Pubblichiamo di seguito un contributo che mette sotto critica analisi e approccio di alcuni scritti dell’Internazionale Vitalista.
Negli ultimi tempi, grazie all’interesse e agli sforzi di alcuni compagni, abbiamo potuto leggere alcuni testi tradotti e confrontarci con i redattori del sito italiano “Comitato corrispondenza e traduzione – Roma” aderente appunto all’Internazionale Vitalista, passati per Cagliari poco tempo fa.
In particolare le analisi proposte nei testi “Meme con la forza” e “Meme senza fine” hanno animato interessanti scambi molto partecipati, che denotano la diffusa ricerca di nuovi strumenti di visione e approfondimento delle dinamiche sociali, in particolare dei movimenti di lotta.
Convinti che non esista una ricetta perfetta, ma anzi che la curiosità sia l’approccio più sano e produttivo in questa fase storica, pubblichiamo questo contributo che apre delle brecce di critica a nostro avviso molto stimolanti.

Vita amara

La figura del Servo Padrone di Hegel è meno astratta di quanto si pensi. La paura come motore, non una paura qualsiasi, la paura della morte. Non si è in grado di combattere se ci si considera capaci di eliminare il nemico, ma quando si è disposti ad essere uccisi dal nemico. La comodità rende il padrone molle, rende il servo molle, ed ecco che la storia si ferma. Il rifiuto della comodità, la scelta di una pulizia morale, che è diversa dell’igiene, sono alla base di tutto. Come rendere il pavido impavido, come convincerlo che non perderà una seconda volta, soprattutto armarlo. Il servo non ha niente, per lui la riconciliazione, il mantenimento della vita, significherebbe il lento dileguare dell’esistenza. Solo l’antitesi resta, l’antitesi totale: essere disposti ad essere uccisi, essere disposti all’eliminazione concreta del nemico. Solo posta in questi termini l’antitesi ha la sua serietà, il resto non solo è filosofia, è pratica borghese, che svuota la politica della serietà, che è l’elemento propriamente rivoluzionario.

Il marxismo non ha mai propagandato la lotta per la vita, all’opposto, il suo metodo porta a una lotta contro la vita. Alla base c’è il disprezzo della forma di vita borghese, c’è la scelta di un modo preciso di vita a discapito della vita in generale. Questo punto di vista esistenziale è certamente in contrasto rispetto al liberalismo che elegge la vita a valore supremo, al di sopra di libertà, uguaglianza e fraternità, che sono valori solo perché possono essere barattati con la sopravvivenza. Il liberalismo, nella sua fluidità, abbraccia tutta la vita, dal Fascismo all’Internazionale Vitalista. Comunismo e Anarchismo invece non credono che la vita abbia valore in quanto tale, ma solamente in quanto degna di essere vissuta. Per raggiungere questa dignità la vita deve negare se stessa, deve rifiutare di vendere il proprio diritto per mantenersi, deve cercare la morte, idealmente e fisicamente. Il militante marxista dice al lavoratore: «Lascia la tua vita. La sopravvivenza è miserabile. La morte nella lotta è preferibile». Lottare per la vita genericamente intesa non è una strada percorribile, visto che la sopravvivenza è garantita entro i limiti prescritti; per la vita va ricercato un senso. Il senso non può essere ricavato da dati economici e da formule.

Fare una rivoluzione significa attaccare il modus vivendi di una società. Non ci può essere una nuova “vita” se non si estingue quella precedente, se non si distrugge, se non si fa tabula rasa. Ciò che però non sanno i fanatici del riot è che questo tipo di distruzione totale esige una forza creativa ancora maggiore, presuppone già un altro modus vivendi.

Proprio ora si adotta lo slogan liberale «le ideologie sono morte», proprio quando la domanda di ideologia, ideale e morale, è in costante crescita. Fortunatamente per i “compagni” rimane solo uno slogan. Se infatti si avesse davvero la coscienza tranquilla davanti alla morte delle ideologie, non si andrebbero a pescare certe schifezze dagli Stati Uniti per sopperire alla mediterranea mancanza d’idee. Queste dottrine, messe insieme alla buona, sono il surrogato delle peggiori tendenze liberali all’interno del marxismo, racchiudono le peggiori parole d’ordine borghesi: “post-ideologia”, “fluidità”, “libertà”, “vita” ecc..


Lo stesso termine “vitalismo” in Italia porta il marchio della destra. I paragoni sono comunque ingiusti: l’elaborazione filosofica e politica di D’Annunzio è cosa ben più pregevole del meme. Anche nel fascismo d’altronde c’è vita. Il fascismo è un istintivo e irriflesso rifiuto della vita borghese, è la vita borghese che avvelena se stessa. Il borghese, spinto dall’ideologia liberale e dal suo sistema capitalistico nella palude del nichilismo, sviluppa la malattia del fascismo, o meglio, il fascismo è la fase acuta della malattia liberale. In questa epilessia il fascista si dibatte tra le catene borghesi solo per restare sempre più avvinghiato. Per mettere in atto la farsa della sua rivoluzione il fascismo ha adoperato il metodo marxista, talvolta meglio dei marxisti, bisogna ammetterlo. L’esperienza socialista di Mussolini è un fattore decisivo, al contrario di quanto si potrebbe pensare. Le conseguenze di una delusione sono in generale sottovalutate a livello biografico, non solo per quanto riguarda la storia.

Se si assume questa prognosi del fascismo, che è altra cosa rispetto alla “malattia” di Croce, si arriva a delle conclusioni inaspettate.

Se il fascismo è la malattia del borghese che non riesce a superare se stesso, e che quindi diventa più autenticamente borghese nell’uccidere, nel reprimere, nello sfruttare e nel rubare, allora il soggetto più a rischio è il “compagno”!

La disillusione, la frustrazione, il risentimento, la misantropia, il cinismo ecc. uniti ad una costituzione istruita e morale, fanno dei “compagni” dei potenziali “camerati”. Si noti bene: il termine “istruita” fa riferimento a una particolare fede nella cultura, nella scienza e nella razionalità genericamente intese. Secondo questa credenza, che unisce il PD ai collettivi anarchici, la cultura è capace di arginare tutti i mali del mondo, fascismo compreso.

Peccato che l’incapacità del borghese nel superarsi non sia dovuta all’ignoranza o alla stupidità – solo degli analfabeti possono credere che l’ignoranza di Mussolini sia la causa del problema – ma alla sua povertà spirituale, che non ha nulla a che vedere con la cultura o l’intelligenza. Nella società capitalista i primi ad essere “svuotati” sono gli strati superiori. Questo è il privilegio degli intellettuali: essere arati per primi.

I “compagni” sottovalutano il vuoto spirituale, lo avvallano, oscillano tra il rifiuto di qualsiasi cosa non si conformi al proprio preconcetto e la prostrazione acritica davanti al nuovo, solo perché nuovo. I “compagni” non hanno il coraggio di abbandonare i propri dogmi, ma non hanno nemmeno abbastanza fede per difenderli dalle eresie più aberranti.
I “compagni” hanno smarrito la via, o forse peggio, visto che per smarrire una cosa bisogna prima averla trovata. Non è questione di giusto o sbagliato: chi intraprende rettamente un sentiero sbagliato arriva comunque da qualche parte e da qui può correggere l’errore. Evidentemente i “compagni” sono sempre stati trascinati dagli eventi, non hanno mai seguito una strada bensì una bandiera che, a dispetto dei discorsi sulla libertà, non si sono mai scelti; hanno dovuto accettare loro malgrado un testimone passato dalla Storia.
Lottare per la “vita” significa ridurre la politica ai minimi termini. La vita aspetta forse qualcuno per difenderla? Un lavoratore ha forse bisogno che qualcuno gli ricordi di non morire? Il voler ridurre tutto al pragmatismo, che di pragmatico a ben vedere non ha nulla, alla “piazza”, alla dimensione “locale”, sono tutti sintomi di cattiva salute. Quando tutto è perso, quando non c’è via d’uscita e la vita, quella individuale, perde di senso, sembrano esserci due opzioni: o ci si attacca ancora di più alle vecchie idee fallite, o si adottano nuovi ideali, purché appaiano anche solo vagamente convincenti. In questi frangenti si è troppo fragili per lasciare spazio alla riflessione, bisogna semplicemente «credere, obbedire, combattere», tirare la cinghia per salvare quel poco di vita che rimane.

Sul termine “obbedire”, è il caso di chiamare in causa il più famoso dei vitalisti:

«Ogni morale, in antitesi com’è al laisser aller, rappresenta una buona dose di tirannide contro la “natura” e anche contro la “ragione”. […] L’elemento sostanziale e inestimabile di ogni morale sta nel fatto che essa è una lunga costrizione: si richiami alla mente la costrizione grazie alla quale ogni linguaggio ha raggiunto forza e libertà, “in ossequio a leggi arbitrarie”, come dicono gli anarchici, che con ciò si illudono di essere “liberi”, liberi spiriti. È tuttavia curioso il fatto che tutto quanto esiste o è esistito sulla terra di libero […] si è sviluppato in virtù della “tirannide di tali leggi arbitrarie”; e, sia detto con tutta serietà, è molto probabile che proprio questo sia “natura” e “naturale”, e non già quel laisser aller!». (Nietzsche, Al di là del bene e del male, 188).

“Autonomia” un punto d’arrivo più che un punto di partenza, l’autonomo non è ancora autonomo, ma vuole diventarlo, sa che per diventarlo ha bisogno di costringere la propria volontà e la propria vita entro argini precisi, si intuisce già che per giungere all’autonomia bisogna paradossalmente rinunciare ad essa. È palese però come questa rinuncia sia solo apparente, se l’unica autonomia che ci è concessa nella società capitalista è quella di essere individui soli, padroni di noi stessi solo dove non ci sono padroni, ossia dove non esiste la legge. Ma il significato originario di autonomia non è quello di vivere al di fuori della legge, ossia senza padroni, ma di darsi la propria legge, di essere padroni di se stessi nella propria legge. Ma la propria legge non corrisponde all’arbitrio, bensì all’obbedienza, alla disciplina che educa l’arbitrio, che lo limita per raggiungere un fine. Se si accetta questa definizione è evidente che la legge esterna e la propria legge siano meno diverse di quanto si pensi. La propria legge anticipa la legge esterna, una legge esterna che deve ancora essere scritta, la legge di una società che deve ancora venire. Per libertà si intende erroneamente la fuga dalla legge piuttosto che il fare la legge, e questo è contrario al concetto di autonomia, tanto più se si pensa che la libertà fuori dalla legge è la libertà borghese per definizione. Lottiamo per la libertà, ma quale libertà? Il liberalismo, non a caso, prende il nome della libertà e fonda su di essa il proprio potere; distinguere la nostra libertà da quella del nemico è il primo passo per riscattare il marxismo dall’assimilazione nel panorama politico liberale.

In questo senso cosa viene fuori dai riot, dal loro laisser aller, per parlare la lingua dei gilets jaunes? Questi movimenti vengono riassorbiti dal sistema con una facilità disarmante. Il fatto che, ad un certo punto, cerchino sempre, più o meno esplicitamente, una sponda istituzionale non è sintomo di un’ingenuità della “rabbia”, bensì è un atteggiamento naturale: i gilet jaunes assumono questa precisa forma proprio perché non c’è un’organizzazione capace di condurre efficacemente la rivoluzione; non sono solo una reazione al sistema ma anche all’impotenza della stessa società. Da queste piazze emerge, tacitamente, un’istanza sulle altre: «facciamo il riot perché vogliamo andare oltre il riot, ma non vediamo nulla». Purtroppo gli elementi che dovrebbero essere più politicamente consapevoli, sedotti dall’estetica dello scontro, non colgono questo bisogno; non hanno nessun interesse nel mettere in discussione le proprie pratiche, si lambiccano il cervello su come riprodurre il riot all’infinito, per il proprio appagamento personale e per una perversa gratificazione morale. Così questi movimenti si esauriscono, ricadono necessariamente nel sistema e nella società che li produce.

In tutte queste esperienze c’è la confutazione pratica del Vitalismo, c’è la prova che la vita nuda può semplicemente riprodurre se stessa, ma non già un’altra vita. L’acqua, con la sua fluidità, è vita per il Leviatano, non per chi lo combatte.