37 anni fa nelle campagne di Oliena, nella località di Osposidda, si verificavano dei fatti che segnavano profondamente la storia della Sardegna, una sorta di linea di demarcazione. Per la prima volta gli appartenenti di una comunità si schierarono fianco a fianco de sa zustissia nella caccia a dei banditi. La fine della storia è tragica, e forse proprio per questo non va assolutamente dimenticata. Pubblichiamo un articolo uscito sul numero 6 di NurKùntra che ricostruisce la vicenda e ne descrive gli elementi essenziali.

Catza grussa.

Discutendo con le nuove generazioni sulle storie di repressione dello Stato in Sardegna, sul suo uso della forza violenta dentro le contraddizioni del nostro territorio, è facile imbattersi in vuoti di memoria storica.

Memorie cancellate ad arte da un’imposta normalizzazione, o rimosse spesso anche dal nostro punto di vista, forse per superficialità o per mancanza di approfondimenti su larga scala del nostro passato, anche recente.

Uno dei fatti di cronaca repressiva più rilevanti che non deve essere assolutamente dimenticato è il dramma avvenuto nelle campagne di Oliena, ad Osposidda, nel 1985. L’importanza di questa data non sta solo per l’efferata violenza dello Stato e dei suoi servi – in divisa e non – ma anche perché segna una sorta di mutamento antropologico per il nostro territorio.

Il pomeriggio del 17 gennaio, tre uomini armati sequestrano Tonino Caggiari, imprenditore olianese e proprietario di una rivendita di materiali edili. La voce del sequestro circolò subito in paese perché un dipendente dell’azienda, legato e imbavagliato, dopo essere riuscito a liberarsi riuscì a dare l’allarme, in brevissimo tempo 400 civili armati si diedero alla ricerca dei sequestratori con l’intento di liberare il loro paesano. Il 18 gennaio ai civili olianesi si affiancano altri 300 uomini tra carabinieri e poliziotti e nel Supramonte di Orgosolo avviene il primo contatto fra alcuni civili e i sequestratori che intimarono ai primi di andarsene. Dopo una breve colluttazione l’ostaggio venne liberato ma nonostante questo iniziò una vera e propria caccia all’uomo e una battaglia con centinaia di colpi che portano al massacro dei quattro sequestratori, i latitanti Giuseppe Mesina, Nicolò Floris e Giovanni Corraine di Orgosolo e Salvatore Fais di Santulussurju, che vennero praticamente giustiziati sul posto. Nel conflitto a fuoco venne ucciso anche un agente di polizia e ancora ad oggi non sono ben chiare le dinamiche, viste le traballanti e contrastanti versioni rese pubbliche dopo i fatti avvenuti in quelle vallate del Supramonte.

Le versioni ufficiali, con tantissime lacune ed omissioni, hanno da subito messo in evidenza che i fatti di Osposidda andavano oltre la solita schermaglia fra buoni e cattivi. Le ricostruzioni hanno avvalorato i sospetti che i cattivi dovevano essere annientati definitivamente, eliminati in ogni caso, probabilmente con una regia studiata prima e che prevedeva che i buoni si sarebbero allargarti e diffusi a dismisura, come monito per il tessuto sociale comunitario.

La stessa regia ha permesso di inscenare l’oltraggio del trasporto dei cadaveri dei banditi (o sequestratori?) sopra un camioncino fino a Nuoro, seguito da un corteo di macchine che strombazzavano per le vie del centro come si fa al rientro di una battuta de catza grussa, di caccia grossa, con i cinghiali uccisi da far vedere come trofei alle genti per strada. Una macabra prepotenza dello Stato avvallata da un codinzolo di civili resosi servi di una forzatura mai vista prima nel nostro territorio.

Per quanto riguarda i dubbi su tutta l’operazione, sulle omissioni e sulle deboli versioni ufficiali è interessante sentire la versione dei familiari del Floris, uno dei latitanti uccisi ad Osposidda, riportata da un lavoro fatto a riguardo dal Comitato di Solidarietà con il Proletariato Sardo Deportato: Colonizzazione – Autodeterminazione- Criminalità in Sardegna, l’altra storia del banditismo dell’Editziones de su Arkiviu – Bibrioteka T. Serra. Gli interrogativi che si son posti i familiari di Floris furono diversi e molto dettagliati: “Perché 4 latitanti si espongono tutti in una volta in un sequestro di persona quando due bastano e avanzano? Caggiari non era ricco a sufficienza per sostenere un’estorsione, per cui si può ipotizzare che il basista fosse disinformato, il che non è da escludere anche se è molto improbabile essendovi implicati 3 orgolesi in grado di conoscere realmente le cose. E’ più probabile un’altra ipotesi: cioè che si trattasse di una trappola fin dall’inizio. In altre parole il sequestro è stato messo in opera da altri semplicemente per trovare una inconsapevole esca (Caggiari ed anche i volontari olianesi) che infine fa cadere in trappola i latitanti; è probabile che il sequestrato sia stato consegnato per la custodia ai latitanti. Un altro elemento che supporta la nostra ipotesi è il fatto che rapito e rapitori si trovassero, ancora a metà mattinata del giorno dopo il rapimento, a poca distanza dal punto che è stato fatto il sequestro, appena un quarto d’ora di tempo in auto; il sequestro era stato fatto ben 16 ore prima che avvenga il primo contatto tra i volontari olianesi ed i custodi dell’ostaggio, non è strano che invece di camminare la notte, portando il sequestrato nel posto sicuro, ciò avvenga in pieno giorno? Questo fatto è plausibile solo se l’ostaggio è stato consegnato nelle mani dei latitanti non immediatamente dopo il sequestro, bensì molte ore dopo. Il che conferma la nostra ipotesi sulla montatura. Qualcuno nel corso del conflitto, urlava disperatamente di uccidere senza pietà i quattro latitanti: di chi fosse quella voce ancora non si è saputo. Perché al conflitto o meglio alla “battuta” vi era anche il giudice Norfo? Il compito di un magistrato non ci risulta sia quello di dare la caccia ai latitanti. Perché poi ai familiari delle vittime non è stata accordata la controperizia sui cadaveri? Corraine quando è stato ucciso, sorreggeva il suo compagno Fais, quindi non era in grado di difendersi né di offendere, eppure è stato massacrato. Mesina dopo che è stato rilasciato l’ostaggio ha percorso appena 100 metri ed è stato subito ucciso, Nicola Floris si suppone sia stato ucciso nella strada, a 5 metri dalla campagnola dei carabinieri, come mai nel punto che è stato indicato come il posto dove è morto non c’erano tracce di sangue? Perché non ci hanno consegnato gli effetti personali dei caduti? Perché i corpi risultavano massacrati, martoriati, mutilati?!

I giorni seguenti la battuta seguirono le dichiarazioni dei vincitori: “se la sono cercata” disse Scalfari l’allora ministro degli interni, “… rendo doveroso omaggio alla generosità delle forze dell’ordine, alla loro azione e all’intesa che si è creata con la popolazione. E’ questo l’insegnamento più bello” dichiarò l’allora presidente della regione Mario Melis. Il giudice Luigi Lombardini scomodò persino Orazio: “chi si adegua venga risparmiato, ma sia distrutto chi si ribella, aggiungendo poi: “… questi mascalzoni devono sapere che oltre le armi dei carabinieri e degli agenti di polizia ci sono in ogni casa doppiette degli onesti da usare contro chi mette in pericolo le persone per bene”. Solo qualche mese prima della strage, lo stesso giudice dichiarava alla stampa che allo Stato ogni pallottola costa solo 430 lire. Probabilmente una delle stesse che ha usato molti anni dopo per farsi saltare le cervella (il giudice Lombardini si suicidò nel suo ufficio a Cagliari nell’agosto del 1998 alla fine di un interrogatorio inserito in un’indagine che lo vedeva implicato nell’estorsione nell’ambito di un sequestro).

La scelta della popolazione civile di darsi in mano a sa zustissa, letteralmente alla giustizia, in questo caso alla forza militare dello Stato, e di fare con essa una commistione di intenti è stato uno spartiacque forse storico, almeno in queste proporzioni. Cercare di risolvere un fatto così importante per la collettività con l’aiuto della forza legalizzata dal supporto dello Stato, – almeno nei paesi del nuorese – ha tracciato un confine netto dentro l’antropologia sociale, criminale e non solo, di questo territorio. Le forze dell’ordine hanno sempre svolto il controllo dei fenomeni criminali e la loro repressione dentro un campo dove le parti erano ben distinte, con una presenza estranea fatta solo di qualche delatore, quasi sempre ben conosciuta dentro gli stessi meccanismi delle due parti e dalla stessa comunità, figure che spesso non facevano conseguentemente una bella fine, usati all’occorrenza dalle forze dello Stato, rinnegati e odiati dal resto della comunità, sia dagli interessati del “fatto” sia da chi ne era estraneo.

Quello che è avvenuto ad Osposidda ha gettato le basi della trasformazione, con una costante progressiva erosione, avvenuta da allora in avanti, anche se per fortuna non definitiva, del rapporto conflittuale o se non altro di distacco, fra le forze dello Stato e le comunità, soprattutto rurali, sarde.

L’odio ancestrale verso le divise dell’ordine costituito ha avuto in questo caso una notevole inclinazione, aprendo una voragine dove poter far inghiottire l’illusoria possibilità di un’esistenza reciproca e della possibilità che comunque lo Stato potesse contribuire, dentro le comunità, alla costruzione di una pacificazione sociale e alla risoluzione di problematiche, anche le più forti e considerevoli. Cosa ovviamente possibile fino ad un certo punto. Lo Stato in questa svolta guadagna terreno e si rafforza anche nei territori storicamente più ribelli e autonomi, dove la legge e lo Stato venivano concepite come una vera e propria sovrastruttura, come espressione del potere ( kie cummannat faket leze – chi comanda fa la legge) – (Gonario Pinna – il pastore sardo e la giustizia)- creando delle spaccature al loro interno e favorendo spesso nuove violenze consequenziali, dentro alcune aree chiamate di malessere, trovando così, (lo Stato), l’humus per potersi alimentare e legittimare nelle sue nuove strategie di repressione, fuori da ogni illusoria consistenza democratica.

Queste nuove strategie le abbiamo sotto gli occhi ogni giorno: controllo capillare del territorio, abuso sfrontato di denunce, blocchi di porto d’armi, perquisizioni con retate vecchio stile, uso massiccio di microspie ed intercettazioni telefoniche e ambientali, telecamere ovunque, sorveglianze speciali e così via; e non sono mancate vere e proprie occupazioni militari come accadde nel 1992 con l’operazione Forza paris.

Insomma una pacificazione forzata ma dai risvolti sociali per niente positivi e irrilevanti dal punto di vista comunitario visto che le discrepanze e le periodiche divisioni e fratture al suo interno esplodono comunque e non sono certo le divise a fermarle e tanto meno ad evitarle. Anzi.

I fatti di Osposidda confermano questo sbaglio di valutazione e l’abbraccio mortale, e proprio il caso di dirlo, con lo Stato e la sua forza.

Questo passaggio ha fatto si che la fiducia reciproca dentro le collettività e intorno alle contraddizioni, venisse intaccata, creando un substrato di isolamento ed egoismo sociale. In questa condizione i problemi comunitari non si risolvono più, in su vonu o in su malu, nel bene o nel male, fra i “contendenti” della comunità stessa con i meccanismi in uso da sempre (come le conoscenze o i favori reciproci e ovviamente le conseguenze spesso non semplici), ma si è diffuso un preoccupante ricorso (o una preoccupante fiducia) alle istituzioni dello stato. Questo cambiamento mette in crisi una pratica comunitaria secolare, che riguardava gli aspetti informali ed i comportamenti relazionali con un insieme di regole non scritte che comunque governavano, e in parte governano ancora, le nostre comunità ed erano e sono cruciali per il suo funzionamento.

Questo passaggio è importante per capire che lo Stato, le sue leggi e i suoi apparati interagiscono sui territori e non per i territori, per costruirne e alimentarne la loro sudditanza e subalternità sociale, da livellare e incanalare esclusivamente verso i suoi interessi, utilizzando qualsiasi mezzo necessario, ieri come oggi.