Pochi giorni fa è arrivata l’ennesima notizia di una morte in carcere, i
numeri di questo fenomeno stanno assumendo le forme di una vera e
propria strage, nel 2022 sono state registrate ben 202 morti nelle
patrie galere.

Questi numeri non solo spaventano per la loro enormità, ma segnano un
vero e proprio cambio di significato e ruolo delle prigioni dello stato,
che diventano sempre più luoghi di sofferenze, angherie, torture e anche
morti.

Luoghi dove l’impunità delle guardie è praticamente indiscutibile, e
dove il torbido è cosi fitto da impedire vera chiarezza su fatti anche
gravissimi.

I fatti a noi più vicini riguardano la morte di Erik Masala, giovane
cagliaritano del quartiere Sant’Elia che ha perso la vita a Bancali, il
carcere sassarese.

Le prime notizie parlano di suicidio in carcere ma fin da subito sono
emersi dei dubbi.
Il giovane doveva scontare una pena che si sarebbe conclusa al più tardi
nel 2025, era appena diventato nuovamente padre e il suo legale era in
contatto con lui ogni due giorni per fargli avere un trasferimento a
Cagliari ed afferma che non dava assolutamente segnali di voler compiere
un gesto così estremo.

Familiari ed amici sono della stessa opinione, anche perché sul corpo
sono stati rinvenuti dei lividi evidenti e le circostanze della morte
sono poco chiare. E’ stata così lanciata la campagna “Giustizia per
Erik” per far luce sulla vicenda di cui, dietro richiesta del legale, si
stanno ora occupando i magistrati.

Oltre al dolore e alla rabbia per la perdita dell’ennesima vita
all’interno di un carcere- come già detto – sono i numeri a fare paura:
50 “suicidi” dall’inizio del 2023 sono il macabro record delle galere
italiane, ventiquattr’ore prima di Erik un altro detenuto si sarebbe
tolto la vita a Terni.

Le stesse galere di cui abbiamo tante volte parlato, fatiscenti,
sovraffollate, bollenti d’estate e gelate d’inverno. Le carceri sempre
più lontane dai centri abitati ed isolate, feudo indiscusso di guardie
carcerarie e direttori fantasma che possono fare il bello ed il cattivo
tempo all’interno delle strutture in cui psicofarmaci e botte sono i
passi obbligati verso la “rieducazione” di Stato.

Gli esempi sono davvero tanti, troppi. Dalle morti del periodo Covid alle torture di Santa Maria Capua Vetere si susseguono giornalmente episodi che ricordano più un bollettino di guerra piuttosto che una relazione sulle carceri, diventando nei fatti luoghi dove l’impunità delle guardie è praticamente indiscutibile, dove il torbido è così fitto da impedire vera chiarezza su fatti anche gravissimi.

La Sardegna si colloca come un ulteriore isolamento in un mondo già
isolato e quasi dimenticato come quello carcerario. La detenzione diventa
ulteriormente punitiva se vissuta lontano dagli affetti e con di mezzo
il mare per poter fare una visita ad un proprio parente recluso. La
presenza massiccia di carceri nell’isola rappresenta in pieno l’aspetto punitivo puro e semplice, nessuna rieducazione solo tortura.

Ma come mai tutto questo?

Le carceri hanno sempre seguito le mutazioni sociali ed il sistema
economico capitalista diventandone un pilastro fondamentale. La loro
funzione di spauracchio per chi esce fuori dagli schemi imposti, siano
forme di dissenso che aspetti cosiddetti criminali, deve anche
rappresentare e dimostrare un potere.

La galera inoltre resta un’esperienza quasi esclusivamente destinata
alle fasce di popolazioni più povere e con più difficoltà, di classe si
sarebbe detto una volta.

Così la repressione assume un ruolo fondamentale in quel potere di cui
accennavamo prima. Non a caso le classi più “problematiche” per lo Stato
sono quelle che subiscono maggiormente la repressione e così aumentano a
dismisura i dati dei reclusi migranti, tossicodipendenti e tutti coloro
che questa società emargina e criminalizza. A questo si aggiunge la
penalizzazione del dissenso che mira a stroncare ogni forma di lotta per
lasciare spazio a paura e rassegnazione, aumentate dai dati allarmanti
sulle condizioni detentive e dagli episodi di tortura e vessazione che
restano troppe volte impuniti.

La popolazione straniera incarcerata sta raggiungendo percentuali sempre più alte, i prigionieri con problemi di tossicodipendenze, che li portano a compiere piccoli reati, affollano i reparti dei prigionieri comuni invece che essere aiutati in strutture adatte a chi soffre di gravi dipendenze. Infine ci sono quel mare di persone che vivono la vita in una società che lascia loro l’interpretazione tra il giusto e lo sbagliato, il legale ed il possibile. La stessa società ha bisogno di reprimere, ne è un esempio la proposta di legge per l’inasprimento della carcerazione per i minorenni o per i genitori che non mandano figlie o figli a scuola. Si cerca di lavorare sulla paura e la minaccia piuttosto che sulla cultura o sui vari aspetti del futuro del popolo.

Così la repressione assume un ruolo fondamentale in quel potere di cui
accennavamo prima. Non a caso le classi più “problematiche” per lo Stato
sono quelle che subiscono maggiormente la repressione e così aumentano a
dismisura i dati dei reclusi migranti, tossicodipendenti e tutti coloro
che questa società emargina e criminalizza. A questo si aggiunge la
penalizzazione del dissenso che mira a stroncare ogni forma di lotta per
lasciare spazio a paura e rassegnazione, aumentate dai dati allarmanti
sulle condizioni detentive e dagli episodi di tortura e vessazione che
restano troppe volte impuniti.

L’interno del carcere è purtroppo specchio della società esterna, quasi completamente privo di legami di solidarietà, di appoggio, di classe, che permettano dentro e fuori di difendersi dalle arroganze delle divise di darsi una mano nelle situazioni difficili.

La solidarietà che si può creare si rivela così un’arma fondamentale,
in carcere come fuori.

I contatti con le detenute e i detenuti, con i parenti e la presenza fisica al di fuori dalle mura, sono piccole cose che a volte riducono la distanza fra il dentro e il fuori e creano dei legami per cui chi è dentro si senta un pò più al sicuro.

Per questo rilanciamo l’appello e l’attivazione per ottenere verità e giustizia per Erik.

Per abituarci all’idea che si può fare qualcosa contro l’atrocità che il carcere è, e rappresenta, contro le violenze che ogni giorno i prigionieri subiscono.

Non conoscevamo Erik, ma conosciamo tanta gente che ha subito le violenze del carcere, qualcuno purtroppo non è mai uscito da quelle mura. Quando si lotta contro il carcere, più siamo meglio è.