Riceviamo e pubblichiamo

Sono un sostenitore e partecipante della campagna “Kontra is presonis nishunu est solu” e ci tengo a dire la mia riguardo a delle impressioni che ho avuto ascoltando dei pareri durante i banchetti e leggendo dei commenti sui social. Mi sembra che ci siano alcune “credenze” e alcuni miti ben assimilati nella testa delle persone e vorrei provare a parlarne, perché credo che siano il sintomo dei tempi che viviamo e della capacità dello Stato e di chi ci governa di toglierci ogni tipo di stimolo a ribellarci.

Parto da due domande che si sentono spessissimo: “ma tu in galera ci sei mai stato? Ma tu dentro chi hai? “. Molto spesso le persone si sorprendono che qualcuno si interessa della questione del carcere senza esserci mai stato o senza avere un parente, e sottolineo un parente e non un amico/a, come se fosse una cosa strana. Credo che questo sia il frutto di anni e anni di lavoro dello Stato che sia perlopiù riuscito nell’intento di slegare, nella percezione comune, il carcere dalla società che lo circonda. Non è un caso che molto spesso i reclusi vengono dipinti come gli “esclusi”. In questo modo la galera viene percepita come una sorta di buco nero, che viene vissuta come un qualcosa da “cancellare dalla memoria” da parte di chi la vive o di cui vergognarsi da parte di chi la vive indirettamente perché ha un parente dentro. In questo modo però non ci si chiede quale è la funzione sociale del carcere e non ci si rende conto che la sua potenzialità è anche quella di spaventare tutti coloro che sono fuori, fungendo da monito per chi potrebbe commettere dei reati. Sostenere che se non sei stato in galera o non hai un parente dentro non ti puoi occupare della situazione dei detenuti è un modo per peggiorare ancora di più la distanza tra dentro e fuori. Oltre al non rendersi conto che la macchina della repressione dello Stato è molto ampia e che il carcere è solo il pezzo più evidente, anticipato da tutta la vastità di udienze, denunce e misure alternative.

Altra credenza molto comune, veramente indicativa dei tempi in cui viviamo, è quella secondo la quale le mobilitazioni attorno al carcere vadano a discapito dei detenuti e che le ritorsioni siano peggiori dopo che qualcuno fa un po’ di rumore fuori dalle mura o che esprime solidarietà direttamente ai prigionieri. Senza dubbio per le guardie ogni scusa è buona per prendersela con i detenuti ma questo lo fanno e lo faranno sempre. Togliersi la possibilità di salutare i carcerati per paura delle ripercussioni è un modo per darla totalmente vinta all’amministrazione carceraria e a chi la gestisce, auto-impedendosi di accorciare le distanze tra dentro e fuori. Saranno i detenuti a decidere come comportarsi rispetto alle manifestazioni di solidarietà, in base ai rapporti di forza che possono e che vogliono avere con i secondini e il direttore. Io credo che ogni gesto che spezza la monotonia che la prigione impone sia una cosa buona e che faccia piacere a chi è dentro, o almeno a parte di loro. Lo Stato e la sua propaganda si impegnano quotidianamente, sotto diverse forme, per far credere alla gente che non bisogna lottare per liberarsi dalle diverse forme di oppressione che viviamo noi e il pianeta che ci circonda. Le condizioni materiali delle nostre vite ci dicono tutto il contrario: motivi per cui organizzarsi e lottare ce ne sono tantissimi. E dal carcere arrivano dei segnali evidenti, la morte di 14 prigionieri dovrebbe essere una pugnalata nei nostri cuori, un qualcosa davanti alla quale non si può stare zitti.

Queste parole non vogliono essere polemiche, vorrebbero essere un modo per stimolare il dibattito e innescare dei pensieri in chi ci ha criticato per la scelta di non voler lasciare soli i prigionieri e di andare anche sotto il carcere a ribadirlo.

L.