Nel voler tentare un’analisi sulla attuale fase pandemica pensiamo sia necessario valutare la condizione coloniale che la Sardegna subisce, a tal proposito ci sembra interessante pubblicare questo articolo che attualizza alcuni aspetti di queste logiche. Di seguito troverete l’articolo “Uno sguardo più approfondito: colonialismo” uscito nel n.3 della rivista Nc’at Murigu, che seppur in modo incompleto, aiuta a comprendere il quadro complessivo in cui si inseriscono le considerazioni a puntate che troverete “In mesu a su mari“.

Uno sguardo più approfondito: colonialismo

In Corsica una cospicua fetta di popolazione ha sempre ritenuto il turismo un’imposizione francese, un’ingerenza negli equilibri, negli usi e nei costumi isolani, una forma di sfruttamento delle risorse e delle materie prime tipicamente coloniale.

Non stupisce, visto che la Francia ha fatto del colonialismo un pilastro fondamentale nella costruzione della ricchezza e del potere che attualmente esercita sotto forma politica, economica e militare, in Europa come in giro per il mondo.

Il colonialismo francese è storicamente riconosciuto come uno dei più duri e più violenti che la storia europea abbia potuto conoscere, e nonostante le liberazioni formali di alcune colonie, Algeria su tutte, lo Stato francese non si è arreso, diventando precursore del neocolonialismo.

Il riconoscimento di stato coloniale è dovuto anche al fatto di aver avuto all’interno del suo impero delle fortissime tensioni, che neanche i più strenui reazionari avrebbero potuto nascondere. La liberazione dell’Algeria è stata possibile solo attraverso un vero e proprio bagno di sangue. Ma non solo, in Corsica per 40 anni il FLNC ha combattuto una vera e propria guerriglia, fatta di quasi 5000 azioni armate contro il colonialismo e i colonialisti francesi.

Forse è proprio dall’entità della resistenza corsa o algerina, o dal ribollire delle banlieus (che ancora esprimono in modo evidentissimo il giogo coloniale con cui la Francia sottomette intere popolazioni), che si riesce a comprendere quanto violenta e devastatrice sia stata l’opera coloniale dei francesi.

I corsi ad esempio hanno combattuto strenuamente l’economia turistica francese, anche perché vedevano in essa lo strumento con cui veniva lentamente erosa, poi attaccata, poi distrutta la loro cultura, la loro terra, la loro lingua. Il turismo diveniva la scusa con cui fare altre grandi opere infrastrutturali dalle quali poi non si torna più indietro.

Linee elettriche ad alta tensione, strade, autostrade, porti, aeroporti, tutte infrastrutture inutili in buona parte ai corsi, necessarie a rendere l’isola appetibile al turisti.

Nonostante le durissime lotte contro questa imposizione coloniale, la Corsica ha comunque subito una trasformazione socio-economica fortissima, e ora il turismo è uno dei perni dell’economia, anche per questo tutt’oggi è normale definire subalterno il rapporto tra Francia e Corsica, e questa subalternità spesso prende il nome di colonialismo.

Perché nel rapporto Francia-Corsica è oggettivamente riconosciuta una dimensione coloniale? Fra le varie cose perché c’è stata una lotta, durissima, e in parte c’è ancora.

E’ stato ed è l’anticolonialismo dei corsi a certificare il colonialismo francese? E’ il desiderio di liberazione che svela l’oppressione?

Ma in assenza di una lotta di liberazione viene meno anche l’oppressione?

Se in Sardegna non vi fosse una lotta semisecolare contro l’occupazione militare quest’ultima non vi sarebbe?

La Saras è stata vissuta e sentita come un’imposizione o come una scelta? Il turismo di massa cos’è? Come lo viviamo?

Il termine colonialismo ha indubbiamente una qual certa accezione passata, l’era del colonialismo nei libri di scuola viene collocata tra il XVI e il XIX, per poi trasformarsi in imperialismo e poi apparentemente concludersi nel XX con i movimenti anticoloniali e le lotte di liberazione.

La storia poi, almeno fra i banchi dell’università, riconosce che una fine vera e propria dell’era coloniale non si può tracciare, e allora si studiano nuove teorie, entra in scena il neocolonialismo, il postcolonialismo e via dicendo.

In estrema sintesi si può dire che in buona parte del mondo il colonialismo non ha mai cessato di esistere, si è solo evoluto, secondo delle esigenze di facciata e apparenza che movimenti sociali, spiriti democratici e diritti umani hanno tentato di imporre con più o meno ipocrisia.

E in tanti stati non è prestata molta attenzione neanche all’apparenza, basti vedere le condizioni di lavoro dei minatori dell’Africa centrale nei giacimenti dei metalli per noi tanto preziosi, utili nella tecnologia e gioielleria.

Le obiezioni sull’attualità o meno e sull’aderenza di una lettura coloniale della realtà non mancano, e qui infatti non si vuole zittirle, tutt’altro, si vuole provare a stimolare un dibattito sulla questione cercando di attualizzarlo alle vicende più recenti.

E’ quantomeno singolare vedere come parlando della stessa oppressione nel corso dei decenni, senza che vi sia mai stata una liberazione, questa abbia perso l’accezione coloniale. Perché?

Il riferimento per nulla velato ad esempio è all’occupazione militare della Sardegna, ma non solo anche alla militarizzazione esasperata che l’isola continua a dover mal sopportare. Ai fenomeni di emigrazione, o a quelli di sfruttamento del suolo e delle risorse a discapito dei residenti e a profitto di pochi investitori, spesso d’oltremare.

Senza banali nostalgie sembra necessario riproporre la questione dello sfruttamento delle risorse della Sardegna, del trattamento riservato alla popolazione e delle possibilità che ad essa vengono lasciate di autodeterminarsi.

Il mondo va avanti e noi anche, quindi è implicito riconoscere delle differenze da quando la Sardegna era riconosciuta senza dubbi come colonia dello Stato italiano, i dubbi sono su cosa sia cambiato da allora, se il termine sia attuale e aderente all’oggi, o se sia più interessante cogliere gli stimoli di nuove teorie, quali ad esempio l’estrattivismo di Raul Zibechi.

Per far questo si è cercato di analizzare le forme di sfruttamento del presente, per avere una visione panoramica dalla quale si possa capire se queste siano collocabili all’interno di un disegno più ampio e studiato chiamato colonialismo, o se siano delle forme di sfruttamento assimilabili a quelle di tutto l’occidente.

Tutte le strade portano al mare. L’imposizione del turismo di massa in Sardegna.

La Sardegna è ogni anno di più la grandespiaggiadello Stato italiano e di un pezzetto d’Europa, le risorse marine sono le uniche messe in evidenza da questa industria, e le più conosciute al di là del mare.

Purtroppo non sono le uniche ad essere sfruttate fino alla distruzione. Per rendere appetibile e vendibile il mare sardo in modo da poter fatturare il più possibile è stato necessario costruire un’enorme macchina turistica, che è ben lungi dall’essere soddisfacente per gli avidi palati di imprenditori e politici.

Gli investimenti fatti (l’ingrandimento dell’aeroporto di Elmas, conclusione della ss125 solo per citarne due dei più recenti) devono avere un adeguato ritorno, e tutte le possibilità perché questo avvenga per ora sono concentrate solo nei mesi estivi, in cui quindi qualsiasi tipo di risorsa dev’essere sfruttata e spremuta al massimo (se vi capita ascoltate le parole di un ristoratore qualsiasi del centro di Cagliari o di una località balneare a proposito di come dev’essere sfruttata lastagione).

Per gravità e entità del problema per primi vanno nominati i lavoratori stagionali, che vengono sfruttati in modo selvaggio, quelle ore sottopagate sono la materia prima che il capitalismo espropria oggi dalla Sardegna al posto di zinco, argento e piombo (e ovviamente anche il sudore e i polmoni dei minatori).

Ma c’è anche tanto altro.

Migliaia di case costruite (con buona pace per la cementificazione delle coste) per i turisti più benestanti.

Altrettante sacrificate dalle famiglie sarde e affittate per arrotondare gli stipendi, o vendute perché spesso i lidi vacanzieri diventano inospitali o eccessivamente cari.

Interi quartieri o borghi riqualificati per essere a misura e immagine di cliente, con conseguente aumento degli affitti e trasferimento forzato delle fasce più povere nelle periferie.

Sfruttamento esagerato delle risorse idriche, prosciugate per il verde dei campi da golf e per le inutili tre docce al giorno dello stile vacanziero.

Aratura selvaggia dei fondali marini a caccia di pesci per rifornire mercati e ristorantini che devono sempre avere spigola, orata, polpo e aragosta in menù, come se si trattasse di pomodori, patate e insalata.

Cambio radicale di vita per gli stagionali che per buona parte degli impieghi devono cambiare residenza, spesso trasferendosi dove lavorano, e interrompere così le loro vita mettendosi di fatto al servizio del padrone e sottostando al ricatto lavorativo che offre “o quello o quello”.

Spiagge e parcheggi a pagamento, spesso molto salato. Tonnellate di immondizia.

Diffusione di grandi catene di negozi e supermercati che distruggono l’economia locale di botteghe minimarket, piccoli agricoltori e allevatori.

Questo è il turismo estivo in Sardegna, ma non basta. A gran voce la classe imprenditoriale invoca aiuti economici e politici per continuare in quest’opera.

E da Roma a Cagliari la politica obbedisce, varando i bonus vacanza o il nuovo disegno di legge della giunta Solinas che in pieno stile berlusconiano rilancia la cementificazione delle coste.

Ma non solo, pur di favorire l’ascesa dell’economia turistica la regione non si fa scrupoli a dare ulteriori mazzate a categorie già in difficoltà che vengono ritenute scomode ai progetti di espansione dell’economia turistica, siano esse gli ambulanti di frutta e verdura, i pastori o altri. Attraverso l’appoggio all’installazione di grandi catene, grandi marche e in generale strutture facenti parte delle multinazionali più potenti del mondo (si pensi alle recenti aperture a Cagliari di IKEA, Burger King e Decathlon) si induce un cambio delle abitudini e dei gusti, una generale conformazione e omologazione che mette in difficoltà le attività locali e lentamente renderà i sardi i primi turisti della loro stessa terra, pronti a pagare per qualsiasi cosa e a disinteressarsi dello sfruttamento umano e ambientale che questo causerà. E spinge quell’afflato di legalità e indifferenza che farà sparire ambulanti e altri piccoli lavoratori semi-illegali.

La Regione non deve far altro che prendere progetti di espansione turistica già sperimentati altrove e adattarli al contesto sardo. Rendere i sardi i primi clienti delle strutture turistiche innanzitutto riduce le possibilità che nascano degli oppositori, questo è avvenuto con la trasformazione del centro di Cagliari, mal subita in un primo momento specialmente da alcuni residenti, ma poi apprezzata e utilizzata con gusto da tutti i cagliaritani che hanno un portafoglio che glielo può permettere.

In secondo piano rende più digeribili altri progetti che invece per i sardi non sono, ma che sono conformi a uno stile al quale ormai ci si è abituati, come ad esempio campi da golf, grandi alberghi, porticcioli.

L’altro elemento fondamentale da dover offrire ai grandi investitori è un bacino di mano d’opera ricattabile e basso costo. Le difficoltà nelle quali stanno cadendo quasi tutti gli altri tipi di economia in Sardegna diventano un trampolino per l’unica che attira capitali ingenti. E in questo la Regione non tenta neanche di nascondersi. Non ascoltare le richieste dei pastori e invece prostrarsi a quelle degli industriali turistici è un messaggio chiaro, ed è anche l’innesco di reazioni a catena che portano sempre dalla stessa parte. Lasciare che la crisi della pastorizia mieta le sue vittime vuol dire mettere una parte consistente di proprietari o affittuari di grandi porzioni di terra nella condizione di venderla, un po’ perché non hanno più bestiame un po’ perché non hanno più introiti, e non sarà difficile immaginare chi potrebbe comprare quei terreni. Nell’ultimo anno la Regione si è trovata a gestire la più dura protesta dei pastori degli ultimi decenni, ci ha messo quasi un anno a far arrivare i 14 milioni promessi, che nella sostanza dei fatti sono finiti nelle casse degli industriali caseari, proprio gli stessi contro cui si era scagliata la rabbia un anno fa, e la condizione dei pastori è rimasta identica.

Per il turismo invece non appena è scattata l’emergenza covid-19 sono subito stati stanziati 20 milioni del primo piano di aiuti.

Questo non stupisce più di tanto, è però importante rilevarlo e analizzarlo, perché un’istituzione che si piega al voler di imprenditori stranieri e gli spiana la strada a danno dei lavoratori locali, attua un meccanismo di stampo coloniale, o di qualcosa che gli assomiglia molto.

Infine mandare gambe all’aria tante aziende del comparto agropastorale significa mettere i dipendenti nella condizione di scegliere tra farsi assumere come stagionali o partire, e anche questo ricorda qualcosa.

Violenze e resistenze

Un altro aspetto che caratterizza la Sardegna e che se anche in calo rispetto al passato rimane comunque degno di nota è il carattere resistenziale e di propensione all’azione ben presente nei sardi.

Poco nota per lotte di massa, tafferugli, disordini, scontri di piazza, la Sardegna rimane la prima regione dello Stato italiano per numero di attacchi alle istituzioni, ma non solo quelle dello Stato quindi amministratori e forze dell’ordine anche quelle che potrebbero essere considerate delle istituzioni economiche, e quindi le banche e le poste, che sotto forma di rapina vengono visitate spesso e volentieri da banditi. Non mancano gli assalti ai porta valori e alle ville del lusso estremo nelle località turistiche più gettonate.

Queste forme di criminalità, molto diverse fra loro, hanno distribuzione omogenea in tutta l’isola, e vanno a rispondere, almeno in parte, a quel disagio sociale anch’esso distribuito omogeneamente.

Per quanto sindaci, prefetti e magistrati si dannino l’anima per tentare di arginare il fenomeno i numeri mostrano l’inefficacia di questo impegno.

La sfiducia nelle istituzioni si manifesta nella sua interezza, quando vengono scelte come obbiettivi cariche istituzionali, perché vi è almeno in parte il desiderio di una risposta precisa per qualche forma di torto subito e la scarsa propensione a far passare questa dai banchi di un tribunale.

Precisione e tempismo sono caratteristiche che favoriscono l’anonimato di chi agisce, il non recare mai danno a terzi per imprecisione, e la puntualità con cui alcuni affronti collettivi vengono restituiti crea una nebbia nella quale nella stragrande maggioranza dei casi le indagini finiscono in un nulla di fatto.

Se queste forme di conflitto asimmetrico e sommerso non è detto che siano ascrivibili a forme di resistenza vera e propria di sicuro non si può dire lo stesso per la controparte, che invece le tratta proprio come una sorta di guerriglia, liberando i suoi peggiori segugi sui sentieri dei potenziali

colpevoli, e accanendosi sulle comunità coinvolte con una rabbia e cattiveria – questa si spesso indiscriminata – ben nota in Sardegna.

Un esempio lampante di questo fenomeno è quanto accaduto nelle settimane successive alla fuga di Mesina dalla sua casa di Orgosolo, con la scusa della caccia all’uomo sono state perquisite decine se non centinaia di case e migliaia di macchine. La Sardegna centrale è stata completamente militarizzata, per l’ennesima volta lo Stato italiano ha voluto mostrare la sua forza e violenza, mascherate da legge e giustizia.

Oltre la militarizzazione del territorio garantita dalle basi militari, la Sardegna si avvale in quest’operazione di controllo di vari record come il numero di caserme, sparse anche nei centri più piccoli, le galere, il numero di effettivi nelle forze dell’ordine e anche gli effettivi nei servizi di guardiania privata, il corpo dei Barraccelli conta più di 5000 uomini.

Ma non solo, durante la lunga stagione dei sequestri furono creati e addestrati vari corpi speciali, ovviamente mai dismessi, che quando le tensioni aumentano iniziano a scorrazzare per le strade della Sardegna con una particolare predilizione per il centro – nord est.

Ma ancora non basta, la Sardegna è sempre in prima fila per le sperimentazioni su tecnologie di controllo, vedi il 5G.

In generale la repressione sociale è violentissima ed esasperata, se non si può dire che il fenomeno de sa zustissia mala mieta ancora le vittime come accadeva un tempo si può però notare come alcune dinamiche siano rimaste invariate. Essere schedati come poco di buono (qualsiasi sia la specialità che venga attribuita) significa avere gli sbirri al seguito per tutta la vita o quasi.

Negli ambienti pastorali continuano a non contarsi le perquisizioni negli ovili, i sequestri di materiali vari, le denunce, le misure di prevenzione e una generale intimidazione verso che non si allinea o collabora.

A Febbraio dell’anno scorso si è visto uno spaccato di tutto il bello e il brutto di quanto stiamo raccontando. Decine di attacchi alle cisterne del latte ed è finito sotto processo solo chi ha utilizzato con troppa leggerezza i video per promuovere le sue azioni attraverso i social, altrimenti gli sbirri si può dire che brancolavano completamente la buio. Anche nei momenti in cui la situazione si è scaldata maggiormente e le cisterne venivano fermate con le doppiette in mano, decine di azioni e nessuna delazione.

Ovviamente la risposta non si è fatta attendere, mille e passa denunce, perquisizioni, misure di prevenzione e una notevole intimidazione personale portata avanti dallo Stato con metodi mafiosi.

Un’altra pratica utilizzata con una certa ricorsività dallo Stato nei confronti della Sardegna è l’occupazione militare, operata con migliaia di soldati e poliziotti fatti venire appositamente dal continente per dare una stretta a una situazione di cui non riescono a venire a capo.

Negli ultimi decenni il caso più clamoroso risale al 1992, quando con l’operazione Forza Paris furono portati in Sardegna 8000 soldati, la scusa era il sequestro in corso di Farouk Kassam, peccato che il giorno che sbarcarono i primi soldati Farouk fosse già tornato a casa. I militari occuparono il centro e il sud Sardegna scatenando però una – da loro – imprevista fortissima ostilità diffusa, così forte ed efficace, che convinse gli alti gradi a interrompere l’operazione prima del tempo.

In forma minore è successo durante la lotta con i pastori, e in forma più subdola succede tutti gli anni con alcune grandi esercitazioni militari.

Quello che sembra abbastanza evidente è che seppur in una forma disordinata, per molti versi anche contraddittoria e non sempre esemplare, la Sardegna è tutt’altro che pacificata, e lo Stato italiano anche in questo caso sembra che quando lo ritiene necessario non si faccia problemi a usare senza tanti fronzoli il pugno di ferro.

Basi militari.

Senza voler cadere nella retorica dei soli numeri possiamo dire che la Sardegna è la regione più militarizzata d’Europa, vi si addestrano gli eserciti di mezzo mondo che nel loro prepararsi alle stragi di domani distruggono e contaminano mari, cieli e terre sarde.

Tralasciando l’approfondimento sui numeri, ricordiamo solo alcuni dati molto esemplificativi del significato di “occupazione militare”: le porzioni di mare e terra sottoposte a servitù dalle basi militari sarde sono superiori all’intera superficie della Sardegna, parliamo quindi di più di 22.000 kmq, il PISQ è grande all’incirca come la somma delle superfici delle città di Cagliari e Quartu, mentre il poligono di Teulada si accontenta di essere pari alla superficie della sola Cagliari, quindi circa 70 kmq.

L’aspetto che forse per questo lavoro merita di essere maggiormente approfondito è quello storico che ha portato a fare della Sardegna una sorta di porta aerei del Mediterraneo e che la vede tuttora in prima fila fra le regioni candidate a sviluppare le economie militari per diventare magari in futuro un vero e proprio comparto bellico. Possibilità ancora più probabile qualora l’economia del turismo di massa dovesse naufragare. Il turismo è uno dei pochi argomenti su cui i vertici militari cedono, come ad esempio lo stop estivo alle esercitazioni e la riapertura al pubblico di coste e spiagge dei poligoni, sarebbe infatti poco vendibile l’immagine della Sardegna tra asciugamani e esplosioni. Ma le ripetute prove di convivenza sperimentate fra le due attività economiche sono la dimostrazione che la volontà politica è quella di sviluppare entrambi i settori, imponendoli di fatto sui sardi.

Tra le varie vocazioni imposte alla Sardegna quella militare è una delle ultime, fu nel secondo dopo guerra che iniziò il processo – mai finito – di militarizzare l’isola. Lo Stato italiano fresco falso vincitore della guerra doveva ripagare salatissimi debiti con gli alleati, che percependo la notevole instabilità politica del vecchio continente e volendo avere degli avamposti europei nello scacchiere della guerra fredda scelse la Sardegna come parziale saldo.

Vennero così installate le basi quasi esattamente come le conosciamo oggi, fatta eccezione per La Maddalena dismessa una decina di anni fa, e giusto per la cronaca, mai bonificata.

L’imposizione delle strutture militari ovviamente non fu concordata con le popolazioni interessate, le terre non furono comprate, ma ovviamente espropriate, in alcuni casi distruggendo forme di economia locale anche ben avviate, come nel caso di un consorzio agricolo nel Sarrabus.

Per decenni in un clima di perenne preparazione alla guerra la Sardegna è stata letteralmente distrutta dalle esercitazioni di eserciti di mezzo mondo, con danni all’ambiente e alla salute incalcolabili nel vero senso del termine.

Questa vocazione imposta non portò assolutamente alcun beneficio alla Sardegna e ai sardi, certo qualche decina di dipendenti, ma la sostanza è che i paesi che hanno subito gli espropri in cinquant’anni hanno visto dimezzarsi la popolazione residente e ammalarsi una fetta di questa. Le regioni interessate – in particolare Ogliastra, Sarrabus, Sulcis e oristanese-guspinese – sono fra le più economicamente depresse dell’isola, impossibilitate e rese incapaci di crearsi un’economia e un’autonomia locale.

Questa condizione non è solo una conseguenza, è anche una scelta ben studiata dai Comandi militari, mantenere una popolazione sull’orlo del baratro economico vuol dire poterla ricattare con miseri posti di lavoro in divisa o nel ridicolo mito dell’indotto dell’attività militare. Ma il caso più eclatante dell’effetto del ricatto sono le due più grandi aziende della guerra presenti sull’isola. Cioè l’RWM e la Vitrociset, che inserite in territori depressi sono diventate il miraggio di tanti giovani e meno giovani, che si sentono quasi di non concorrere all’occupazione militare tanto sono stati rimbecilliti dalla retorica del lavoro e della strategicità di queste aziende da tutte le istituzioni, chiesa, stato, scuola e famiglia. E questa retorica ha funzionato talmente bene che le due aziende sono il fiore all’occhiello dei paesi che le ospitano. La RWM è ormai l’orgoglio di Domusnovas, ha preso il posto

delle favolose grotte di cui facevano bene a vantarsi i domusnovesi, che invece ora sono diventati esperti di bombe aeree e stragi in mediorente. E uguale si può dire di Villaputzu per la Vitrociset.

Se le responsabilità – come si evince dai toni usati in queste righe – delle popolazioni coinvolte non si nega, non si può però non considerare la capillare opera di propaganda militare fatta dalle varie istituzioni e la condizione di disagio socioeconomico su cui questa si è dispiegata.

I risultati più evidenti sono tumori e una triste complicità indiretta per la troppa poca ostilità che facciamo sentire alle divise mimetiche che ci ritroviamo come vicini di casa ovunque.

La questione della presenza militare in Sardegna è probabilmente l’esempio più emblematico – e forse paradigmatico- della questione coloniale. Probabilmente non ci si potrà mai sentire liberati dal giogo coloniale finché permarrà l’occupazione militare in queste proporzioni. Non è una questione di vittimismo, ma di provare a fare lo sforzo di comprendere che significato ha un’imposizione così sproporzionata rispetto al resto delle regioni dello Stato e delle profondissime conseguenze e ferite che essa ha causato nel territorio ma specialmente nel tessuto sociale sardo.

Il lavoro di un buon colonialista è quello di spezzare le comunità, di lisciare il pelo ad alcuni e bastonare altri, impedendo di fatto che una forza liberatrice gli si scagli compatta contro.

Se vi è capitato di andare nei paesi limitrofi alle zone militari (basi o fabbriche che siano) vi sarete senz’altro resi conto di questa situazione, e dell’incalcolabile danno che ogni giorno reca su tutte quelle popolazioni, divise in origine dai diversi torti (e rarissimi benefici) subiti per l’imposizione, unite nella sorte – o malasorte – imprevedibile che colpisce con le malattie e unite anche nell’essere costrette a subire una vocazione militare dalla quale non si libereranno tanto facilmente.

Un ultimo elemento che prova la stratecigità di questa imposizione è quanto e come questa venga difesa, gli antimilitarsti che si sono battuti negli ultimi anni sono stati repressi con accuse di terrorismo, nei loro confronti non è stato fatto risparmio di mezzi e fondi per controllarli, ascoltarli e pedinarli.

Prigioni.

Quando nel 1998 fu chiuso il carcere dell’Asinara in molti immaginarono, forse, che la Sardegna avesse terminato con il suo ruolo di Cayenna dello Stato italiano, è stato così per 15 anni, anzi meno. Nel 2008 con il nuovo piano carceri fu deciso che 4 delle nuove 8 strutture fossero edificate in Sardegna, i lavori durarono 5 anni. Da 7 anni quindi abbiamo di nuovo un numero di carceri spropositato rispetto al numero degli abitanti e dei condannati.

Ma non solo, siamo la regione con più carceri predisposte per il 41bis e siamo il luogo di deportazione prediletto dai ministeri dell’Interno e della giustizia per i prigionieri più “cattivi” (dai condannati per i reati di mafia al caso di Cesare Battisti).

Questo comporta anche un numero altissimo di secondini nell’isola.

Su questo per quanto riguarda il discorso che si sta cercando di fare in questo articolo forse si può aggiungere poco, in quanto la condizione è uguale se non peggio di trenta o quaranta anni fa.

Pastorizia e peste suina africana.

Rendere una terra disponibile a un’industria di massa come il turismo, vuol dire pacificarla e liberarla da tutti gli aspetti che vengono considerati poco appetibili dai potenziali investitori e consumatori.

Alcuni di questi aspetti sono riscontrabili in alcune abitudini secolari, endemiche e perfettamente adattate ad esempio all’orografia dei territori montani del centro Sardegna.

Il riferimento, più che mai esplicito, è all’allevamento brado, di suini, bovini e caprini. Questa forma di allevamento risale a tempi remotissimi ed è un ottimo compromesso di convivenza con l’asprezza di alcuni dei territori dove è più diffuso, come ad esempio tutta la zona del Supramonte e del Gennargentu.

In queste zone gli allevatori lasciano il bestiame libero di scorrazzare e grufolare in ampissime zone di bosco e montagna, poco rigogliose per via del carsismo, delle poche piogge e in generale per la conformazione geologica dei terreni che non favorisce la crescita di ampi pascoli.

Gli animali seppur formalmente liberi tornano tutte le sere dai loro padroni, dove trovano l’acqua, altro cibo e un riparo. Questo tipo di allevamento, l’esatto opposto dell’intensivo, produce delle carni e dei derivati di alta qualità e concede agli animali una vita più che degna. Per sua natura necessita di ampi spazi dove gli animali si possano perdere nel vero senso del termine. Ma non solo, pur essendo creato dall’uomo è in perfetta simbiosi con la natura, i cuccioli di maiale sono predati dalle aquile esattamente come quelli dei cinghiali, le vacche che muoiono per una caduta o di vecchiaia sono il banchetto di volpi e corvi e un tempo lo erano di grifoni, gipeti e avvoltoi monaco.

Ancora, le stalle e i ripari per gli animali sono perfettamente integrabili con il territorio non dovendo essere di grandi dimensioni e attrezzate tecnologicamente, non vi sono liquami da smaltire, ne inquinamenti.

Proprio questa simbiosi con il territorio è diventata la scusa per combattere l’allevamento brado.

Più precisamente la scusa si chiama Peste Suina Africana – PSA, un virus arrivato in Sardegna nel 1978 grazie all’importazione di suini vivi dalla Tunisia in alcuni allevamenti industriali del centro Sardegna.

Nei decenni la diffusione del virus si è notevolmente ridotta (lo dice anche il ministero della salute), ma nonostante questo viene usata come scusa per abbattimenti di massa di suini allevati allo stato brado. Questa pratica che ricorda quella usata – sempre in Supramonte – contro i banditi, prevede l’accerchiamento dei branchi di suini ritenuti pericolosi per il contagio e l’abbattimento tramite l’uso delle armi da fuoco. Poco importa se i suini siano effettivamente infetti o addirittura immuni.

Il vero obiettivo è colpire gli allevatori che si rifiutano di registrare presso le ASL tutti i capi, cosa tra l’altro impossibile con questo tipo di allevamento. La vera assurdità di tale scelta sta nel fatto che i suini bradi arrivano a una simbiosi tale con il territorio in cui vivono che comunemente si riproducono con i cinghiali (che quindi potrebbero diventare a loro volta fonte di contagio), questo a dimostrazione che il vero nemico non è la PSA ma l’allevamento brado. Inoltre c‘è da ricordare che la PSA non è assolutamente pericolosa per l’uomo al quale non è neanche trasmissibile.

L’anno scorso sono stati abbattuti centinaia di maiali, senza aver risarcito in nessun modo i proprietari, contemporaneamente gli industriali del latte abbassavano all’inverosimile il prezzo di acquisto del latte di pecora.

Se due indizi fanno una prova, eccola qua quella che serve a mostrare come ci sia un’intenzione più o meno ammessa, più o meno rivendicata di imporre – anche con la forza – un cambiamento di economie che porti all’estinzione di quelle storiche integrate con comunità e territorio, a favore di nuove, magari più redditizie ma anche più dannose sotto ogni aspetto.

Se la vicenda della PSA è particolarmente esemplificativa per quanto riguarda le pratiche, ciò che invece avviene nel mondo della pastorizia è più subdolo e contraddittorio.

Innanzitutto c’è da precisare che l’allevamento brado è enormemente più ridotto in ogni aspetto della pastorizia, un po’ perché sono meno le zone dove ancora si può praticare un po’ perché meno redditizio.

Il mondo agropastorale rappresenta una fetta molto importante dell’economia sarda, con più di tre milioni di capi e numerose industrie di trasformazione è uno dei capisaldi dell’occupazione in Sardegna, seppur in calo rispetto al passato.

L’anno scorso tra febbraio e marzo è scoppiata la guerra del latte, per la prima volta i pastori sono scesi in strada per bloccare tutte le vie di comunicazione e protestare contro una situazione che li sta portando verso un baratro.

Gli industriali a cui la maggior parte dei pastori conferiscono quotidianamente il latte pagano un prezzo troppo basso, che a stento copre i soldi di produzione e che sicuramente non permette a loro di campare.

Andrebbe ovviamente approfondita la questione ma trattandosi di un argomento assai complesso invitiamo alla lettura dell’articolo sulla guerra del latte apparso nello scorso numero di Nc’at Murigu. L’aspetto da far emergere in questo caso è come lo Stato si prodighi in aiuti veloci e efficaci verso alcuni settori e ne abbandoni completamente altri. Il motivo è che mettere in crisi una parte della pastorizia vuol dire liberare una parte dei terreni occupati dal pascolo e offrire nuove braccia alle industrie nascenti, turismo su tutte.

In sintesi l’impressione è che per gli interessi pubblici e privati, nelle zone del centro Sardegna la pastorizia possa tranquillamente continuare ad esistere, meglio se in grandi allevamenti ben sintonizzati con le esigenze degli industriali del latte a cui lo Stato non potrebbe mai fare il torto di togliergli tutta la materia prima, ma in costa no. Le coste devono essere disponibili per il turismo, e non basta che i pastori emigrino verso zone più interne, serve proprio che la cultura pastorale sparisca da quei luoghi, che nessun giovane aspiri più a lavorare con le greggi, perché è proprio nella cultura che la vita agropastorale crea, che lo stato vede un nemico, e questo non certo da oggi.

Se vi fossero stati dubbi, dopo l’esperienza dell’anno scorso questi sono stati fugati, più di mille denunce e nessun cambiamento, nessun aiuto ai pastori.

La capacità organizzativa, la solidarietà ricevuta e la precisione e determinazione nelle azioni, hanno dimostrato quanto ancora vitale e conflittuale possa essere un mondo che non è fatto solo di chi pascola o munge, ma anche di chi tutti i giorni vive le campagne e le vive secondo un codice che non ubbidisce a divise blu e giustizia dei tribunali.

Animali, foreste e mare.

Un’impronta assai evidente della violenza coloniale la ritrova chi con occhio attento e con un po’ di curiosità guarda la natura selvaggia sarda.

I segni e le ferite dei disboscamenti indiscriminati dei secoli scorsi sono ancora ben evidenti, decine di migliaia di alberi furono tagliati per fornire lo Stato italiano delle traversine necessarie alle linee ferrate del nord Italia. Intere foreste, alcune delle quali primigenie, sono state letteralmente rase al suolo, senza criterio e senza prospettiva, senza cioè preoccuparsi del danno ecologico che si stava commettendo, di cosa sarebbe rimasto dopo, o meglio cosa non sarebbe rimasto.

Ai giorni nostri sono giunti solo lembi di quello che 150 anni fa erano le foreste della Sardegna, qualcuno obbietterà che due secoli fa non esisteva la coscienza ecologica di oggi, che la povertà era troppa per rifiutare quei posti di lavoro. La verità è diversa in entrambi i casi, perché allora non ci si poté opporre all’imposizione autoritaria, quella di troppo fu la violenza con cui i piemontesi saccheggiarono tutto ciò che gli servì della nostra isola, mentre se parliamo di sensibilità e coscienza ecologica non c’era allora ma non c’è neanche adesso, visto che gli stessi meccanismi li subiamo ogni giorno.

Certo non sono più le foreste ad essere distrutte, il legno non serve più tanto e poi non è che ne sia rimasto molto. Il saccheggio a cui si fa riferimento è quello marino, il pesce della Sardegna viene venduto nei mercati di Lombardia, Piemonte, Trentino e Veneto a prezzo d’oro. Ogni mattina prima dell’alba dall’aeroporto di Elmas decolla un aereo frigo diretto a Malpensa carico di pesce sardo per le regione del settentrione. Ma non solo, il pesce sardo è anche il piatto più richiesto dalla massa di turisti che ogni anno si riversa in Sardegna, che oltre al mare vuole godere anche del sapore dei suoi frutti.

Per soddisfare queste richieste e cedere quindi al ricatto imposto dal valore della materia prima estratta, il mare intorno alla Sardegna sta morendo.

Tra dieci anni probabilmente mangeremo solo pesce allevato, il mare sarà vuoto, saccheggiato e distrutto da metodi di pesca assurdi e insostenibili per frequenza e numero di catture, ma non solo. Il vero schifo di questo fenomeno – di cui per certi aspetti i sardi sono responsabili quanto se non più di altri – è che quasi il 50% del pesce pescato viene ributtato in mare morto, perché sottotaglia e quindi non commerciabile. Cioè milioni e milioni di pesci che non si sono mai riprodotti vengono uccisi ogni anno per soddisfare il palato di quelli vogliono sempre e solo l’orata o la spigola.

L’aspetto che salta all’occhio andando ad approfondire la questione è che i colossi della pesca e della ristorazione si sentono perfettamente autorizzati a compiere questo scempio solo perché la legge glielo consente e il mercato li ripaga.

Le istituzioni come in altre mille occasioni non fanno ciò che dovrebbero, e sarebbe meglio che non facessero proprio nulla.

Anche la pesca ha il suo esempio paradigmatico della logica colonialista, parliamo della pesca del tonno rosso, nella quale i sardi ricoprono solo il ruolo di operai stagionali della mattanza il cui risultato (le 480 tonnellate di quote annue destinate alla Sardegna) viene destinato per il 90% al Giappone. L’assurdo si completa con il fatto che il tonno che compriamo sui banchi delle pescherie di tutta la Sardegna è il Pinna gialla dell’oceano pacifico. (per approfondire Tonno rosso e mattanza del numero 7 di NurKùntra)

Per provare a compensare il massacro ittico, vengono continuamente proposte nuove Aree Marine Protette (AMP) che da una parte danno l’idea di tutela dell’ecologia marina e dall’altro attirano ulteriori turisti, insomma due piccioni con una fava (nella realtà poi ne vengono create meno di quelle proposte perché l’iter burocratico è assai complesso e molto spesso le popolazioni locali si ribellano).

Quello che quindi si va delineando lungo le coste sarde è il celeberrimo “danno oltre la beffa”, enormi porzioni di mare distrutte, arate dagli strascichi e senza un pesce, intervallati da presunte oasi di vita fatte a misura di turista dove praticamente non si può neanche fare il bagno, vedi Villasimius o l’Arcipelago della Maddalena.

A ben vedere queste conseguenze le dobbiamo esclusivamente al soddisfacimento di esigenze esterne alla Sardegna, nel senso che se la pesca dei mari intorno all’isola fosse destinata solo ai residenti tutta la questione non si porrebbe.

Della pesca industriale quindi non c’è nulla che si possa salvare, i pescherecci stanno letteralmente distruggendo il mare, è solo doveroso far notare che è la richiesta a incentivare l’offerta. E’ che quindi l’industria del turismo – ma anche la nostra passione per i ristoranti – risulta essere la principale causa della pesca intensiva, senza regole e senza etica.

Le AMP a oggi non sono e non saranno la soluzione, in quanto vi è comunque concessa la pesca a residenti e professionisti (che quindi ne approfittano brutalmente) e poi perché una tutela a macchia di leopardo crea solo scompensi ecologici. Serve una nuova etica del mare e della pesca, che non potrà mai includere la visione che il mare di un’isola sia l’acquario di milioni di persone.

Industria

Nella lettura dello sfruttamento coloniale della Sardegna degli anni ‘60 – ‘70 il ruolo ricoperto dalle industrie e dalla loro forzata installazione ricopriva un ruolo fondamentale.

E’ singolare vedere come alcune delle previsioni tracciate allora si siano verificate, come in generale lo sfruttamento industriale non si sia ridotto in modo consistente, ma l’analisi invece non venga più sostenuta con uguale forza.

Senza voler analizzare le cause di questa trasformazione di vedute è interessante provare a fare una veloce attualizzazione di quello che può essere lo sfruttamento coloniale legato alla grande industria al giorno d’oggi.

Il mostro per eccellenza – la Saras – è più vivo che mai, neanche il covid è riuscito a ridurre la produzione, il fuoco delle ciminiere è sempre alto e la polvere nera sui davanzali delle finestre di Sarroch e Capoterra sempre di più.

Il potere economico che la Saras esercita è di chiaro stampo coloniale, la Sardegna viene sfruttata per la sua posizione al centro del mediterraneo per la parte più dannosa della trasformazione del petrolio, per ricevere in cambio solo i posti di lavoro ad altissimo tasso di patologie.

Non solo, con l’evoluzione della produzione di energia la Saras è riuscita ad allungare la sua longamanussu altre porzioni di territorio sardo, come la centrale eolica costruita in territorio di Perdasdefogu, questa installazione come tante altre non porta alcun beneficio energetico alla Sardegna, tutta l’energia è destinata altrove, andando ad incrementare il record di energia esportata, ma che come un vecchio classico non porta alcuna ricchezza o ricaduta tra i suoi abitanti.

Per secoli le materie prime sarde da esportazione erano i minerali, il legno eccetera, ora sono il vento e il sole. La retorica pseudoecologista prova a convincerci che dovremmo essere orgogliosi di questo ruolo, e che questa nuova industria è a impatto zero, ma la menzogna si cela dietro uno strato troppo sottile per non essere vista, almeno da chi la vuole vedere.

Infatti l’impatto ecologico delle pale è tutt’altro che zero, lo smaltimento dei pannelli usati è assai complesso, e il territorio sottratto per queste installazioni è l’ennesima storia di un parziale modello di sviluppo non voluto e mal sopportato.

Ma questi investimenti al giorno d’oggi sono intoccabili.

Il ricatto cui sottostà l’economia e parte della società sarda è spaventoso, la Saras non può essere messa in discussione, è diventata un modello di sviluppo per una fetta di territorio sardo. Ci sarebbe da chiedersi quanti l’hanno scelto e quanti l’hanno subito?

La politica è anch’essa succube del potere degli industriali a partire dal governatore, che infatti in pieno lockdown permetteva solo ai tecnici Saras di arrivare sull’isola e di non dover sottostare alla quarantena, solo a titolo di esempio.

A Portovesme invece le cose non vanno bene come a Sarroch, il polo industriale è entrato in crisi ormai da diversi anni, ma purtroppo la chiusura è ben lontana. La centrale dell’Enel funziona a pieno regime, e sembra che forse anche il vecchio stabilimento dell’Alcoa possa riaprire i cancelli.

Oltre l’enorme e incalcolabile danno ecologico fatto da questo polo industriale non bisogna dimenticare il danno sociale fatto al sulcis-iglesiente, con migliaia di persone che hanno varcato i cancelli delle aziende del polo, vedendo quel modello di vita e sviluppo come l’unica possibilità, e non riuscendo ora ad immaginarsi un futuro diverso per la loro terra. Infatti sono centinaia gli ex operai che desiderano più di ogni altra cosa la riapertura degli stabilimenti.

E sono almeno dieci i paesi che almeno in parte vivono degli assegni di cassa integrazione o delle pensioni di Portovesme, una pacificazione dall’acre odore di carbone che viene messa i discussione solo per progetti assimilabili alle stesse logiche.

Sarà un caso, ma proprio quest’estate, la prima di crisi del turismo delle ultime, sono tornati alla ribalta mega progetti di campi eolici marini e terrestri, di nuovo enormi investimenti che vengono da lontano, che non tengono in nessuna considerazione le specificità locali. E purtroppo sono sempre in troppi quelli che sperano e che sono pronti a mettersi in fila per l’ennesima forma di sfruttamento del territorio e delle persone.

Covid-19: primavera – estate

L’esperienza dell’epidemia ha mostrato nuovi aspetti inerenti alla questione, ma a guardarli bene di nuovo non c’è molto.

La sensazione apparentemente più diffusa, senza distinzione di classe o di zona di provenienza nell’isola, è quella di come iscontinentalisvivono e percepiscono il loro rapporto con la Sardegna.

Un rapporto unilaterale, di bieco utilizzo e sfruttamento a loro esclusivo beneficio, giustificato nelle loro teste dal denaro e dalla proprietà (“se ho la villa a Chia ho il diritto di poterci andare come e quando voglio!”).

Il caso più emblematico forse lo si è avuto a inizio marzo quando ci fu il cosiddetto esododellapaurada nord a sud, qui oltre veder ritornare tanti emigrati sono arrivati migliaia di villeggianti estivi, che per scappare dal contagio si sono rifugiati nelle loro ville in riva al mare.

E se la fuga da una malattia e la paura di essa, sono più che comprensibili lo è meno il disprezzo con cui ci si rapporta alla terra in cui si approda. In un’isola dove i virus arrivano più difficilmente e dove la presenza esterna è mal sopportata proprio per la sua cafonaggine (turistica o pandemica) ci si aspetterebbe cautela, rispetto e attenzione per il contesto locale, non il solito pago&pretendo.

Sarebbe curioso vedere cosa accadrebbe al contrario, chissà cosa sarebbe in grado di dire Salvini, e quante migliaia o milioni di lombardi, veneti, piemontesi ecc applaudirebbero gli insulti razzisti del loro capitano (embrionalmente questo lo abbiamo potuto vedere quando a settembre sono aumentati i casi in Sardegna).

La sensazione è poi ritornata a farsi sentire quando con l’arrivo dell’estate nonostante la lenta diffusione dei focolai in tutto il nord Italia, il concetto della Vacanza non poteva essere messo in discussione per un anno. E se è pur vero che una cospicua fetta di sardi erano pronti ad accogliere i turisti – e i loro soldi – a braccia e tasche aperte molti avrebbero preferito non rischiare di farsi contagiare. Ma la Vacanza proprio non si può discutere, costi quel che costi.

E puntualmente quando poi la Sardegna è diventata un pullulare di contagi ecco le minacce di chiusura degli aeroporti e dei porti, però nella direzione sbagliata, cioè nella direzione di trasformare la Sardegna in un lazzaretto.

Tutto questo è condito da un sistema sanitario sardo a dir poco deficitario, poche decine di posti in terapia intensiva e nessun intervento specifico come ospedali da campo o nuovi reparti.

Il covid ha fermato o rallentato tante cose e tante vite, di sicuro non ha toccato l’industria, le attività militari e il turismo.
La pioggia di indennizzi ha spento ancora prima che nascesse qualsiasi moto di rabbia, ma è tutto fumo negli occhi, la subalternità non ha fatto che aumentare.

Conclusioni

L’esigenza di scrivere questo articolo è maturata quando esperienza dopo esperienza (lavorativa, di lotta, raccontata e via dicendo) ovunque ho riscontrato dinamiche di sfruttamento imposte, più o meno subdole, più o meno esteriori.

Allo sfruttamento segue sempre l’assenza di una possibilità di scegliere, che col tempo diventa un’abitudine talmente forte da non far più ricordare alle persone come erano andate le cose.

Migliaia di persone lavorano in Sardegna d’estate al servizio della stagione turistica, molti ormai lo fanno in automatico, strutturando la loro vita sui tempi del lavoro stagionale, ma quanti lo fanno come prima scelta della loro vita?

Stesso discorso vale per chi lavora alla Saras, certo, al giorno d’oggi lavorare in Saras non solo è una scelta, ma è un’ambizione, ma come siamo arrivati fino a questo?

I pastori sembravano anch’essi destinati a dover accettare di lavorare in un determinato modo, alle dipendenze indirette dei Podda o dei Pinna, invece si sono ribellati e alcune forme di lavoro indipendente stanno resistendo.

Tornare indietro non sempre è possibile, mettere in discussione certi posti di lavoro è forse impossibile, possiamo però renderci conto ora di quali sono i mega investimenti che pubblico e privato stanno pensando di fare sulla nostra isola e di come quindi vogliono indirizzare l’economia senza chiedere nulla a nessuno.

Che sia il PPR(Piano Paesaggistico Regionale) spinto dalla giunta Solinas, i campi eolici nel mare del sud-ovest, i campi di golf dell’oristanese, gli alberghi in centro a Cagliari, l’ampliamento della RWM o altro ancora non sembrano investimenti pensati per avere una ricaduta positiva e di prospettiva sul territorio dove verranno fatti. L’unica cosa che offrono sono un pugno di stipendi, per mansioni completamente aliene alla nostra storia e cultura, difficilmente spendibili quando queste aziende falliranno o lincenzieranno.

Troppo pessimismo? Direi di no, basta guardare gli ex dipendenti di Portovesme, licenziati e rimasti quasi senza possibilità di rigenerarsi in altri progetti, specializzati in mansioni assolutamente inutili alla loro comunità, con un territorio compromesso dal loro stesso ex lavoro. Danno e beffa.

Ma pensiamo anche a Furtei o a Ottana. Posti diversi storia uguale.

Nel passato questo tipo di economia imposta, unita ad altre strategie dello Stato, veniva chiamato colonialismo, se oggi si possa chiamare ancora così sinceramente poco importa, importate è capire che quelle dinamiche non si sono esaurite, sono magari meno evidenti, ma ugualmente efficaci nel distruggere quello che ancora resiste di nostro nel senso di quello in cui ognuno di noi si riconosce, tanto o poco che sia.

Non è costruttivo esprimersi solo al negativo quindi definendosi anti qualcosa (anticolonialisti ad esempio) credo sia più chiaro e efficace saper dire per cosa siamo.

Per l’autodeterminazione degli individui e delle comunità: la strada verso questo obiettivo non potrà che passare da forme di resistenza contro lo sfruttamento imposto, e potrebbe anche permettere di immaginare e sperimentare nel suo percorso esperienze nuove, variegate, a misura di tutti quelli e quelle che avranno voglia di crederci e impegnarcisi.