Riceviamo e pubblichiamo

Le carceri costituiscono delle bombe epidemiologiche. La diffusione del virus, già di per se molto difficile da controllare all’esterno, all’interno delle strutture detentive é inarrestabile. Il motivo più marcatamente evidente é sempre lo stesso: il sovraffollamento cronico delle prigioni italiane, che non permette dunque il distanziamento, la sanificazione adeguata, gli spazi per gestire le quarantene ecc. Oltre a questo, come fanno notare i super esperti, tra i carcerati sono tante le persone immunodepresse, tossicodipendenti o affette da malattie croniche, ovvero tra i soggetti più a rischio. E infatti, non che fosse difficile prevederlo, i morti ci sono e sono tanti. I decessi continuano, come fuori d’altronde: l’unica differenza é che quelli chiusi in carcere non possono scappare al contagio e non possono scegliere di tutelarsi in alcun modo. Dall’esterno inoltre fare una stima dei contagi non è cosi facile, dato che le amministrazioni carcerarie per tutelarsi, manco a dirlo, fanno trapelare notizie col contagocce, che spesso arrivano per vie traverse e non ufficiali. Provare per credere: fare una ricerca su quale sia la situazione all’interno del carcere nella propria città é molto difficile. Sui giornali se ne parla poco o nulla e non è da escludere che anche sui detenuti venga fatta pressione per non far trapelare le notizie più scomode durante i pochi colloqui rimasti con le proprie famiglie. Chi sta fuori è impossibilitato ad avere notizie continue e aggiornate sulla situazione del suo caro. Mai come in questa crisi pandemica la necessità di un intervento di clemenza, come un indulto o un’amnistia, o di un provvedimento di legge che permetta a molti detenuti di tornare a casa é tornato attuale. In molti si chiedono come mai in Italia la classe politica non abbia ancora varato un piano svuotacarceri o concesso la liberazione anticipata. Amnistia e indulto, ad esempio, non possono essere concessi con facilità. Dalla riforma costituzionale del 92 infatti, entrambi questi istituti non vengono più applicati a discrezione del capo dello Stato ma devono essere approvati dai due terzi dei componenti di ciascuna camera. Questo quorum é talmente alto che in ventisette anni é stato raggiunto solamente una volta, e rende perciò questi strumenti quasi inutilizzabili. Nonostante sia già al vaglio una proposta di legge per l’abbassamento del quorum, come si sa, queste questioni politiche vanno per le lunghe, considerando oltretutto che il carcere non é in alcun modo un tema centrale nelle agende dei governi di qualsiasi schieramento. Per quanto riguarda invece la concessione dei domiciliari e di pene alternative al carcere, sono stati varati due decreti, rispettivamente a marzo e a ottobre 2020. Inutile dire che entrambi non hanno portato nessun significativo miglioramento, dal momento che pochissimi detenuti hanno potuto beneficiarne. Come se non bastasse, quasi in contemporanea con il decreto “salva Italia” di marzo, é stato approvato in tutta fretta un altro decreto che introduce regole maggiormente restrittive per la concessione dei domiciliari ai detenuti per reati di mafia, terrorismo o di associazione a delinquere e traffico di droga. Con delle risposte politiche così vane, già da marzo scorso non sono tardate le proteste e le rivolte da parte di parenti e detenuti che chiedevano a gran voce la libertà, perché ad aspettare i tempi dei politici si fa in tempo a morire. Queste manifestazioni proseguono a singhiozzo in modo abbastanza omogeneo dal Sud al Nord Italia, e in minima parte anche qui in Sardegna. Ciò che risulta interessante sta sicuramente nell’aver fatto riemergere, almeno tra quella fetta di popolazione che ha a che fare quotidianamente con la prigione, la voglia di esprimersi e, in alcuni casi, di mettersi in gioco. Per i tempi che corrono non é certo poca cosa. E’ proprio in questo chiacchierare a voce alta, soprattutto attraverso i social ma anche nei mercati e nelle piazze, che la discussione si fa interessante: chi può uscire dalla prigione? Chi merita i domiciliari? Le posizioni sono tante e tutte molto diverse fra loro: clemenza solo per chi ha pochi anni ancora da scontare, oppure solo per chi non ha commesso crimini violenti, o ancora solo per chi ha una casa o soffre di particolari patologie, e così via. La pluralità di posizioni fa invece pensare che, almeno dalla parte di chi lotta, sia chiaro che si vuole la libertà ma non si sa per chi e sulla base di quale ragionamento. Per questo la soluzione più ragionevole in realtà è quella che appare più irrealizzabile: sommare tutte insieme queste posizioni e aprire le porte del carcere per tutti, senza distinzioni, dato che la situazione pandemica appare sempre più grave. Non c’é ragione per cui una persona che sconta dieci anni o l’ergastolo e magari si trova in condizioni di salute fortemente precarie stia in carcere, mentre un detenuto che deve scontarne solo tre ma é perfettamente in salute vada ai domiciliari; come non c’é alcuna ragione che chi non ha una casa debba stare in una cella e non possa invece passare questo periodo in una struttura meno costrittiva ma soprattutto meno affollata. La soluzione c’é: tutti a casa! Sebbene possa sembrare un’utopia, e sicuramente in parte lo é, in un momento come questo una scelta del genere potrebbe salvare la vita di molte persone. Cosa c’é di più importante? Non c’é motivo migliore per iniziare a lottare con maggiore forza. Gli ostacoli purtroppo ci sono, alimentati soprattutto dalle divisioni basate su un concetto di colpa che non appartengono certamente a chi sta ai margini della società, ma allo Stato. Le differenze, create ad hoc dai nostri controllori, non fanno altro che rafforzarli. Rendono le rivendicazioni meno potenti e i legami molto più deboli, viziati dalla diffidenza e dalla competizione. La sfida è dunque quella di costruire un destino comune che in questo momento può fare la differenza. 

Dani