Riceviamo e pubblichiamo

Le voci e i fatti

Girano alcuni audio whatsapp. Invitano a far scorte. Da lunedì annunciano uno sciopero dei camionisti per il caro-benzina. I supermercati non saranno riforniti. Davanti ad alcuni supermercati e pompe di benzina col cartello over 2euro le code si formano effettivamente. Qualche ragionevole comunicatore parla di psicosi e di non dar retta alle voci. Solo spauracchi, niente di documentato. I fatti però ci sono e tangibili: i rincari sotto gli occhi di tutti e il malumore degli autotrasportatori che convocano un’assemblea a Tramatza nella serata di mercoledì. I “padroncini” del trasporto gommato con a carico il costo del loro lavoro non reggono e, a catena, chi sta sopra di loro non garantisce aumenti, strozzato a sua volta. Chiedono l’aiuto dello stato. In coda. Anche loro. Come chi in coda aspetta gli sgravi sulle bollette promesse per fronteggiare la crisi ucraina.

Un’insostenibile crisi energetica

Che qualcosa succederà per davvero certo non si può dire. Ma certo è nell’ordine del verosimile. La guerra vera ha effetti verosimili. Per noi. Quanto succede in Ucraina accelera l’insostenibilità delle catene di valore occidentali e i nostri standard di consumo e riproduzione sociale. La filiera lunghissima nelle sue connessioni globali, dove la cover del cellulare in plastica arriva dalla Cina con Amazon in 48 ore a cinque euro. Imballaggio, trasporto aereo, gommato, smistamento, consegna: tutta la sostenibilità della produzione, della circolazione e del consumo di merci è assicurata dalla compressione del costo del lavoro, e da costi di consumo energetico incredibilmente sottosoglia. Il primo effetto della guerra è l’abbattimento di questa soglia, l’insostenibilità di questa catena al minimo aumento dei costi fissi sui mezzi di produzione – non sono forse questo i consumi energetici per ciascuno in tutte le attività lavorizzate dalle quali ricava denaro? Piaccia o no, è così che la guerra si presenta, per ora, dalle nostre parti. Si può provare a chiedere al rider deliveroo quanto gli si sia abbassato il pagamento del suo cottimo a consegna e quanto spende in benzina per vedere quanto si sia ristretta, a parità di lavoro, la sua “parcella” mensile da partita iva operaizzata e quanto si sia eroso il suo reddito complessivo per l’aumento dei consumi “necessari”. O più semplicemente magari chiedere a questi stessi camionisti… quelli degli audio, sì. I parenti prossimi dei forconi siciliani del 2011 e dei Gilets Jaunes del novembre 2018, lavoratori del periurbano impossibilitati a non lavorare senza macchina e impossibilitati a lavorare profittevolmente per l’aumento dei costi della benzina.

La guerra è un’impresa capitalistica che forza a un riposizionamento strategico i concorrenti globali traendo una posizione di vantaggio sui tempi di questa conversione coatta. Nell’ordine dei verosimili effetti: nord stream2 muore, ma un altro gasdotto magari servirà l’Europa passando per il Mediterraneo con la Sardegna di mezzo. Il Galsi è fermo ma non morto. Altri progetti aspettano. Richiedono tempo però e, a dispetto delle sbandierate transizioni verdi restano dei riposizionamenti strategici a struttura invariata. Non si tratta infatti (solo) di dubitare della conforme eticità ecologica dei nuovi assi di approvvigionamento. Il punto è che resta invariata una struttura della catena del valore che conta ancora di riprodurre forza lavoro, intere filiere produttive e riproduttive e trarre profitti su costi di consumo energetici ridottissimi. Non è questa solo un’oggettiva fragilità capitalistica. È il mondo di cui non si può fare a meno agli occhi di tutti. Non una credenza, ma un’effettività. Quella che per nessuno ci sia un’alternativa immediata a produrre e consumare come prima. Sotto questo aspetto, con buona pace delle varie COPn19, non c’è nessuna conversione ecologica possibile riformisticamente in grado di risolvere le crisi capitalistiche a venire. E quelle presenti. Quelle che minano le condizioni impossibili di riproduzione con costi sempre più elevati per ciascuno.

Intermezzo recente e prossimo

I lockdown per il covid hanno portato in piazza sotto la bandiera delle riaperture assieme ristoratori e camerieri. Chiedere di poter lavorare come prima per quanto questo fosse impossibile. Il covid mette a nudo la fragilità di un modello di profitto rispetto al quale non c’era alternativa in seno alla forma sociale capitalisticamente mediata: lavorare come prima avrebbe significato ammalarsi e quindi comunque interrompere il ciclo. Il punto è che non c’è alternativa al lavorare come prima in seno alla forma sociale capitalisticamente mediata. Questo il senso delle rotture che abbiamo davanti come fenomeni sociali effettivamente di massa. Nel piccolo, nel 2019, il punto di arresto dello sciopero dei pastori risiedeva proprio in questo medesimo aspetto: l’aumento effettivo del prezzo del latte al litro che si sarebbe dovuto pagare ai pastori avrebbe minato i profitti degli industriali e dei distributori nei mercati internazionali tanto da compromettere l’intera filiera e in ultimo lo stesso anello più basso, per l’appunto i pastori. Una vittoria impossibile, anche quella, ma solo alle condizioni di riformabilità capitalistica.

Il possibile oltre l’insostenibile

Bisogna allora guardare un po’ più dentro al fatto che l’accelerazione della guerra mette in crisi l’intero mondo al quale apparteniamo.
Per orientarsi a singhiozzo:

1. Opinione. Un’opposizione alla guerra è impotente fintanto che pray for Ukraine resta l’egoistica cornice dominante di opinione a garanzia delle nostre impossibili condizioni di vita e riproduzione sociale.

2. Movimento. Non c’è spazio per un movimento sociale opposizione alla guerra se non attraversando il riposizionamento forzoso strategico imposto dal conflitto alla nostra parte di mondo.

3. Segnali. I primi effetti verosimili della guerra appaiono tangibilmente, per noi, in questa parte di mondo, le code ai distributori e davanti a supermercati. Drammatico nella sua grottesca sproporzione ma effettivo.

4. Contatti. Le code ai distributori o ai supermercati, gli autotrasportatori che minacciano lo sciopero non sono fenomeni irrilevanti nella costruzione di un’opposizione alla guerra. Sono prime reazioni nell’ottica della conservazione della propria forma di riproduzione capitalistica ora minacciata. In questi istinti e nella loro forma di credenza risiede l’attaccamento alla vita per come è. Un’inevitabile condizione per lottare per quel che può essere.

5. Opposizione. I tempi del riposizionamento strategico a struttura invariata delle potenze dominanti nella nostra area non garantiranno nell’immediato la salvezza dalla compromissione delle forme di vita alle quali eravamo abituati. I termini dell’opposizione alla guerra stanno in questo spazio-tempo: tra i tempi imposti dal conflitto perché questa parte di mondo ristrutturi e l’impossibilità nell’immediato di una riproduzione sociale pensata altrimenti per milioni di persone. In mezzo un possibile da costruire: non rassegnato all’impossibilità immediata, non consegnato alla logica di potenza che garantirebbe quanto c’era prima.

6. Posizione. Intendere l’opposizione alla guerra in questi termini significa interpretare i piani e le opere prossime di conversione dell’approvvigionamento energetico non come battaglie di posizione ma come effetto della guerra e allo stesso tempo sua matrice.

7. Alterità. Non si tratta né predicar sventura né di rassegnarsi ma di cercare in questo spazio-tempo della crisi accelerata dalla guerra un’opposizione che suggerisca un’alterità, più che un’alternativa, rispetto alla nostalgia di un ritorno impossibile alla comunità umana del capitale con questi standard attuali di produzione e riproduzione delle vite. Questo è al centro della guerra. Questo al centro della contesa energetica. Possiamo suggerire un orizzonte di aspettativa diverso del mettersi in coda …