Riceviamo e pubblichiamo

La qualità del vitto in carcere.

Il servizio ristorazione in carcere è affidato ad una ditta, scelta tramite appalto di gara, e si occupa di fornire colazione, pranzo e cena ai detenuti. L’Ordinamento Penitenziario, all’art.9 imposta il vitto come “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima e che la quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale (…)”.
Di norma, viene stanziata una certa somma da spendere in vitto, ma le ditte appaltatrici propongono un prezzo di gran lunga più parsimonioso, ovviamente ben accetto dal Ministero della Giustizia: nel 2010 è stato utilizzato solo il 30% del totale stanziato, risultando in circa 121,67€ mensili a detenuto, quindi in 3,92€ al giorno a persona per tutti e tre i pasti.

È chiaro come la qualità e la quantità degli alimenti, con una spesa di 3,92€, non siano affatto sufficienti, motivo per cui i detenuti ricorrono al sopravvitto, cioè ad una spesa acquistabile da ogni detenuto i cui prodotti e relativi prezzi sono sempre gestiti dalla ditta della ristorazione che, a causa scarsa qualità e quantità del vitto, giova di un ulteriore guadagno dal sopravvitto. Affronteremo questa questione più avanti nel testo.

Dalle stesse lettere che riceviamo dai detenuti, abbiamo la conferma di quanto l’alimentazione in carcere sia scadente, e di come qualità e quantità siano superiori nella sezione femminile solo perché c’è un numero minore di persone da sfamare rispetto alla sezione maschile. I pasti vengono cucinati dai carcerati e, teoricamente, sempre dall’art.9 sappiamo che “il relativo controllo (degli ingredienti, ndr) spetta anche ad una rappresentanza dei detenuti o degli internati, designata mensilmente per sorteggio”, ma che in realtà questa rappresentanza alla Casa Circondariale di Uta non esiste, con il risultato che in cucina, e quindi nei piatti dei detenuti, può arrivare di tutto.

L’ultimo bando d’appalto per il servizio ristorazione per le carceri sarde, risalente a Giugno 2020, che avrebbe dovuto concludersi a Dicembre 2020, stabiliva come prezzo base di gara 5,70€, da cui giocare al ribasso tra le ditte in competizione. Ma quali sono queste ditte?
A questo proposito si apre una questione abbastanza confusa. È molto difficile trovare informazioni dirette e trasparenti al riguardo, se non impossibile, infatti abbiamo dovuto spulciare minuziosamente parecchia documentazione per arrivare a trovar scritto, in molto piccolo, il nome della ditta responsabile al carcere di Uta; la ditta uscente è tale Impresa d’Agostino srl di Lecce, e si occupa anche delle Case di reclusione di Arbus e Isili, ma di cui ovviamente non si riescono ad avere ulteriori informazioni. Ma c’è di più: la SAEP spa e la Landucci Claudio & C. S.a.s, due ditte concorrenti all’appalto, hanno presentato un non meglio specificato ricorso, sospendendo la gara fino a data da destinarsi. Oltre a questo non sono presenti altri documenti aggiornati nel sito del Ministero della Giustizia.

Ma torniamo alle ditte:

  • La SAEP spa in particolare, ha in gestione gli istituti penitenziari di Lodè, di Nuoro, di Lanusei, di Tempio Pausania, di Alghero, di Sassari e di Oristano in Sardegna e di circa altri 20 in Italia, cioè sfama circa 10 mila detenuti; SAEP ha sede a Balvano, nella Basilicata, ed è di Tarricone Holding s.r.l., società dei 5 fratelli Tarricone, proprietari di ben altre 11 attività che ruotano intorno al gioco d’azzardo e a marchi di prodotti. Dichiara un fatturato di circa 18 milioni di euro, di cui utili 3 milioni, nel 2009; dal vitto in quell’anno ha fatturato 11.333.492, che son diventati 22.642.833 euro con il sopravvitto.
  • La Landucci Claudio & C. S.a.s, insieme a SAEP spa, è uno dei tre colossi della ristorazione carceraria, attiva in circa 16 carceri italiane.
  • La terza è la Arturo Berselli & c.spa, con sede a Milano, e gestisce vitto e sopravvitto di una ventina di carceri in Italia da tempi immemori, vincendo sempre gli stessi appalti dal 1930, anche tramite altre società affiliate controllate da altri membri della famiglia Berselli.

Insomma, oltre la segretezza mantenuta dal Ministero della Giustizia su chi fornisce l’alimentazione alle persone detenute, riusciamo a trovare una storia di appalti monopolizzati e di notevole lucro sulla fame dei prigionieri.
Una volta libero, l’ex detenuto deve “rendere” allo Stato le spese di vitto e alloggio durante la sua permanenza in carcere. Questa cosiddetta quota di mantenimento corrisponde ai 2/3 del totale di vitto e vettovagliamento (minimo 100€ mensili) e deve essere versata in un’unica soluzione, e può andare ad attingere anche dai beni mobili e immobili, presenti e futuri.
Solo in condizioni di estrema difficoltà economica (che andrà ben documentata dal detenuto e valutata da un ufficio di sorveglianza), si può essere esonerati da questa spesa.
Date le circostanze affrontate sino ad ora, lasciamo questo debito ai commenti del lettore.

Fare la spesa in carcere: i problemi del sopravvitto.

Oltre al vitto, i detenuti possono richiedere i pacchi da casa con cibi preparati dalle famiglie oppure acquistare dei prodotti dal cosiddetto sopravvitto, che è gestito dalla stessa ditta che fornisce i pasti alla mensa del carcere. I prigionieri che possono permetterselo, compilano un modulo spesacon cui possono acquistare determinati prodotti da una lista prestabilita, scelta e approvata dall’amministrazione carceraria.

L’istituzione del sopravvitto è regolata dalla legge 354 del 1975, in cui si può leggere: “Ai detenuti e agli internati é consentito l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto, entro i limiti fissati dal regolamento. La vendita dei generi alimentari o di conforto deve essere affidata di regola a spacci gestiti direttamente dalla amministrazione carceraria o da imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dall’autorità comunale. I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui é sito l’istituto. La rappresentanza indicata nel precedente comma, integrata da un delegato del direttore, scelto tra il personale civile dell’istituto, controlla qualità e prezzi dei generi venduti nell’istituto”.

Fatta questa piccola premessa e considerate le continue battaglie dei detenuti rispetto alla questione della spesa, abbiamo deciso di informarci meglio su come funzioni il sopravvitto. Ci siamo chiesti quali siano i motivi per cui i prodotti della maggior parte delle carceri risultino molto più cari della norma e in molti casi anche di scarsa qualità.
Per iniziare ci siamo recati nel supermercato che risulta in prossimità del carcere per confrontare i prezzi con quelli del listino della spesa carcerario. Già a questo primo tentativo abbiamo potuto riscontrare enorme ambiguità nella legge, dal momento che non si riesce a stabilire cosa significhi il termine “luogo”.
Nello specifico del carcere di Cagliari, che si trova all’interno di una zona industriale molto lontano dalla città, l’ambiguità del luogo è legata al fatto che il Comune di pertinenza risulti essere molto più lontano rispetto ad un altro Comune limitrofo alla zona della Casa Circondariale. Dunque sorge spontanea la domanda: si deve considerare il Comune in cui si trova il carcere oppure quello più vicino ad esso?

Nonostante questo, abbiamo osservato che rispetto ad un supermercato mediamente caro, come quello che risulta essere il più vicino in linea d’aria al carcere di Uta, i prodotti “di marca” come la pasta, il caffè e via dicendo risultano più o meno sulla stessa linea di prezzo con i prodotti del sopravvitto. E qui vorremmo però specificare che, per ogni tipologia di prodotto, la lista fornisce pochissima scelta e varietà, con il risultato che il detenuto è costretto ad acquistare quella determinata marca a quel prezzo, senza sostanziali alternative al suo gusto, bisogno e possibilità economica.

Altra questione invece sono i prodotti senza etichetta e quelli generici, come ad esempio la verdura o la carne oppure tutti quei prodotti di sotto marche.
Riportiamo alcuni articoli, sempre con riferimento al carcere di Uta:

  • radicchio gr. 500. : 3,99 euro
  • olio extravergine Lovascio da 1l. : 5,49 euro
  • olio semi 1l. : 1,99 euro
  • basilico 1 mazzo. : 1,79 euro
  • zucchine 1kg. : 4,98 euro
  • arachidi con guscio 1 kg. : 8 euro

Basta dunque guardare questi pochi esempi per rendersi conto di come la norma venga raggirata in modo da legittimare i costi dei prodotti senza etichetta, che evidentemente vengono considerati come se fosse merce di marca di un normale supermercato quando in realtà le sottomarche provengono dal discount MD, mentre gli ortaggi dal mercato ortofrutticolo di Sestu. Non è ben chiaro quale sia il market usato come metro dei prezzi, anche se viene da pensare che all’amministrazione del carcere non freghi assolutamente niente di rispettare la normativa.

Sempre seguendo ciò che dice la norma, abbiamo constatato, grazie all’aiuto di qualche detenuto che ci ha fornito le informazioni, che nel carcere di Uta non esiste alcun controllo da parte dei carcerati sia del vitto che del sopravvitto; dunque la verifica della qualità dei prodotti è lasciata a discrezione della ditta a cui è appaltata la fornitura alimentare e che, come è ovvio, meno spende più guadagna. Lasciamo all’immaginazione del lettore quali siano le conseguenze di tutto ciò.


Altro problema che viene spesso sollevato dai detenuti del carcere di Uta è la mancanza totale di alcuni prodotti dalla lista. Alcuni esempi sono la farina, la polenta, il lievito e diverse qualità di ortaggi. La farina nello specifico è stata oggetto di proteste nel recente passato: Uta si tratta dell’unico caso in Italia in cui questa merce è negata dall’amministrazione, adducendo come scusa il fatto che fosse stata più volte nascosta la droga al proprio interno e che fosse usata per fabbricare ordigni esplodenti!

Alcune considerazioni.

Abbiamo provato ad elencare e spiegare brevemente la complessità dell’alimentazione in carcere, sulla base di vitto e sopravvitto. Seppure la questione centrale rimane sempre quella di una corretta alimentazione, il vitto fornito e l’acquisto dei prodotti extrapresentano problematiche di diversa natura, spesso in antitesi l’una all’altra.
La prima manifesta contraddizione è che iniziare una battaglia sul sopravvitto esclude tutti quei detenuti che, non avendo soldi dalle famiglie, sono costretti a mangiare unicamente la sbobba del carcere; non solo, lottare per il miglioramento della spesa potrebbe indurre l’amministrazione a risparmiare ulteriormente sul vitto, rendendolo ancora peggiore di quello che è. Tuttavia, è innegabile che la possibilità di avere dei beni di conforto acquistabili all’interno del carcere è una comodità non indifferente per i prigionieri, che possono procurarsi non solo prodotti di genere alimentare, ma anche legati alla cura del corpo e dell’igiene.
Dal momento che la lista dei prodotti è costruita dalla ditta per guadagnare sul prodotto top gamma più costoso, non fornendo di fatto al carcerato alcuna scelta su quale prodotto possa preferire e/o permettersi, si potrebbe pensare che, se questa lista diventasse più fitta e varia, i prezzi scenderebbero e la qualità aumenterebbe: un bene per tutti i detenuti, anche per coloro che hanno pochi soldi.

Detto ciò, in quest’ultima parte vorremmo provare a tracciare alcune possibilità di sostegno e appoggio alle lotte sul vitto e sul sopravvitto all’interno del carcere.

Per quanto riguarda il vitto, le armi a disposizione di parenti e solidali sono poche.
Si può tuttavia sostenere e amplificare ciò che accade dentro, come in ogni questione che riguarda le prigioni, far girare le notizie all’esterno è una garanzia per i detenuti. La scarsa informazione, l’isolamento e l’alone di pregiudizi che gira intorno al carcere, sono le armi migliori che lo Stato ha per poter fare ciò che vuole all’interno. Spesso i parenti sono rassegnati soprattutto per quanto riguarda questioni come il cibo e preferiscono sostenere i loro cari attraverso i pacchi mensili. Tuttavia, riportare pubblicamente le scorrettezze delle ditte che si occupano del vitto, organizzare dei picchetti fuori dalle loro sedi, ma soprattutto sostenere gli scioperi che vengono fatti dentro il carcere, sono ottime iniziative per spezzare l’isolamento. Se queste pratiche si moltiplicassero e diventassero consuetudine, sarebbe molto più difficile per l’amministrazione carceraria rifarsi sui detenuti, come spesso accade quando avvengono le proteste fuori (purtroppo rare).
Nel caso delle cucine di Uta, ci è stato riferito che alcuni prigionieri a cui è affidato il compito di cucinare si siano rifiutati di farlo per la qualità scadente del cibo. È accaduto anche in passato che non accettassero di mangiare l’alimentazione fornita dal carcere, facendosi spedire ciò che era possibile da casa. In alcuni casi recenti i detenuti in varie carceri italiane hanno fatto degli scioperi del vitto per protestare contro il sovraffollamento o altre condizioni degradanti. Ancora, sappiamo di scioperi degli acquisti: è prevedibile come la sbobba ordinaria si sia rivelata subito insufficiente per sfamare tutti e la ditta si è trovata costretta a migliorare i pasti e a proporre più varietà e accessibilità economica alla lista spesa.

Ci sono invece secondo noi più possibilità di intervento sulle questioni legate al sopravvitto. Più che per quanto riguarda la qualità dei prodotti, per cui il discorso è simile a quello fatto sul vitto, si può agire sulla varietà e soprattutto su ciò che viene vietato dall’amministrazione carceraria, spesso in modo totalmente arbitrario e con giustificazioni ridicole (ad es. la già citata farina o gli spazzolini, considerati come possibili oggetti contundenti).
Proprio sulla varietà del sopravvitto, pochi anni fa, i detenuti del carcere di Badu e Carros hanno messo in atto una protesta durata vari giorni. La direttrice aveva eliminato di punto in bianco più di 100 prodotti dalla lista, tra cui la sopracitata farina, scatenando lo sciopero del carrello e battiture per tre volte al giorno.

Queste decisioni arbitrarie spesso danno vita a proteste che non sempre vengono sostenute in modo adeguato dall’esterno. Anche in questo caso, la buona comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere permette ai detenuti di vedere amplificate le loro rivendicazioni e fare pressione sulla direzione.

Un ultimo spunto, già accennato in precedenza, riguarda i prodotti del sopravvitto senza marca, quali frutta e verdura, su cui la ditta genera i maggiori profitti. Questa truffa ai danni del detenuto va fatta conoscere. Speriamo dunque che documenti come questo permettano la diffusione di queste notizie e portino più persone a prendere coscienza di situazioni quali quelle che abbiamo elencato precedentemente. Spesso, quando si pensa agli abusi in carcere, vengono in mente soprattutto violenze fisiche e psicologiche da parte delle guardie o problemi quali il sovraffollamento; questi sono indubbiamente condizioni gravi, tuttavia anche malversazioni meno palesi come l’alimentazione peggiorano notevolmente la quotidianità di chi sta chiuso in carcere.

Cla e Dani


Ingresso della Casa Circondariale di Uta: è uno dei tanti spazzolini abbandonati per la normativa vigente

Fonti: Altreconomia, altre inchieste di varia natura a tema carcere, vari siti web di giurisprudenza e del Ministero della Giustizia, corrispondenza con i detenuti, esplorazione diretta.