha preso a esprimere chiaramente e nei fatti la sua rabbia: rabbia di un mestiere diventato quasi impraticabile, in crollo sotto la brutalità degli sconvolgimenti ecologici che si annunciano e sotto asfissianti vincoli economici, normativi, amministrativi e tecnologici. Mentre i blocchi continuano un po’ ovunque, presentiamo alcune posizioni circa la presente situazione espresse dal punto di vista dei Soulèvements de la terre.

Siamo un movimento composto da abitanti delle città e delle campagne, di ecologisti e contadini già installati sulla terra o in procinto di installarsi. Rifiutiamo la polarizzazione che alcuni cercano di creare tra questi mondi. Abbiamo fatto della difesa della terra e dell’acqua – strumenti di lavoro degli agricoltori – e degli ambienti di produzione alimentare il principio e il punto di ancoraggio della nostra azione. Da anni ci mobilitiamo contro i grandi progetti di artificializzazione che li devastano e contro i complessi industriali che li avvelenano e li monopolizzano. Saremo chiari: l’attuale movimento, nella sua eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente sostenuto da forze diverse dalle nostre; con obiettivi dichiarati che a volte divergono dai nostri, che altre volte ci vedono assolutamente d’accordo. In ogni caso, quando sono iniziati i primi blocchi, noi dei diversi comitati locali abbiamo aderito ad alcuni di essi e ad alcune azioni. Siamo andati a incontrare i contadini e gli agricoltori mobilitati, abbiamo parlato con i nostri compagni di diverse organizzazioni contadine per comprendere la loro analisi della situazione. Noi stessi ci siamo ritrovati nel dignitoso moto di rabbia di chi rifiuta di rassegnarsi alla propria estinzione.

Possiamo solo rallegrarci del fatto che oggi la maggioranza degli agricoltori blocchi il paese. Certo è un peccato che, nei negoziati col Governo, essi siano rappresentati dalla FNSEA (Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles, ndr) e dai padroni dell’agroindustria, per di più in un momento in cui i dirigenti del sindacato di maggioranza non solo vengono copiosamente fischiati in alcuni blocchi, ma non riescono nemmeno più a mantenere le loro basi. Molte persone presenti nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si sentono rappresentate dalla FNSEA. Nato nel dopoguerra, questo sindacato egemone sostiene da decenni lo sviluppo del sistema agroindustriale, in cogestione con lo Stato. È questo sistema che mette una corda al collo dei contadini, che li sfrutta per alimentare i propri profitti e che alla fine li spinge a indebitarsi per espandersi al fine di rimanere competitivi o scomparire.

Nel 1968 Michel Debatisse, allora segretario generale della FNSEA, prima di diventarne presidente, disse: «Due terzi delle aziende agricole non hanno, in termini economici, alcun motivo di esistere. Siamo d’accordo per ridurre il numero degli agricoltori». Missione più che riuscita: il numero degli agricoltori e dei lavoratori agricoli è passato da 6,3 milioni nel 1946 a 750.000 nell’ultimo censimento del 2020. Mentre il numero dei trattori nelle nostre campagne è aumentato di circa il 1000%, il numero delle aziende agricole è diminuito del 70% e quello dei lavoratori agricoli dell’82%. In altre parole, più di 4 lavoratori su 5 hanno abbandonato il lavoro agricolo in un periodo di soli quattro decenni, tra il 1954 e il 1997. E la lenta emorragia continua ancora oggi… Mentre la dimensione media di un’azienda agricola in Francia (nel 2020) è di 69 ettari, quella di Arnaud Rousseau, attuale direttore della FNSEA, ex intermediario e commerciante sfornato da una business school, ammonta a 700 ettari, senza contare il fatto che egli sia a capo di una quindicina di imprese, holding e aziende agricole, nonché presidente del consiglio di amministrazione del gruppo industriale e finanziario Avril (Isio4, Lesieur, Matines, Puget, ecc.), direttore generale della Biogaz du Multien (una società di metanizzazione), amministratore della Saipol, leader francese nella trasformazione dei semi in olio, o ancora presidente del consiglio di amministrazione di Sofiproteol…

Per i dirigenti della FNSEA, così come per i leader delle più grandi cooperative agricole – abbondantemente rappresentate dalla “Fédé” e dai suoi satelliti – è la grande abbuffata: il reddito medio mensile delle dieci persone più pagate nel 2020 all’interno della cooperativa Eureden ammonta a 11.500 euro. I redditi medi dei contadini sventolati sui palcoscenici e il mito dell’unità organica del mondo agricolo mascherano una disparità di reddito sconcertante e violente disuguaglianze socio-economiche che non possono più essere dissimulate: i margini dei piccoli produttori continuano a erodersi mentre i profitti dei complessi agroindustriali esplodono.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), la percentuale del prezzo di vendita destinata agli agricoltori è scesa dal 40% nel 1910 al 7% nel 1997. E questo ovunque, nel mondo. Dal 2001 al 2022, i distributori e le aziende agroalimentari del settore lattiero e caseario hanno visto il loro margine lievitare rispettivamente del 188% e del 64%, sebbene quello dei produttori vada stagnando, quando non sia semplicemente negativo.

Uno fra i motivi che spingono il mondo agricolo a bloccare le autostrade, a svuotare bottiglie di latte al Carrefour (Epinal-Jeuxey), a bloccare le fabbriche Lactalis (Domfront, Saint-Florent-le-Vieil, ecc.), ad arare un parcheggio (Clermont-l’Hérault), a bloccare il porto di La Rochelle, a svuotare i camion provenienti dall’estero, a spargere liquame su una prefettura (Agen), a mettere sottosopra un McDonald’s (Agens), è che i gruppi industriali intermediari sia a monte (fornitori, venditori di prodotti agricoli e attrezzature, aziende di semenze industriali, venditori di fertilizzanti, pesticidi, alimenti…) che a valle (cooperative di raccolta e distribuzione come Lactalis, grande distribuzione industriale e agroalimentare come Leclerc…) dei settori che strutturano il complesso agroindustriale, li spossessano dei prodotti del loro lavoro.

È questa spoliazione del valore aggiunto organizzata dalla catena dei settori industriali che spiega come, oggi, senza le sovvenzioni che svolgono un ruolo perverso di stampelle del sistema (oltre ad avvantaggiare i più grandi) il 50% di coltivatori e allevatori avrebbe un conto negativo ante imposte: per i bovini da latte, il guadagno totale calcolato al di fuori dei sussidi, il quale si aggirava intorno a una media di 396 € per ettaro tra il 1993 e il 1997, è diventato negativo alla fine degli anni 2010 (-16 euro per ettaro in media), mentre il numero di agricoltori presi in considerazione da la Rete Informativa Contabile Agraria del settore è passata in questo periodo da 134.000 a 74.000.

Gli accordi internazionali di libero scambio (denunciati dalla Confédération paysanne e dalla Coordination rurale), oltre a mettere in competizione i contadini di tutto il mondo, hanno anche accelerato queste depredazioni economiche. Sappiamo bene che oggi, quando si parla di “liberalizzazione”, di “aumento di competitività” o di “ammodernamento” delle strutture, significa che aziende agricole scompariranno, che la policoltura associata ad allevamento (rappresentata attualmente solo dall’11% delle aziende agricole) diminuirà, lasciando solo un deserto verde di monocolture industriali guidate da agricoltori alla guida di strutture sempre più indebitate e sempre meno in controllo di strumenti di lavoro e di un conto bancario che finisce per appartenere solo ai creditori.

Il riscontro è senza appello: meno agricoltori ci sono, meno riescono a guadagnarsi da vivere, a meno che non espandano continuamente la loro superficie agricola, divorando i loro vicini. In queste condizioni, “diventare un manager d’impresa”, come promette la FNSEA, è in realtà ritrovarsi nella stessa situazione di un autista Uber che si indebita fino al collo per acquistare il suo veicolo, quando dipende da un unico committente per eseguire la sua attività… A questo aggiungiamo la brutalità del cambiamento climatico (siccità, incendi, inondazioni, ecc.), le perturbazioni ecologiche che portano alla moltiplicazione di malattie emergenti e epizootiche e il mestiere diventa quasi impossibile, invivibile, tanta e tale è l’instabilità.

Se ci solleviamo è in gran parte contro le devastazioni di questo complesso agroindustriale, con il ricordo vivido delle aziende agricole delle nostre famiglie che abbiamo visto scomparire e con l’acuta consapevolezza della profondità delle difficoltà che incontriamo nel nostro cammino d’installazione. Sono queste industrie e le mega-corporazioni d’accaparramento che le accompagnano (inghiottendo la terra e le fattorie circostanti, accelerando la trasformazione in marche della produzione agricola e così uccidendo, silenziosamente, il mondo contadino), sono queste industrie che abbiamo preso di mira nelle nostre azioni fin dall’inizio del nostro movimento: e non la classe contadina.

Se affermiamo che la liquidazione economica e sociale del mondo contadino e la distruzione degli ambienti di vita sono strettamente correlate – le aziende agricole scompaiono allo stesso ritmo degli uccelli dei campi, il complesso agroindustriale stringe la sua morsa mentre il riscaldamento globale accelera – non ci sfuggono certo gli effetti deleteri di una certa ecologia industriale, manageriale e tecnocratica. La gestione dell’agricoltura secondo norme ambientali e sanitarie è assolutamente ambigua. Incapace di tutelare realmente la salute delle popolazioni e degli ambienti di vita, essa ha soprattutto costituito, dietro buone intenzioni, un nuovo vettore di industrializzazione delle aziende agricole. Gli investimenti colossali richiesti dagli aggiornamenti normativi nel corso degli anni hanno ovunque accelerato il processo di concentrazione delle strutture, la loro burocratizzazione a suon di controlli permanenti e la perdita di senso del mestiere.

Ci rifiutiamo di separare la questione ecologica dalla questione sociale, o di farne una questione di cittadini consumatori responsabili, di cambiamenti nelle pratiche individuali o di “transizioni personali”. È impossibile esigere che un allevatore intrappolato in un settore iper-integrato faccia un’improvvisa sterzata e si sottragga da un modo di produzione industriale, così come è vergognoso chiedere che milioni di persone strutturalmente dipendenti dagli aiuti alimentari inizino a “consumare biologico e locale”. Né vogliamo ridurre la necessaria svolta ecologica del lavoro della terra a una questione di “regolamenti” o di “un insieme di norme”: la salvezza non arriverà rafforzando il controllo delle burocrazie sulle pratiche contadine. Nessun cambiamento strutturale arriverà finché non allenteremo la morsa dei vincoli economici e tecnocratici che gravano sulle nostre vite: e possiamo liberarcene solo attraverso la lotta.

Pur non avendo lezioni da impartire agli agricoltori né false promesse da rivolgergli, l’esperienza delle nostre lotte a fianco dei contadini – che si tratti di contrastare grandi progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le nostre scommesse strategiche.

L’ecologia sarà contadina e popolare oppure non sarà. I contadini scompariranno insieme alla sicurezza alimentare delle popolazioni e ai nostri ultimi margini di autonomia di fronte ai complessi industriali, se non sorgerà un vasto movimento sociale che, di fronte al loro accaparramento e alla loro distruzione, miri a riappropriarsi delle terre. E scompariranno se non abbatteremo le barriere (trattati di libero scambio, deregolamentazione dei prezzi, influenza monopolistica dell’industria agroalimentare e degli ipermercati sui consumi delle famiglie…) che sigillano la presa del mercato sulle nostre vite e sull’agricoltura, se non bloccheremo la corsa a capofitto tecno-soluzionista (il trittico biotecnologie genetiche / robotizzazione / digitalizzazione), se i principali megaprogetti della ristrutturazione del modello agroindustriale non verranno neutralizzati, se non troveremo le leve adeguate di socializzazione dell’alimentazione che permettano insieme di garantire il reddito dei produttori e il diritto universale al cibo.

Crediamo anche nella fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee. In un momento in cui la FNSEA cerca di riprendere il controllo del movimento – in particolare rimuovendo da alcuni blocchi tutto ciò che non assomiglia a un agricoltore “sindacalizzato” dei loro – crediamo che la svolta possa venire dall’incontro tra gli agricoltori mobilitati e le altre frange del movimento sociale ed ecologico che si sono sollevate negli ultimi anni contro le politiche economiche predatorie del Governo. Il “corporativismo” è sempre stato il fondamento dell’impotenza contadina. Proprio come la separazione dai mezzi di sussistenza agricoli ha spesso segnato la sconfitta dei lavoratori.

Forse è giunto il momento di abbattere qualche muro: continuando a rafforzare alcuni blocchi, andando incontro al movimento di chi ancora, in questi blocchi, non ci ha messo piede, proseguendo nei prossimi mesi le lotte comuni tra abitanti dei territori e lavoratori della terra.

Il testo è tradotto da Fracesco Zevio e pubblicato su vari siti fra cui Comune-info e Infoaut, che ringraziamo per il prezioso lavoro.