Di Salvatore Mannuzzu (2011).

La costruzione di un’appartenenza, quindi di un “noi”, è una leva contro il proprio tempo. È un principio di lotta. Il “noi pastori”, cioè quel noi eravamo che tanta parte ha nei frammenti di identità della gente di quest’isola, sembra racchiuso in un tempo mitico, come fosse opposto a un tempo storico, come avrebbe scritto Placido Cherchi. Ma spesso si resta ostaggi del mito, restando privi di armi contro la storia. Il testo che di seguito ripubblichiamo di Salvatore Mannuzzu esplora una tensione che ci pare decisiva: lo scarto tra l’irriducibilità del “noi pastori” alla storia e l’irrompere della storia che devasta quell’appartenenza. Non possiamo non confrontarci con la storia che ci ha devastato. Siamo un suo prodotto.“La storia qui esiste, come in ogni altro luogo”, scrive Mannuzzu; ragionare delle condizioni storiche della vita del nostro noi, di come questo sia stato condizionato da forze nuove, è allora, sembra, il primo requisito per rintracciare le condizioni di una nuova appartenenza… anche rispetto a quella figura archetipica del pastore, strappata a un mito – forse – mai esistito e catapultata nella storia; in questa nostra storia fatta di industrialità, subordinazione e profitto ma pur sempre alla ricerca di una resistenza alle forze storiche della statualità e del rapporto capitalistico come governo complessivo del rapporto sociale.

La lezione più importante per noi sardi di Maurice Le Lannou – lo studioso francese che nel 1941 ha pubblicato un libro fondamentale sull’isola (Pâtres et paysans de la Sardaigne) – è che in Sardegna la geografia ha sempre pesato in modo insopportabile sulla storia. Le Lannou ci insegna a leggere la nostra lunga, contraddittoria peripezia come una dialettica tra i durissimi vincoli della geografia e le domande di vita, le domande di storia che noi abbiamo proposto nel faticoso volgere dei tempi. È così che siamo diventati quelli che siamo, impiegandoci millenni.
Però a volte, in Sardegna, nel guardare un paesaggio, o anche nell’assistere – con una specie di meraviglia – a un gesto umano, nell’ascoltare lo spiegarsi d’un canto a tenore, può sembrare che quei millenni non ci siano stati: che non ci sia stata storia ma solo geografia; geografia e quel poco che le aspre condizioni della geografia permettono, anzi determinano. Ma è un abbaglio dal quale ci si deve scuotere. La storia qui esiste, come in ogni altro luogo; e pure i suoi silenzi, le sue distanze, le sue apparenti assenze sono storia. Qualsiasi pietra, la più remota, qualsiasi voce, la più antica, qualsiasi vicenda, la più umiliata, anche qui da noi, soprattutto qui da noi, è intrisa di storia.
E dobbiamo capire i prezzi di questa storia. Prezzi davvero molto alti, per chi ha dovuto pagarli. La cornice ha sempre stretto terribilmente il quadro; e il quadro non sarebbe quello che è, noi non saremmo quelli che siamo, senza quella cornice. Che è entrata nel quadro, intrecciandosi e mischiandosi con le sue linee, diventandone parte viva: parte d’ogni momento della nostra vita.
Tutto questo tutto questo che abbiamo convenuto di chiamare geografia, con le sue conseguenze estreme di chiusura e solitudine – si è verificato in una misura particolare, apparentemente assoluta, unica, dentro l’universo dei pastori. Tanto da restringerne i margini di libertà quasi fino a negarli; tanto da rappresentare quelle vite come possedute completamente dal genio dei luoghi. S’intende che poi non è mai stato così: anzi il punto di vero interesse si trova in quanto è successo dentro quei ristretti margini di relativa libertà; come si è convissuti col crudele genio dei luoghi, o addirittura come ci si è ribellati ad esso – se non altro, la qualità delle sconfitte umane. E s’intende nessuno dei sardi è mai stato totalmente estraneo rispetto all’universo dei pastori – al “noi pastori”, qualcuno diceva. Anzi, se esiste una cosa comune a tutti, in fondo a storie tanto diverse fra loro come le nostre di sardi, se esiste una radice patria, è nel “noi pastori” che bisogna cercarla.
Io posso dire solo della mia esperienza; e se mai tentare su di essa un approssimativo inizio di riflessione. Posso solo essere chiamato come testimone (in genere più a carico che a discarico). Testimone di che cosa? Nella mia famiglia – per quanto io mi spinga indietro con la memoria, e con le memorie, quelle tramandate – non ci sono mai stati pastori. Eppure… eppure esistono fatti di quel mondo, di quell’universo, che ho vissuto: e non posso non sentirli miei – momenti non secondari della mia biografia.
Ho trascorso parte dell’infanzia in un paese industrioso del Meilogu, Nord Sardegna: un paese di caseifici e conce di pelli ovine, ben lontano da quelle che oggi chiamiamo “zone interne”. Lì ho frequentato alcuni anni delle scuole elementari; e ricordo d’aver visto una volta, fra le bancarelle e i lumi ad acetilene della festa patronale, un bambino sconosciuto: molto diverso da me e dai miei compagni, anche dai più poveri. Un bambino che aveva i capelli lunghi fino alle spalle: nerissimi e come mai pettinati, una specie di selva – allora era impensabile che un maschio portasse i capelli lunghi. Ma ancora di più mi aveva stupito di quel bambino, più o meno mio coetaneo, qualcos’altro: una diversità profonda, quasi radicale. M’era sembrato – come dire? – una specie di animale strano; di animalino selvatico, dagli sguardi spaventati e insieme temerari.
Era un piccolo servo pastore, che non aveva mai frequentato una scuola – analfabeta a vita, dunque – e consumava la sua infanzia in non so quale salto sperduto, alle prese con un gregge di pecore o di capre; con l’unico conforto a sera del fumo che si addensava nel buio d’una capanna di frasche. Non so bene se allora io fossi capace di stabilire un nesso fra questo bambino e un personaggio ormai di stanza nel paese: un vecchio che s’inoltrava per i vicoli selciati, vittima di mai stanchi dileggi, barcollando e agitando un rozzo bastone, mentre emetteva urli di richiamo a un gregge immaginario; a un gregge che non esisteva più, e comunque da anni e anni non era più affidato alle sue cure.
Era questo un servo pastore in disarmo. Solo molto più tardi seppi per caso che quando era morto avevano dovuto tagliargli via col trincetto i logori scarponi chiodati: antica opera d’un ciabattino di paese e parte del suo salario di servo pastore; non era stato possibile sfilarglieli dai piedi. Tuttora mi pare che questo fatto esprima il senso della condizione di quell’uomo e insieme della sua esistenza: una condizione incancellabile che si era confusa con quell’esistenza. Come si confondeva con l’esistenza d’ogni pastore, riempiendola tutta, tanto da divenire biografia; l’unica biografia di molti esseri umani, in Sardegna.
Potrei continuare a lungo in questo inventario, attingendo alla memoria. Ma voglio concluderlo ricordando la giovane domestica – una ragazza – cui ero affidato nella prima infanzia, e che talvolta mi portava con sé nella sua casa. La tata che m’insegnava severamente a raccogliere e baciare il pane quando mi cade- va di mano; la tata prepotente che a ottant’anni mi rinfacciava d’avermi quon- dam troppo accontentato. La tata che senza quietare i miei rimorsi dopo s’è presa un posto in non poche delle storie che ho scritto. Si chiamava di cognome Crabuzza; e solo adesso mi rendo conto che crabuzza significa piccola capra.
Esagererei se dicessi d’essere stato allevato da una capra, io borghese per quattro quarti. Ma certo nella mia formazione quel mondo di pastori ha influito in modo considerevole, tanto da lasciarmi una sorta di – incompleto, mutilato, distaccato, contraddittorio – senso d’appartenenza.
Senso d’appartenenza che credo comune a molti sardi: anzi proprio, in genere, dell’intero immaginario sardo. Salvatore Satta ha scritto nel Giorno del giudizio che tutti i sardi guardano a Nuoro, capitale delle Barbagie dei pastori, come a una seconda patria. E a me pare che ciò resti in qualche modo vero. Sì, quella seconda patria ha dilatato i suoi confini ben oltre gli insani montes delle Barbagie. L’anima più segreta della Sardegna viene dal “noi pastori”: l’anima che i sardi vogliono avere, anzi ritengono sia la loro. Affonda le radici nel mondo pastorale il fantasma dell’identità sarda che noi sardi evochiamo ogni giorno, sino a renderlo presenza consistente e vera. Ci arriva da quel mondo il sogno che a noi piace sognare: un sogno dei tanti che a forza d’essere sognati – l’ho detto un’altra volta – forse si mischiano con la realtà.
Ed è vero che da quel mondo del “noi pastori” ci separano non poco tempo e non poche cose; ma le culture degli uomini sono vischiose, tardano a scomparire: sopravvivono all’estinzione dei fatti che le hanno generate come sopravvivono tutte le sensazioni d’un arto amputato.
Sicché per noi sardi è un adempimento capitale fare i conti con quel mondo, con quella nostra radice – radice patria possiamo continuare a chiamarla.

Quale fosse, quel mondo, bastano a dirlo i due testimoni che ho evocato poc’anzi, traendoli dalla mia memoria: il bambino selvatico e il vecchio un po’ demente, pastore d’un gregge che non esisteva più. Era un mondo terribile, rendeva terribile la vita di chi ci viveva dentro e imponeva gesti terribili.
La sua più profonda e più completa ricognizione è stata compiuta da uno studioso scomparso prematuramente nel 1969: Antonio Pigliaru. I cui scritti sulla materia (Sardegna civiltà di pietra, con F. Pinna e G. Dessì, Roma 1969) rappresentano una summa definitiva e un punto di riferimento del quale anche oggi non si può fare a meno. Pigliaru mostra la vita del pastore sardo – ora citerò le sue parole precise – come un continuo «stato di necessità», tra «miseria strutturale», solitudine e insicurezza: la vita «peggiore che possa essere vissuta» – «triste die ch’aspettamus sos ch’in su mundu bivimus», triste giorno che aspettiamo noi che viviamo al mondo. Secondo questa ricognizione, conclusa o anzi interrotta per sempre nel 1969, il pastore è «solu che fera», solo come una bestia selvatica, dentro la natura «improvvida ed ermetica», dentro «la disperata solitudine della natura», su quella «terra vuota». E la sua «cultura è troppo vicina alla natura per essere meno dura di quanto sia»; e ogni «sistema sociale è vissuto da lui come sistema della natura».
Manca il tempo per riferire in tutte le articolazioni la ricerca di Pigliaru – più celebrata che davvero conosciuta. Io ho provato a farlo in altre sedi, qui posso indicarne solo le coordinate. Che sono poi le coordinate entro le quali si iscrive la vita dei pastori sardi in un periodo storico molto lungo – ora concluso, consumato: diventato altro.
Bene. Il pastore reggeva allo «stato di necessità», nella cui morsa era preso, trasformando la sua esistenza in resistenza: in una lotta «a mani nude», capace di «trovare i varchi giusti al momento giusto». Per sopravvivere egli doveva valere: non solo «essere forte» ma «saper essere forte», non solo «essere ladro» ma «saper essere ladro» (ladro anche di uomini). S’instaurava così l’etica dell’abilità: quel mondo poteva risparmiare solo su balente, s’abile. Pigliaru si serviva di Ma- chiavelli per capirlo – e farcelo capire.
Ma il balente se voleva reggere, se non voleva diventare fera – homo homini lupus, noi diciamo -, si doveva dare delle regole. Regole sue, regole del “noi pastori”, giacché in quel terribile mondo naturale le regole dello Stato arrivavano solo in forme controproducenti: stolida repressione di sempre, confino di polizia. In quel terribile mondo dove il mero fatto – su connottu – tendeva a farsi legge, la legge che il “noi pastori” si dava imponeva la vendetta – la ragion fattasi – come prova del valore più alto, del più essenziale requisito: essere balente; ma insieme assegnava alla vendetta dei limiti, con precetti dotati – in rapporto alla ferocia del contesto – d’una loro «complessità», d’una loro «civiltà». La realtà è che in ogni «società chiusa», «immobile», «negativa», «l’attitudine al combattimento» è inevitabile, Pigliaru ripeteva con Bergson. E allora un «codice di guerra» è il massimo di civiltà possibile.
Si contrapponevano così due ipotesi di società: quella moderna, dello Stato, improntata a regole astratte di solidarietà generale – spesso solo nominali, purtroppo – e quella del “noi pastori”: nella quale la solidarietà vigeva unicamente fra custrintos (fra parenti, vicini, amici…) e per il resto ognuno rimaneva solo, abbandonato al suo destino.
Insieme si svolgeva uno scontro, un «catastrofico scontro» diceva Pigliaru, fra due sistemi giuridici. Non si trattava solo di qualche norma, pure importante. Il “codice della vendetta” di per sé implicava il totale chiamarsi fuori della sua comunità dalle logiche consociative moderne: presupponeva un atto fondativo di regole di vita diverse da quelle dello Stato; regole non solo con un’altra misura ma anche con un’altra fonte di autorità. Perciò viene da dire che il “codice della vendetta” era una costituzione.
(Anche Maurice Le Lannou, in un articolo del 1963 su «Le Monde», parlava di una «società residuale, richiusa su se stessa in termini sempre più limitati e stringenti, legata a un’etica anteriore ai codici» dello Stato; e diceva che «lo Stato, la sua giustizia e la sua polizia appaiono ai pastori della montagna come le manifestazioni di un’occupazione abusiva»).

Che cosa poi è successo, a quel mondo? Dove è finito, cosa ne resta ai giorni nostri? Cosa sono diventate le vite dei pastori? Già il “noi pastori” era parte d’una «società non omogenea», «in crisi»>, «dualizzata»: con due padroni e forse anche due fedi. Una società in via di mutazione: immobile solo in una componente «residuale», che Pigliaru diceva «irriducibile alla legge» dello Stato e succube alla «pedagogia dei nonni». Però non erano cambiate le due caratteristiche più significative del “codice della vendetta” (se così vogliamo continuare a chiamarlo). Restava l’estraneità alle logiche di solidarietà generale dello Stato moderno; e restava la situazione – oggettiva e soggettiva – che produceva quell’estraneità: «Le forme con cui la civiltà moderna penetrava in Barbagia» non erano «capaci di realizzare riforme morali» adeguate, creando «nuove condizioni oggettive di vita e di lavoro».
Facciamola breve, ormai: a voler arrivare con un salto dentro i giorni nostri, bisogna riconoscere che quella estraneità e quella situazione, oggettiva e soggettiva, più o meno restano tali e quali. Ma insieme sono accaduti dei veri e propri ribaltamenti. Si è accentuata, fin quasi a precipitare, la «doppia formazione culturale» del pastore barbaricino; si è acuito in modo lancinante il «conflitto bilinguistico». Intanto la pastorizia nomade è finita, almeno nelle forme d’un tempo: il pastore non è più «solu che fera»; o se una solitudine gli rimane non è più quella del confronto «a mani nude» con l’inclemenza totale della natura. Giacché lo scenario del mondo – del mondo intero, il pianeta, l’altra delle due lingue che il pastore adesso parla – manda segnali d’una profonda crisi di senso. Sono intervenute due novità fondamentali. C’è da un lato la perdita perfino simbolica della scommessa che si riteneva più alta: quella dell’industrializzazione («in fabbrica con i gambali di pastore!»). E nella Sardegna centrale sono insufficienti le alternative, gli sbocchi: economici ma non solo, anche sociali, culturali. Le campagne e i paesi cacciano via la gente, si svuotano secondo proprie logiche. Le aggregazioni politiche, sociali, culturali faticano a stare a galla: faticano parecchio, quando non colano a picco. Il vecchio mondo è sconquassato, la terra trema sotto i piedi che la calpestavano con una qualche fiducia; e poco si vede – certo non si tocca, non è a portata di mano – un nuovo mondo credibile, nel quale valga la pena di abitare.
D’altro lato si afferma la religione dei consumi, diviene religione e vita prevalente: il mondo in cui vale la pena di abitare è questo! Sono sirene che arriverebbero fin dentro la più remota pinnetta – se i pastori si rifugiassero ancora nelle pinnette. Non si tratta solo della televisione o dell’universo della réclame, che è l’universo televisivo per eccellenza; ma certo la televisione è il veicolo principe, diciamo la tribuna di tutto: e ancor più la metafora di tutto.
E che ne è, a questo punto, del “codice della vendetta”? Qual è la sua eredità ora che alla solitudine della bestia selvatica, accerchiata dalla natura ostile, dalla geografia nemica, si sostituisce quest’altro sbaraglio? L’antico codice, il “codice della vendetta”, non esiste più: l’apparato dei suoi valori – delle sue “complessità”, della sua “civiltà” – salta in aria: letteralmente scoppia, impazzisce, dentro la tenaglia di anime e cose, come sono diventate. E chi viveva sotto l’antico codice oggi si trova privo di riferimenti: riferimenti che bene o male orientavano le esistenze, costituivano identità collettive e individuali. Oggi quelle identità si disfano e altre identità faticano a sostituirle, perché all’apparato dei valori scomparsi stenta a subentrarne un altro e all’antica legge della neutralità, del silenzio, del rifiuto tarda a succedere nelle coscienze un’etica del- la solidarietà generale, un senso del vincolo che unisce tutti gli umani – e s’intende tutti i cittadini.
Resta allora, agli orfani del “codice”, la legge della neutralità e del chiamarsi fuori da ogni idea di Stato, dell’insofferenza di qualsiasi limite pubblico. Resta: ma in un vuoto che minaccia d’essere totale. Dov’è infatti il balente d’antan? Ubbidiva, abbiamo visto, a un modello morale, dentro una situazione di necessità; oggi non solo quella necessità, ma anche le “abilità”, le giustificazioni che essa dava, i saperi che essa ispirava sono perduti, se la religione dei consumi esaurisce il moderno, sconvolgendo il regnum hominis – paesi, case: sa bidda, sa domo. Il balente non è più abile, diventa isconcadu, senza testa: a questo si riduce la “pedagogia dei nonni” – pedagogia di fonti e nostalgie culturali persino “alte”: si riduce alla mistificazione della memoria, dell’esperienza tramandata, di su connottu.
E allora la forza o la simulazione della forza può diventare mera violenza; e qui e là scoppiare gratuita, comunque sproporzionata, inedita nella sua essenza. Mentre attorno il contesto collettivo è, in non piccola misura, quello del vecchio silenzio e del vecchio rifiuto; e dura uno spaesamento terribile, nello iato fra antichi codici che non bastano più, in cui non si può credere più, e nuovi codici che non fanno decisivi passi avanti.

Come concludere? Secondo il profeta Geremia esiste un resto d’Israele destinato alla salvezza. Così ci piace pensare che un resto di sardi, e di “noi pastori”, alla fine possa trovare scampo, superando il gorgo e il guado, alto sulle teste qualcuno dei superstiti Penati e al seguito le greggi di pecore, la musica immortale dei campanacci. Non c’è speranza in Sardegna senza un tale resto; e non è vera speranza se non si porta dentro anche il “noi pastori”.
Ma sempre più i pastori sardi vivono – come tutti – in un mondo dotato di molte anime – alcune assai vive e proprie anche di loro pastori; in un mondo la cui complessità continua a crescere: e certo non è un mondo chiuso e immobile. Si muove, invece: benché non sia facile capire in quale direzione, le spinte sono contraddittorie.
La peripezia di quel mondo – del nostro mondo – è in corso, e questo che stiamo vivendo è solo un punto di passaggio d’una storia che solo altri potrà di- re, dopo, dove ha portato, come è finita – a parte che, sappiamo, non finisce mai.

In La pastorizia mediterranea. Storia e diritto (secoli XI-XX) a cura di A. Mattone, P. S. Simbula, Carocci, Roma, 2011, pp.111-116.