La storia si ripete, è un modo di dire, un proverbio? La realtà? Poco importa in questo caso è un dato di fatto.

Stiamo parlando della vicenda della Portovesme srl e degli infiniti tentativi di tenerla aperta.

Negli ultimi mesi la novità è rappresentata da un progetto di riciclo di black mass presentato dalla Glencore, la stessa multinazionale che ha portato alla quasi dismissione attuale dello stabilimento.

Le black mass sono le batterie esauste, da cui attraverso delle lavorazioni particolarmente complesse e inquinanti, si vorrebbero recuperare i metalli preziosi all’interno contenuti per poterli riutilizzare. Fin qui tutto sembra abbastanza interessante e pure in linea con l’esigenza mondiale di prestare sempre più attenzioni e risorse al riutilizzo di quanto già prodotto. Ma questo dev’essere attuato ad ogni costo? E le conseguenze di questa lavorazione è chiaro quali siano?

Da poco le pagine dell’Unione Sarda riportavano alcuni dati su come si svolgerà la lavorazione: “per ogni 1000 chilogrammi di “massa nera” da trattare è previsto un utilizzo di 880 chilogrammi di acido solforico, 75 kg di acqua ossigenata, 730 kg di carbonato di sodio, 810 di soda caustica, 4.580 litri d’acqua demineralizzata. Se si considera che dal resto del mondo gli svizzeri prevedevano di far arrivare via nave a Portovesme la bellezza di 11.318 tonnellate di “Black Mass” all’anno i calcoli sono presto fatti: una vera e propria discarica mondiale di massa nera e rifiuti pericolosi, non tanto per dire, ma perché codificati come tali dalle leggi vigenti.”

La Glencore che propone un progetto di riconversione dell’azienda che include questo tipo di lavorazioni ha pubblicamente dichiarato il suo disappunto nei confronti della Regione Sardegna per aver imposto l’assoggettamento del progetto alla Valutazione di Impatto Ambientale, cioè a quella procedura tecnica che deve verificare la sostenibilità ambientale delle attività produttive.

Gli svizzeri vorrebbero quindi avere una scappatoia dalle briglie della legalità. Anche in questa vicenda si può osservare qualcosa che appare come “sempre la stessa storia”, ovvero il motivo per cui una multinazionale possa rivendicare una posizione di tale arroganza.

La risposta è: il ricatto del lavoro.

Cioè una multinazionale privata può permettersi di ricattarci, provando a imporci l’ennesima fonte di inquinamento nel nostro territorio come se fosse una risorsa, con l’appoggio di una consistente parte delle istituzioni. Questo merita una riflessione sulla fiducia da riservare a multinazionali e istituzioni, ma andiamo avanti.

Il Sulcis Iglesiente è un territorio che sottostando a questo ricatto ha dovuto accettare le peggio nefandezze produttive nell’ultimo secolo, e ora sembra che la storia debba continuare.

La povertà indotta da logiche coloniali di subalternità e sfruttamento ha creato le premesse per cui in questo territorio il ricatto del lavoro sia entrato a sistema, quasi al livello in cui non ci si rende più conto di quando questo avviene. Al livello che le componenti istituzionali (sindacati inclusi), lo rivendicano apertamente, senza alcun filtro o vergogna.

Quello che accade è quindi che una multinazionale straniera, che anni fa ha rilevato una delle aziende più mortifere della contemporaneità sulcitana e l’ha portata al collasso con varie scuse (l’ultima è il costo dell’energia, che però stranamente non varrebbe per il nuovo progetto), ora vorrebbe avere scorciatoie e finanziamenti per una riconversione, potenzialmente ancora più pericolosa delle precedenti attività.

I sindacati e alcuni esponenti istituzionali di primissimo livello (come il ministro del made in Italy e delle Imprese) si dichiarano esplicitamente disposti a fare carte false pur di appoggiare questa riconversione, usando tra l’altro delle ipocrite – in quanto false – scuse legate all’occupazione.

Il ricatto del lavoro (senza il quale una proposta del genere non verrebbe neanche considerata dalla popolazione locale e che infatti è il motivo per cui viene collocata in questa parte di Europa), è pure una enorme bugia, in quanto attualmente lo stabilimento ha circa 400 operai assunti e in cassa integrazione, la svolta verso le black mass ne confermerebbe tra il 10 e il 20%, mentre di tutti gli altri non vi è alcuna menzione nei vari progetti presentati.

I sindacati, Confindustria e tutti quelli che fino ad ora si sono espressi a favore della riconversione, e hanno mostrato disappunto verso le garanzie ambientali richieste dalla Regione, sono così avidi e cinici da non esprimersi su cosa accadrà a circa 300 operai.

Il motivo è di natura strettamente politica e economica, il polo industriale di Portovesme seppur in dismissione, o forse proprio per questo, è utile e non deve chiudere. Proprio al fine di poter diventare territorio pilota di lavorazioni sperimentali come questa del riciclo delle black mass di cui non esiste neanche un impianto in tutto il mondo della dimensione di quello che Glencore vorrebbe realizzare. Come se non bastasse, finché il ricatto di qualche centinaio di operai esisterà, sarà un’intera provincia ad essere ricattata e ricattabile per altri progetti scomodi.

La chiusura definitiva del polo di Portovesme (di cui chiuderà fra due anni una parte consistente, cioè la centrale Enel Deledda) significherebbe per il Sulcis-Iglesiente la liberazione da un peso socio-economico veramente enorme che ormai da un po’ di anni non ha neanche più un significativo ritorno in stipendi.

Voci preoccupate sostengono che se chiudesse Portovesme ci sarebbe un’ulteriore emigrazione, che potrebbe segnare una morte sociale. In realtà sembra proprio che sia l’esistenza di questo tipo di vocazione ad aver imposto negli ultimi decenni un’emigrazione di massa, e enormi danni ambientali e sanitari.

Sarebbe forse interessante vedere cosa si può fare senza il polo prima di arrivare a un punto di non ritorno.

Turismo, agricoltura, allevamento sono attività possibili nel territorio, la sfida è provarci, liberandosi dal ricatto dello stipendio fisso pagato da multinazionali che non hanno alcun rapporto o interesse verso il Sulcis-Iglesiente se non di drenare profitti ad ogni costo, esattamente come hanno fatto i loro predecessori a partire dalle miniere, lasciandosi dietro una scia di devastazioni ambientali, malattie e spaccature sociali.

Siamo di fronte a una fase in cui lo sfruttamento coloniale in questa parte di Sardegna, e non solo, si sta ristrutturando, dandosi una facciata green, ma provando a consolidare ulteriormente ricatti e catene. La transizione energetica e la riconversione di Portovesme vanno in questa direzione. Opporsi, non rendersi complici, sono opzioni possibili per darsi una possibilità collettiva di immaginare e costruire dei modi diversi di vivere il nostro territorio.

La storia si ripete, però a volte la storia può cambiare, e a cambiarla sono anche le persone e loro scelte.