Oltre ai temi affrontati nelle scorse puntate, riconosciuti come strutturali nel tessuto sociale sardo, ci sono svariati altri aspetti minori ma pur sempre importanti, legati a scelte e strategie istituzionali o a fenomeni sociali, che abbiamo riscontrato durante questo periodo e ancora attuali.

In primis, non si può non citare la questione del green pass che qui nell’isola presenta degli aspetti endemici. La sua introduzione, diffusione ed imposizione confermano le attenzioni che lo Stato italiano riserva alla Sardegna. Sembrerà una banalità, ma per chi ha scelto di non avere o non usare il passaporto sanitario, vivere nell’isola è una bella seccatura, differente che vivere in qualsiasi altra parte dello stivale. Dalla Sardegna non puoi prendere una macchina e raggiungere un’altra regione, devi passare da un porto o un aeroporto, dove è appunto obbligatorio il pass verde, aumentandone quindi la forzatura all’utilizzo. Indubbiamente questo tipo di controllo non è una novità assoluta, già prima della pandemia entrare e uscire dalla Sardegna era decisamente complicato senza un tipo di tracciamento legato allo spostamento navale o aereo. La differenza sta appunto nella mancanza di possibilità di scelta d’impiego di questo ulteriore dispositivo di sorveglianza, che su di noi pesa in maniera differente. Questa complicazione interferisce nella vita delle persone in tantissimi modi: dall’impossibilità di incontrarsi con chi nello stivale o qua non ha il pass verde, a chi per mancanza o scelta di non utilizzo non può accedere a una serie di servizi assenti in Sardegna. Il generale blocco, o comunque forte rallentamento, degli spostamenti delle persone e in alcuni casi anche delle merci, come è intuibile, si sente molto di più nelle periferie di uno Stato piuttosto che nei centri nevralgici della logistica. Qui da noi è innegabile che si sia sentito con una reazione a catena, come ad esempio la massiccia diffusione degli acquisti online che ha messo in difficoltà alcune piccole economie locali, e che poi va ad alimentare quella dipendenza dalle forme di economia imposta che sono le uniche tutelate dalle istituzioni.

Un altro aspetto apparso in maniera periodica è invece legato a delle reminiscenze identitarie. Il primo episodio di cui abbiamo preso nota si è verificato nei primissimi giorni del primo lockdown quando, di fronte alla notizia dell’imminente chiusura totale, molti continentali arrivarono in fretta e furia nelle loro case delle vacanze qui in Sardegna. Al tempo sull’isola si erano verificati ben pochi casi, mentre in Lombardia si viaggiava su numeri decisamente maggiori. Questa scelta di fuga in una terra apparentemente incontaminata e sicuramente più adatta per un lungo e noioso soggiorno, suscitò un odio quasi razziale, un orgoglio antilombardo mai visto, introvabile anche quando servirebbe contro le arroganze tipiche delle settimane d’agosto di ogni estate. La spinta di tale odio va ricercata nella paura del contagio, ma ha indubbiamente dei caratteri che non possono essere tralasciati completamente.

Addirittura, alcune realtà di “movimento” pubblicarono dei comunicati, per nulla condivisibili, sull’argomento sfiorando posizioni vicine al razzismo. Non è facile dare un nome a questo fenomeno, non possiamo negare però che ci abbia colpito per la forza e la diffusione che ha avuto, e per la normalità con cui è stato visto anche da chi non lo condivideva.

Qualcosa di simile lo abbiamo vissuto anche nell’estate 2020, quando ad agosto in alcuni centri turistici molto rinomati è arrivata un’improvvisa impennata di contagi con le seguenti chiusure. L’insofferenza è stata soffocata dal ricatto del denaro, ma in alcuni casi ha comunque raggiunto livelli altissimi. Parliamo purtroppo di insofferenza becera, priva di qualsiasi ragionamento che possa permettere dei passi in avanti interessanti dal punto di vista della coscienza di cosa si è, di cosa si subisce e del perché. Ma anche in questo caso intensità e diffusione sono stati assolutamente fuori dal comune, se sono rimaste nel fumoso spazio dei social network e dei bar o se si sono trasformate in qualcosa di concreto non lo sappiamo.

C’è stato poi il rientro di tantissimi fuori sede, studenti che, con le università chiuse, per scelta o necessità sono tornati a casa, e lavoratori, spesso stagionali o in nero, che con le grandi chiusure hanno perso lavoro e soldi per pagarsi l’affitto. Alcuni di loro sono tornati dopo molti anni nell’isola, ed è stato interessante ascoltare le loro impressioni, in alcuni casi sconvolte dal livello di arretramento infrastrutturale nel quale buona parte della società sarda versa.

Questo fenomeno è un’anomalia nelle terre di emigrati; infatti, di solito chi parte torna a casa per le vacanze (estive o invernali) trovando una realtà artificiale, costruita per turisti, dove non si ha il tempo di vedere cosa c’è sotto il primo strato di brillantina. Questa volta invece il rientro è avvenuto d’inverno, è durato dei mesi, in un contesto difficile come quello del lockdown e molti non sono più ripartiti, alcuni spinti anche dal desiderio di provare a costruire sulle macerie di questa società o anche solo trattenuti da un rinnovato spirito d’appartenenza non ben definito. Il clima del lockdown ha probabilmente permesso a tanti emigrati di ritorno di rinsaldare i legami più stretti, quelli più vicini, convincendo alcuni degli indecisi a non ripartire.

Provando a tirare delle conclusioni si può dire che, come accennavamo all’inizio del testo, la pandemia non ha riservato grandi novità o sorprese alla Sardegna, anzi è stata una conferma su buona parte delle logiche di sfruttamento che subiamo.

Turismo, occupazione militare, ricatto industriale, pesantissime carenze infrastrutturali, dipendenza dallo Stato elargitore di sussidi e miserie varie, questi caratteri in alcuni casi sono emersi prepotentemente, in altri hanno fatto valere il loro potere economico o politico-strategico. Tutti questi settori hanno però vissuto una variante pandemica, nel senso che si sono saputi adattare in fretta e furia, godendo dei privilegi statali e degli appoggi servili delle istituzioni regionali.

Questo è stato possibile anche perché buona parte della società sarda vive sotto un fortissimo ricatto economico, chi del turismo, chi della Saras e così via. Ricatto che è venuto fuori in tutta la sua evidenza nell’assenza di un momento di rottura, nel mancato passaggio da un’insofferenza virtuale ad una ribellione concreta, anche davanti a prese per il culo colossali.

Ciò nonostante, ci sembra che la questione territoriale, i legami con i luoghi in cui si vive – e in alcuni casi la difesa di questi – abbiano riacquisito una notevole centralità nei discorsi politici, etici, di vita e prospettiva comune e individuale. I motivi saranno forse tanti e non siamo certamente le persone adatte per scorgerli tutti, però alcuni ci sembra di intravederli. Sentiamo che nell’ultimo quinquennio un rinnovato vento ha riacceso le questioni locali e nazionali – Kurdistan, Catalunya, Scozia e così via – andando a stimolare reminiscenze identitarie di cui forse le persone in questi anni complicati sentono di avere più bisogno che in passato, a questo si unisce un’urgenza sempre più condivisa di dover agire contro la devastazione ambientale.

Nel frattempo non si ferma lo smantellamento della sanità sarda, tanto meno la privatizzazione e cementificazione nelle coste e come se non bastasse siamo anche all’alba di una nuova invasione, quella dellagreen energy, fatta di pale e campi fotovoltaici.

Questi, come quelli che abbiamo citato nelle puntate precedenti, sono solo alcuni degli aspetti che abbiamo notato e sui quali a nostro parere potrebbero concentrarsi le rotture dei prossimi tempi, rotture che purtroppo saranno dense di contraddizioni, ma anche di spunti che chi lotta per la liberazione della Sardegna non potrà lasciar cadere nel vuoto.

Il nostro intento era quello di aprire un discorso, speriamo che queste pagine un po’ sconnesse siano uno stimolo per riprendere a confrontarsi.

Biccalinna / Mariapica