Sulla Sardegna permangono le mire di investimenti privati e programmi di stato per l’uso dell’isola come piattaforma su cui concretizzare il processo di transizione dagli strumenti di produzione energetica vecchi, a combustibile fossile, a quelli nuovi, a energia rinnovabile. Lo scopo della transizione, in generale, non è far sopravvivere il pianeta, ma far sopravvivere il rapporto capitalistico, mantenendo, per quanto possibile, il tenore di vita che assicura in alcune parti del mondo.

La fase in corso nello Stato Italiano è quella dello scontro tra le necessità materiali delle industrie e lo sviluppo decisivo delle energie rinnovabili, fase stagnante a causa perlopiù della burocrazia statale condita da ecologismo neo-liberale. I piani in sintesi sono: le centrali a carbone, dopo uno sprint finale, cederanno il posto al gas, energia fossile che farà da ponte per la transizione, per assicurare la produzione continua dei poli industriali; intanto alcuni territori verranno utilizzati come piattaforme di produzione intensiva di energia rinnovabile per operare, in maniera crescente e poi determinante, il cambio di fonte, entro il 2028/2030; è probabile che i centri abitati grossi dipenderanno dallo sviluppo rinnovabile, i piccoli sull’installazione autoctona (incentivata o meno).

Une lettura di come si prefigureranno in futuro le ricadute socio-economiche nei territori interessati dalla transizione concreta, come la nostra isola, può essere la seguente.

Lo svecchiamento del sistema di produzione energetica progredisce verso un perfezionamento tecnico per cui basterà una massa di lavoro minore per mettere in moto una massa maggiore di macchine e materie prime: da grossi poli, magnetici e discontinui, da centinaia di dipendenti, si passerà a una industria energetica diffusa, ma integrata, con basso tasso occupazionale, caratterizzata anzi da una forza di repulsione della forza lavoro.

Dopo una fase di richiesta lavorativa alta, tra sprint finali, costruzione di nuove infrastrutture per la seconda vita dei poli (tramite il gas) e cantieri per la nuova forma di produzione energetica, ci si ritroverà in una fase stabile di richiesta minima e competitiva di lavoro-ricatto a fronte di una crescita proporzionale di profitto.

Il respingimento di un numero sempre maggiore di lavoratori, sia quelli prima impegnati dal settore energetico, sia quelli comunque attivi su un dato territorio,si attuerà anche attraverso una maggiore meccanizzazione nelle centrali rimanenti finché avranno vita, ma sopratutto nello scambio denaro-terra nell’entroterra coltivato. Questo scambio, possibile grazie alla centralizzazione di capitali precedente da parte delle società impegnate nel processo e al fiume di investimenti delle politiche europee, prevede una cessione immediata di benessere ad una buona fetta di popolazione contadina, difficilmente in posizione tale da rifiutare, in cambio dell’uso univoco o comunque condizionato della terra.

Questo negherà sempre più la possibilità di una proprietà privata individuale proficua a lungo periodo, e quindi reindirizzerà plausibilmente la forza lavoro verso altri settori (rispetto al contadino e all’energetico) e magari anche verso altre latitudini, peggiorando lo spopolamento dell’entroterra. Il costo della terra salirà sia nella manutenzione (per stare appresso ai criteri premio di fondi come la PAC, oltre al rincaro delle materie prime) che nel suo valore di scambio (permettendone l’acquisto esclusivo a multinazionali e grandi proprietari), il suo uso produttivo diminuirà (spostando forza lavoro e ricalibrando la composizione di classe dell’entroterra), in proporzione con la crescita dell’economia di dipendenza delle importazioni (su cui assume centralità la nuova vita di Porto Canale a Cagliari).

Un settore che ne gioverà sarà il turismo, diffuso o centralizzato che sia, che fornirà una soluzione facile di investimento e di ripiego lavorativo, finché anch’esso non giungerà alla stagnazione. L’industria turistica rappresenta però anche un freno possibile alla ristrutturazione sfrenata, poiché l’immagine vacanziera è minata dal paesaggio distopico delle pale eoliche: lo stesso è vero al contrario, si tratta di vedere cosa avrà la meglio. Un altro potrebbe essere il settore estrattivo, qualora partisse realmente e si mettessero a valore i giacimenti di terre rare trovati o addirittura si volesse rimettere mano al carbone sulcitano. Le materie prime, sia fossili che costitutive delle nuove tecnologie, sono quanto mai necessarie a livello italiano, europeo e mondiale per la transizione.

Tutto questo processo è accompagnato da un rincaro crescente dei bisogni primari sociali, a causa sia dei costi di fornitura globalizzata (che subiscono cicliche variazioni concatenate a causa di crisi diffuse e interconnesse); sia da un innalzamento situato del prezzo da pagare per il mantenimento dello status quo, ovvero delle tasse e dei contributi cittadini per pagare i progetti infrastrutturali che lo Stato ha disposto per il cambio di fonte energetica e per interesse speculativo delle società monopolistiche sul mercato (a partire dalle bollette, nelle voci spese per oneri di sistema e nel totale imposte e IVA).

Il mantenimento del tenore di vita occidentale sarà quindi solamente a livello formale presso le nostre latitudini, dove rimarranno le possibilità di consumo precedenti a patto di un impoverimento e imbruttimento generale, sia del territorio sia della popolazione di fascia medio-bassa.

Torniamo alla fase in corso, fortemente contraddittoria.

In risposta alle differenti forme e ultime notizie della transizione energetica le reazioni in Sardegna sono state, in maniera schematica, le seguenti.

La politica sarda, su larga scala, si sta schierando in maniera netta contro l’invasione di rinnovabili. Si stanno delineando due correnti politiche all’interno delle istituzioni, tra lobby e poteri regionali.

Da una parte, la via della metanizzazione, in nome di una Sardegna ancora regredita. Questa posizione è figlia di una visione sviluppista dell’autonomia sarda e di conseguenza figlia degli interessi di Snam e Eni (e quindi dello Stato, a livello di rafforzamento geopolitico nazionale di fronte alle frizioni mediterranee e possibilità di scalata economica internazionale sugli altri Paesi del sud e sulla Francia); si vorrebbe ergere a tutela dei lavoratori dei poli industriali e delle centrali a carbone, che avrebbero così una seconda vita per diversi anni; farebbe in più il gioco della Saras, che ricopre un ruolo quasi super partes, investendo in tutto, energia verde e idrogeno compresi. Detto ciò la metanizzazione presenta problematiche di fondo poiché manca un adeguamento infrastrutturale minimo per accoglierla sia a livello industriale che domestico; resta comunque un auspicio della classe politica, che spera in una prima transizione intermedia al metano, che preceda quella vera e propria alla green energy.

Dall’altra una lettura anticoloniale esplicita si è diffusa come opinione comune. Viene ripresa dai Cinque Stelle in Consiglio Regionale (Desirée Manca) e da altri personaggi politici (Anita Pili), attestandosi come un sovranismo nimby abbastanza scivoloso. Dicono: la transizione green, se deve essere fatta, deve essere governata da e portare benefici ai sardi e alla Sardegna. Il territorio decida per sé e per i suoi interessi. Per questo si vocifera di un piano strategico regionale di individuare delle zone all’interno della Sardegna ritenute sacrificabili da proporre allo Stato come soluzione agli impasse di questa fase e in cui concentrare la costruzione degli impianti green. Non si sa se la scelta si baserà su una precedente compromissione dei luoghi o su altri criteri, né cosa si deciderà in merito all’eolico off-shore, ma bisognerà vedere se comunque questo piano troverà delle resistenze o se presenterà delle soluzioni accettabili per la popolazione e per la posizione politica storica della Sardegna, posto che lo Stato si pieghi alla proposta.

Merita un approfondimento la notizia dell’accordo italo-algerino Meloni-Tebboune del gennaio 2023. Si è creduto che fosse certo un rilancio del GALSI: questo è stato smentito come un errore di traduzione durante la conferenza, e le forniture algerine rinforzate passeranno per i due gasdotti esistenti (Transmed e Greenstream) e per via navale. Tuttavia, la smentita tardiva ha dato il tempo a chi sogna la metanizzazione di scoprire le carte. La loro posizione generale è la seguente: “la Sardegna ha la possibilità di arrivare al 2030 con il metano algerino del Galsi e nel frattempo iniziare ad utilizzare le proprie energie rinnovabili, magari gestite dalla Regione e non da faccendieri in trasferta, per riconvertirle in idrogeno, il vero combustibile del futuro”. Il GALSI è una tipica grande opera di Stato, quasi da fantascienza, ma non era improbabile che la si riportasse sul piatto: le forniture algerine, dopotutto, sono molto importanti per l’Italia e per l’Europa con il blocco russo e la prospettiva dell’Italia come hub di distribuzione energetica rientra negli schemi di sicurezza nazionale, economia autarchica e sfida all’Europa che caratterizza il direttivo Meloni. Già si diceva che il piano Draghi sulle rinnovabili fosse da riscrivere e che si fermerebbe, o comunque si rallenterebbe, così l’invasione eolica.

Ma tutto ciò, anche con l’ipotesi del GALSI, era invece improbabile che accadesse: era più plausibile che l’Europa cogliesse la sfida della Meloni e lasciasse passare il gas, imponendo di contro comunque una transizione verde a ritmo magari più lento lasciando in piedi tutta la programmazione attuale per il 2030, salvando capre e cavoli. In altre parole, il rifornimento energetico italo-europeo, il rafforzamento nazionale italiano, la concreta transizione verde europea, sarebbe passata sulle spalle del Sud e della Sardegna.

È curioso che la metanizzazione venga vista sia come una soluzione proficua per l’isola, e questo non solo sul piano economico (sebbene sia descritto come “poca roba per le famiglie, di più per le imprese e le industrie”), ma anche sul piano politico. Una forma di riscatto verso le dipendenze italiche: il GALSI, dando all’Italia un ruolo strategico in Europa, permette all’isola di “fare un grande favore all’Italia intera e sarebbe bene vederlo ricompensato adeguatamente.” Quello che sognano è che la Regione la spunti, in una sorta di centralizzazione autonomista: il tramonto del progetto GALSI potrebbe quindi far nascere ulteriori tensioni a livello istituzionale.

Passando ad un livello più territoriale e piccolo-istituzionale, quasi tutti i sindaci interessati dai progetti di eolico offshore si sono dichiarati contrari (unico escluso pare sia il sindaco di Olbia). Le motivazioni sono varie: chi per questioni di principio (“non ce l’hanno chiesto prima e non lo vogliamo”), chi per motivi paesaggistici (“si vede dalla costa”), chi per motivi turistici (“disturbano il flusso di yacht”), chi per motivi energetici (“non porterà alcun beneficio all’utilizzo energetico del paese”), chi perché “ha già dato” (come Teulada) e qualcuno per posizione politica indipendentista.

Diversi sindaci si sono opposti, per gli stessi motivi vari, ai grossi impianti a terra, come da poco a Santu Lussurgiu, ma similmente a Villanovaforru, nel Sarcidano e intorno ancora al Montiferru. La carta vincente per tutti è la costituzione di comunità energetiche, gestite chiaramente da Enel e altri, e questo si vedrà quanto prenderà corpo nei prossimi anni.

Sulla questione gas vi sono esempi particolari come Torpè, dove si è mossa un’opposizione basata sulla vicinanza del deposito al centro abitato, piuttosto che sul deposito in sé, con anche un attacco al cantiere. Oppure Portoscuso, dove l’opposizione si è inizialmente basata sulla vicinanza della nave gasiera al centro abitato e del fondale portuale troppo basso, per poi anche mettere in discussione la conversione e seconda vita a gas delle fabbriche limitrofe, riflettendo sulla fine del conseguente continuo inquinamento a favore dei posti di lavoro per dedicarsi possibilmente al turismo. O ancora, Giorgino, dove l’opposizione si è basata sempre sulla vicinanza dell’impianto rigassificatore a scalo mercantile al borgo di pescatori e al Porto Canale, con sostegno pieno della sinistra locale che problematizza l’utilizzo del combustibile fossile in sé. Sulla possibilità di un rifornimento urbano tramite dorsale metano i sindaci rimangono perlopiù indifferenti e solo alcuni esponenti della ConfArtigianato si sono espressi a favore, in cambio di finanziamenti per la piccola industria. Per il gas rimane centrale la decisione di ARERA in merito ai piani di SNAM a Portoscuso e Porto Torres e sui piccoli scali di rigassificazione, lasciando possibilmente Oristano (Santa Giusta) l’unico imbocco gasiero in Sardegna.

La Politica, quindi, si divide tra un realismo conservatore che vuole tenere i posti di lavoro, e gli interessi strutturati sul territorio, per più tempo possibile, e un ecologismo burocratico che segue il cambiamento ma lo ostacola, figlio della degenerazione della sinistra europea.

Più interessante il livello capillare, dove la contraddizione è più forte: tutti vogliono egoisticamente mantenere lo status quo e rimangono attaccati al tenore di vita attuale; nessuno vuole cedere qualcosa al cambiamento che viene richiesto e che si renderà necessario per mantenere tale tenore di vita. Lo stallo prodotto per ora si tiene, complice la pesante e lenta burocrazia, campo esclusivo su cui si sta giocando: le cose potrebbero cambiare se questo piano dovesse rompersi.

Sardinnia Aresti