Qui di seguito alcune riflessioni uscite sul numero 8 della rivista Nurkùntra, maturate dopo l’alluvione di Bitti dello scorso Novembre. A qualche mese di distanza da quei fatti e da quei ragionamenti si può dire che ciò che è accaduto dopo non sorprende, anche se alcune facce di merda non perdono occasione per mostrare tutta la loro meschinità. È il caso del noto Flavio Briatore che anche lui, come i militari, ha usato il caso di Bitti per ripulirsi la coscienza…come? Facendo una colletta tra i suoi amici miliardari e raccogliendo 100 mila euro che ha generosamente donato ai panifici di Bitti per fare in modo che possano riaprire e sfornare il “buonissimo pane della tradizione sarda”…Ovviamente con tanto di articolo sul Corriere della Sera e pose varie.

La cosa che mi dispiace è che tanta gente lo ringrazierà pure, come se bastassero le briciole a ripulire la coscienza di chi ha contribuito alla distruzione di una zona della Sardegna per i suoi affari (attru che 100 mila euro…).

In campo istituzionale niente di nuovo: le promesse non sono state mantenute. Secondo una stima servirebbero circa 110 milioni di euro per rimettere a posto tutti i danni, mentre per ora dalle dichiarazioni di assessori vari sembra ne siano stati stanziati 40 milioni, di cui utilizzati per ora solo 10. A prescindere dalla veridicità di queste stime e di queste dichiarazioni la realtà è ben diversa e racconta di un paese ancora profondamente segnato da quell’alluvione. Alcune strade, tra le principali, non sono ancora state rimesse a posto e sono difficilmente percorribili, chissà come saranno stati rapidi a mettere a posto gli uffici comunali!

Chi vogliamo al nostro fianco?

Lo scorso 28 Novembre una fortissima pioggia si è abbattuta sul paese di Bitti, devastando parte del centro abitato e delle campagne circostanti e causando la morte di 3 abitanti. La piazza principale e le vie limitrofe sono state ricoperte di fango e detriti venuti giù dalla montagna, l’elettricità è mancata per qualche giorno e una buona parte di abitanti è stata  costretta ad abbandonare la propria abitazione. Ci sono volute circa due settimane affinché le strade principali potessero essere percorse, per quanto riguarda i privati invece probabilmente c’è ancora chi conta i danni nel proprio scantinato o nella propria cantina.

Fin dal primo momento non è mancata la solidarietà e appena il clima lo ha permesso in paese sono arrivati decine di volontari pronti a dare una mano e a spalare il fango, con i mezzi che ognuno si è riuscito a portare.

Al contempo anche le istituzioni si sono mosse per riparare il danno, mobilitando tutto l’apparato che hanno a loro disposizione: Esercito, Vigili del Fuoco, Corpo Forestale e Protezione Civile, sempre affiancati dagli immancabili poliziotti e carabinieri. Così, al fianco dei pochi che hanno lavorato sui mezzi pesanti, il paese è stato invaso dagli uomini in divisa, sempre pronti a mostrarsi in passerella davanti alle telecamere delle tv e dei giornali se c’è un po’ di visibilità.

In diversi modi e per diversi motivi – probabilmente anche perché il sottosegretario alla Difesa del governo italiano, Giulio Calvisi, è originario di Bitti – l’Esercito ha avuto un ruolo mediatico importante, sia nelle prime pagine dei quotidiani locali che nei servizi in televisione, scatenando poi i soliti dibattiti da social network.

Ci siamo chiesti perché?

In Sardegna, più che altrove, la presenza militare è una costante nella vita di chi vive l’isola, così come innumerevoli sono gli scempi e i disastri di cui negli anni le divise mimetiche si sono macchiate. L’occupazione militare di ampie zone e la devastazione ambientale che queste zone subiscono hanno bisogno di essere giustificate e “ripulite”.

I militari che camminano fieri a Bitti e che si fanno fotografare con la pala in mano hanno secondo me la stessa funzione dei militari che eseguono i tamponi negli ospedali. Da un lato servono ad abituarci alla convivenza pacifica con chi porta una divisa mimetica, dall’altra servono a ripulire la coscienza a chi la ha sporca di sangue.

Ed è proprio di questo che non dobbiamo dimenticarci, non dobbiamo farci abbindolare da due foto con la pala in mano e poi dimenticarci di ciò che questi vigliacchi combinano ogni giorno a due passi da casa nostra. I militari che spalavano il fango a Bitti sono gli stessi che hanno avvelenato la zona di Quirra, provocando i tumori nelle popolazioni limitrofe; sono gli stessi che hanno recintato le spiagge di Teulada per poi riempire il mare di detriti bellici; sono gli stessi che hanno causato l’incendio di 25 ettari di bosco a Capo Frasca; gli stessi che hanno sganciato le bombe nella testa degli afghani o degli iracheni.

E inoltre, cosa ne sarà delle spese dei mezzi utilizzati? Verranno addebitati al comune di Bitti come è accaduto ad Olbia nel 2013?

Oltre a questo c’è da dire anche che lo Stato utilizza queste occasioni come prova di dimostrazione della propria forza e per ribadire che non è possibile farne a meno. La gestione di un disastro come quello di Bitti è un buon modo per mostrare i muscoli – fatti di cingolati e grossi camion – e per dimostrare che senza la presenza e la carità delle istituzioni la popolazione non può far fronte ad un danno simile. E non c’è modo migliore per scrollarsi di dosso le responsabilità e passare, apparentemente, dalla parte del torto a quella della ragione:non è forse delle istituzioni e delle amministrazioni locali stesse la colpa di non aver previsto un simile disastro? Nel 2013 una alluvione simile aveva provocato grossi danni nel Nord Sardegna ed erano stati promessi finanziamenti e lavori mirati a risolvere il problema. Qualcuno ha visto qualcosa?

Certo è che piangere alle istituzioni quando il danno è fatto non può essere la strada giusta, il problema sta a monte: o smettiamo di fidarci delle menzogne che ci raccontano e iniziamo a farne a meno oppure non usciamo da questo rapporto di dipendenza.

Ma tornando al caso di Bitti, sicuramente è notevole e importante la manifestazione di solidarietà pratica dimostrata da tutti quei volontari che si sono mossi pur senza ricevere nessuno stipendio o ricompensa, a differenza delle decine di tzerakkus in divisa. Gente che in più di un occasione è stata anche fermata e controllata dai carabinieri, oppure esclusa dai lavori perché non iscritta a nessuna associazione (ovviamente sono rari episodi ma valgono la pena essere citati).

É proprio da questa solidarietà che dovremo ripartire per iniziare ad immaginarci una liberazione dallo Stato. Cosa succederebbe se ci si muovesse prima delle emergenze? Se, per esempio, anziché spalare fango e detriti si rimettesse a posto un argine di un fiume che spesso esonda? Se anziché aspettare il disastro ci si mettesse d’accordo tra abitanti di un paese o di un quartiere e si facessero dei cambiamenti volti a ridurre dei danni in caso di calamità? O anche che ci si organizzasse per bloccare le ruspe che inesorabilmente buttano giù alberi sopra montagne che molto probabilmente cederanno perché indebolite.  A volte è esclusivamente una questione di immaginazione e volontà, ma secondo me è solo iniziando discutere tra pari e a sporcarsi le mani che iniziamo ad abituarci a non pensare alla carità delle istituzioni, ma semplicemente a fare da noi.

Tornando alla questione dei militari invece, l’inizio del 2021 ha dato anche il via ai processi nei confronti di chi negli anni 2014-2017 si è battuto contro l’occupazione militare della Sardegna.

Il 19 Gennaio si è tenuta a Cagliari l’udienza per 5 antimilitaristi nei confronti dei quali è stata richiesta la misura della sorveglianza speciale, mentre la settimana successiva, il 27, si è tenuta nello stesso tribunale l’udienza filtro per i 45 indagati dell’ ”operazione Lince”.

Le accuse sono varie ma l’intento è quello di reprimere e spaventare chi ha avuto il coraggio di alzare la testa e mettersi in gioco per provare a rendere più difficile la vita di chi ha deciso di occupare le terre per gli interessi di guerra.

In concomitanza con le due udienze davanti al Tribunale si è formato un presidio di solidali che, nonostante le restrizioni Covid, ha visto un’ampia partecipazione.

Durante la prima udienza il pm Guido Pani ha calcato la mano sull’accusa di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” che lui stesso ha mosso nei confronti dei cinque inquisiti per i quali ha poi richiesto la sorveglianza speciale. In particolare, per sostenere la sua tesi ha fatto riferimento al fatto che gli indagati hanno sostenuto pubblicamente di essere contro le basi militari. A sottolineare di quanto per lo Stato il problema sia più legato alle idee che alle pratiche.

La seconda udienza, essendo parte di una fase preliminare, è stata più veloce e meno decisiva e dopo l’arringa del pm, sempre il solito Guido Pani, il giudice ha rinviato al prossimo appuntamento, il 15 di Aprile, momento in cui si esprimerà anche la difesa.

Questi tentativi da parte della giustizia di Stato di farla pagare a chi non accetta la presenza dell’Esercito ci pone nella condizione di scegliere da che parte stare. Sinceramente credo che non lasciare soli coloro che oggi vengono inquisiti nei banchi di Tribunale vada di pari passo con il caricarsi pala e carriola in macchina e andare ad aiutare i colpiti da un disastro come quello di Bitti.

Significa aver scelto chi volere al proprio fianco.

E avere ben chiaro chi sta dall’altra parte. 

Kasteddu, gennargiu 2021

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