Riflessioni su aspetti apparentemente secondari della transizione energetica, del cambio climatico e del territorio sardo, sotto il punto di vista della dipendenza.

Un pensiero veloce potrebbe trovare poche congruenze e connessioni fra la transizione energetica, il cambio climatico e il territorio sardo, o almeno potrebbe ritenere una forzatura ritenerli un livello prioritario su cui le contraddizioni dei prossimi tempi potrebbero finalmente esplodere.

Da poco l’Unione Sarda riportava le lamentele – e successive richieste di sussidi – del principale sindacato agricolo (Coldiretti), in materia di danni alle colture provocati dal gran caldo degli scorsi giorni, è indubbiamente vero che i 50° raggiunti in molte zone dell’interno siano un dato preoccupante e molto impattante, che quindi rende assolutamente grave la situazione delle vigne e dell’orticoltura.

Stando però alle recenti estati chi si può definire stupito del raggiungimento di queste temperature? Ogni anno in primavera inoltrata gli esperti ci preparano a quella che “potrebbe essere l’estate più calda di sempre”, e ogni anno l’unica cosa che si può fare è incrociare le dita affinché non sia così.

Quest’anno la scaramanzia sembrava aver fatto la sua parte, fino a metà giugno si sono alternati temporali e inaspettate frescure notturne che hanno allietato l’agricoltura e hanno mantenuto un clima assai piacevole.

Poi come era ovvio aspettarsi il caldo, quello vero, quello a cui da un po’ di anni ci stiamo abituando è arrivato.

E puntuali sono arrivate le lamentele sopra citate.

Le domande che poniamo sono: ma serve a qualcosa lamentarsi contro il clima? Anche eventuali ristori elargiti dalle regione servirebbero davvero a qualcosa? Non sarebbe il caso di iniziare a ragionare in termini di prevenzione piuttosto che di cura?

Crediamo che sia opinione condivisa che lamentarsi per il clima sia piuttosto inutile, almeno finché la lamentela (o meglio il ragionamento) non riesca ad assumere un piano che vada oltre la contingenza specifica, ma riesca finalmente a innestarsi su una serie di questioni molto più ampie dei problemi dell’agricoltura.

L’agricoltura e l’allevamento sono da un trentennio abbondante asserviti alle logiche delle Politiche Agricole Comunitarie (PAC) che stilano ogni quinquennio i termini entro cui questi settori si devono muovere ed evolvere. Questo avviene tramite il sistema della premialità, cioè dell’elargizione di premi in denaro per coloro che rientrano nei crismi imposti dalle PAC.

Questo sistema che ha innaffiato di denaro tutta l’agricoltura e l’allevamento europeo, sta andando verso la fine dei suoi giorni. La nuova PAC appena entrata in vigore e con scadenza fra 5 anni, sarà probabilmente l’ultima in regime di abbondanza dei premi. L’Unione europea sta parlando chiaro e non nasconde le linee guida che indirizzeranno il prossimo decennio e forse anche di più: decentralizzare la produzione intensiva, riducendo quindi le grandissime aziende (inquinanti e impattanti) sul suolo europeo, incentivare le piccole e medie produzioni cercando di alzare la qualità dei prodotti e i costi di vendita.

Questo cambiamento, non apprezzato da una cospicua fetta dei percettori dei premi europei (perché andrà a ridurre le loro entrate) prenderà piede grazie al rapporto di forza che le PAC hanno creato proprio con l’elargizione dei premi. Vale a dire che la maggior parte delle aziende saranno costrette ad adeguarsi alle nuovi griglie di produzione previste perché in caso contrario perderebbero l’accesso ai premi e ciò significherebbe fallimento, in quanto grandissima parte dell’agricoltura e dell’allevamento europeo non si sosterrebbe senza questo sistema di sussidio istituzionale.

E qui finalmente possiamo tornare alla lamentela e richiesta della Coldiretti, di cui se anche comprendiamo le ragioni, non condividiamo la prospettiva.

Non condividiamo cioè il continuare a rafforzare il cordone di dipendenza con le istituzioni attraverso il piagnisteo sindacale e la successiva richiesta di elargizioni di elemosina.

Vale a dire che non condividiamo l’attitudine a preoccuparsi sempre di ottenere una “cura” ai problemi (sussidi), piuttosto che porsi il problema di una prevenzione, quindi adattare le colture ai cambiamenti socio-economici e in questo caso anche al cambio climatico e ragionare parallelamente a cosa fare per arginarlo, e non far finta di nulla finché non si arriva di nuovo a 50°.

Ci sembra chiaro, perlomeno alle nostre latitudini sarde, che lo schema “cura si – prevenzione no” attuato in vari settori con nomi diversi (basti pensare alle infinite casse integrazioni dei lavoratori di Portovesme) non faccia altro che indebolire la società, gli individui, le aziende e l’economia sarda in generale e rafforzare il rapporto coloniale tra lo Stato italiano e noi.

Qualcuno obbietterà che rinunciare agli aiuti dello Stato a volte non è possibile, che vi sono condizione economiche all’interno di aziende e famiglie talmente al collasso che la rinuncia diventa impossibile. Questo è innegabile, ma è anche chiaro – per bocca delle stesse istituzioni – che questa politica si sta esaurendo (basti vedere le scelte del governo attuale sul RdC e le politiche europee in materia di sussidi).

Viene dunque da pensare che sia il caso di prepararsi, e che questa possa essere un’occasione per volgere lo sguardo verso delle alternative e delle strade che saranno indubbiamente faticose ma potenzialmente portatrici di interessanti risvolti.

Tanto per fugare possibili incomprensioni, non si sta dicendo qui che la soluzione sia quella di rifiutare, rinunciare ora agli aiuti che potrebbero venir dati per un’emergenza agricola o di altra natura, ma di iniziare a ragionare consapevolmente che quella strada sta diventando un vicolo cieco, fatto di dipendenza e ricatto, alla fine del quale l’unica possibilità sarà fare quello che altri decideranno per noi: di nuovo.

L’intreccio con altre speculazioni e imposizioni in corso nella nostra isola lo ritroviamo nelle prospettive di utilizzo del territorio sardo, e nella determinazione che dovremmo invece riuscire a trovare per imporre noi, ricordando che la vocazione della terra la decide chi la terra la vive (quindi che si tratti di campi eolici, fotovoltaici, o di imposizioni fatte passare con i premi europei poco cambia).

Se non ci rendiamo conto che dobbiamo trovare dei modi per slegarci dalle logiche del ricatto economico (posto di lavoro, premio, vendita della terra per speculazioni turistiche&energetiche cambia poco) ci ritroveremo presto a rivivere quanto accaduto in passato, cioè che forze economiche&politiche decidono per noi della terra in cui viviamo, e noi saremo costretti a renderci parte di questo in cambio di denaro, oppure saremo costretti a partire.

Troppo pessimismo, forse, ma meglio un po’ di più che un po’ di meno.

Le istituzioni non ci regalano niente, per ogni cosa che ci danno ci chiederanno qualcosa indietro, molto spesso più grande e importante di quanto dato (pensiamo a cosa si sono presi in termini di devastazione definitiva di alcune zone di Sardegna in cambio di un po’ di stipendi).

La fase della politica delle redistribuzioni di sussidi (che comunque son quasi sempre stati briciole) sta finendo, la classe politica attuale è quindi pronta a raccogliere il frutto di quello che ha dato, cioè l’incapacità delle economie locali di essere indipendenti, e quindi di essere costrette ad accettare ogni novità.

Fermare, o almeno arginare questo processo è possibile, serve però una messa in discussione del sistema delle filiere di produzione, trasformazione e vendita di alcuni prodotti locali, serve una maggior sensibilità e partecipazione da parte della popolazione non direttamente coinvolta, serve una forte volontà di non subire questo ennesimo passaggio storico di dipendenza coloniale.

Sembrerà quindi esagerato dire tutto questo a partire da una semplice lamentela della Coldiretti per dei danni oggettivi subiti dal reparto vitivinicolo, per il gran caldo dei giorni scorsi, ma quella lamentela è l’embrione del problema che schiaccia quasi tutto il mondo agropastorale sardo e non solo (e quindi una gran parte di chi vive dal lavorare la terra a vario titolo).

Nel cercare una risposta differente a quello stesso problema, potrebbe trovarsi la strada da percorrere per liberarsi di qualcosa che è molto di più della dipendenza dai sussidi per i danni del clima.

Tenendo ben presente che fare a meno dei servizi offerti dal capitalismo non può essere – in questa fase – il punto di partenza di una lotta, ma diventarne il punto di arrivo collettivo, e che iniziare almeno a parlarne non può che essere d’aiuto.