L’articolo è tratto dal numero 16 di NurKuntra.

La provincia del Sulcis-Iglesiente conta circa 135.00 abitanti suddivisi in 27 comuni. Ha un’estensione di più di 2000 chilometri quadrati e una densità di popolazione di circa 64 abitanti per chilometro quadrato, esattamente come la media del resto dell’isola.

E’ un territorio che ad oggi è privo di vocazione specifica e riconoscibile, l’attività estrattiva che ne ha caratterizzato l’economia nei secoli scorsi è definitivamente cessata, il turismo fatica a decollare, l’industria è in disarmo, agricoltura e allevamento non hanno mai avuto grandi numeri prima a causa delle miniere e poi del polo industriale di Portovesme, gli altri settori non possono certo essere ritenuti trainanti.

Da anni la provincia occupa stabilmente l’ultimo o il penultimo posto nella classifica delle province più povere dello Stato. Questo fa si che ci sia un’emigrazione giovanile impressionante.

Quello che purtroppo caratterizza questo splendido pezzo di Sardegna è la concentrazione di caratteri tipici del colonialismo italiano e non, e della sopportazione che ormai sta diventando accettazione, a causa dell’enorme ricatto che viene agito sulla popolazione in nome del lavoro.

Tra l’Iglesiente e il Sulcis troviamo un po’ di tutto: basi militari, discariche, poli industriali, fabbriche di bombe, speculazioni turistiche ed energetiche solo per citare le più evidenti.

A fronte di queste imposizioni le infrastrutture pubbliche sono oltre il livello di decadenza, la sanità in particolare, ma anche l’istruzione e i trasporti.

Se si fosse scaramantici si penserebbe che tutto ciò può accadere in un solo territorio, per giunta neanche troppo grande, solo perché la dea bendata si è voltata da un’altra parte, ma così non è.

La sfortuna non c’entra proprio un bel niente.

Lo sfruttamento del territorio e delle persone che vi abitano è prassi consolidata, questo vuol dire non solo che da un secolo le paghe – prima dei minatori oggi di operai, camerieri, muratori ecc – sono da fame, ma che il territorio viene devastato e compromesso, e che questo poi ha ulteriori ricadute in termini di inquinamento e conseguenti patologie.

Basti pensare alle scorie delle lavorazioni delle miniere, o all’inquinamento di Portovesme o della base di Teulada.

Una testimonianza storica di quanto questo territorio sia sempre stato considerato una colonia e i suoi abitanti dei servi sono le lotte dei minatori, da cui si ebbe nel 1904 il primo sciopero della storia dello Stato italiano, verificatosi a Buggerru e costato la vita a diversi minatori, storia che si ripeté due anni più tardi a Gonnesa e in altri paesi del comprensorio minerario.

Lo sfruttamento subito da quelle generazioni, a causa dell’efferata violenza fisica e culturale, è stato imposto come carattere ereditario, che tutt’ora ritroviamo e continuiamo a subire.

Il Sulcis-Iglesiente non ha mai vissuto una golden age, anche quando tra gli anni ‘80 e ‘90 il welfare dello Stato sembrava arrivare ovunque nelle periferie arrivavano solo le briciole, o peggio le cattedrali nel deserto, sotto forma di poli industriali forzatamente impiantati in territori votati a tutt’altro, sia da un punto di vista geomorfologico che culturale.

Queste imposizioni violente, accettate troppo velocemente dalla popolazione in cambio di qualche migliaio di stipendi, sono il peso del ricatto che tutt’ora schiaccia questa zona di Sardegna. L’aver abbandonato le campagne, aver compromesso definitivamente ampi tratti di costa e paesaggio, non aver investito in un’economia locale sono fattori che amplificano quel peso, che per molti non sembra più possibile mettere in discussione.

Al giorno d’oggi di cosa è fatto il peso di questo ricatto?

Stagionalità del turismo – turismo di massa: il turismo che per molte persone e per molti aspetti sembra l’unico settore economico accettabile a oggi è purtroppo anch’esso un vettore di sfruttamento. Concentrato in pochissime settimane costringe i lavoratori stagionali a turni massacranti e contratti in nero. L’affitto delle case per le vacanze ha risollevato il mercato immobiliare, questa dinamica va però perversamente a danneggiare le generazioni più giovani che non trovano affitti a basso prezzo (pur essendo i paesi fortemente spopolati) quando vanno a vivere da soli, perché molti appartamenti vengono affittati solo per i mesi estivi e così gli altri affitti possono essere più alti. Spiagge, pinete, fondali per due o tre mesi vengono letteralmente presi d’assalto con conseguenti danni ecologici. I prezzi di parcheggi, ristoranti, cocktail, gelati, concerti e via dicendo vengono gonfiati al massimo per provare a recuperare tutto il possibile, diventando però inaccessibili per i residenti che devono quindi subire la beffa di non poter usufruire facilmente dei servizi, nell’unico momento dell’anno in cui sono presenti e di qualità.

Stipendi da fame per chi non vuole partire: chi decide di voler rimanere è spesso costretto ad accettare stipendi sottopagati, o orari esagerati. L’offerta come già accennato si completa con i lavori stagionali e tutti i loro limiti.

Lavori pericolosi & Produzioni inquinanti: binomio che ha visto nel secolo scorso il passaggio di testimone tra le miniere e l’industria pesante. I danni all’ambiente, le patologie causate da essi e i morti veri e propri non si contano e non si possono contare, ma i registri tumori parlano chiaro oggi come i casi di silicosi parlavano chiaro qualche decennio fa. Le falde acquifere, l’aria, il mare anche se esteriormente sono bellissimi sono tutt’altro che incontaminati, e purtroppo la tendenza non riesce a invertirsi. Non riusciamo cioè a liberarci dalle produzioni inquinanti, di cui il caso del polo di Portovesme è l’emblema massimo di entrambi gli aspetti, seguito subito dopo dal Poligono di Teulada.

Produzioni eticamente scomode: questo paragrafo è dedicato esclusivamente alla RWM la fabbrica di bombe da guerra di Domusnovas, la cui storia è emblematica. La fabbrica esistente dalla metà del secolo scorso serviva per la produzione di esplosivi ad uso civile, necessari nell’industria mineraria, col crollo di quest’ultima anche la prima è andata verso il fallimento, evitato solo grazie al rilevamento della ex SEI esplosivi da parte di RWM spa (una derivata del colosso tedesco RheinMetall) che l’ha trasformata in una fabbrica di micidiali bombe. La fabbrica conta circa 150 dipendenti, ben pagati e con contratti abbastanza rassicuranti. Negli ultimi cinque anni ci sono state numerose mobilitazioni che chiedevano la chiusura o la riconversione della fabbrica, le risposte ricevute da parte degli operai, delle loro famiglie e di una parte degli abitanti dei dintorni sono state di avido fastidio e cinica menzogna, col solo fine di difendere produzione e stipendi, anche se questi costano la vita di migliaia di persone in giro per il mondo.

Cessione del territorio per speculazioni coloniali (energia e turismo): il territorio è in gran parte ancora di proprietari locali, che purtroppo non si stanno facendo problemi a monetizzare porzioni natura ereditata integra&selvaggia, che verrà trasformata in campi eolici, fotovoltaici, discariche o strutture turistiche. Il terreno al di fuori di questi settori a oggi vale poco, per l’agricoltura ci sono i premi europei, ma anche quelli si stanno riducendo e allora le possibilità sopra citate sono più appetibili per chi ha terreno e interesse/necessità di venderlo. E’ evidente che alcune di queste tendenze non hanno grande compatibilità con prospettive di ripopolamento o di economie che cerchino sinergia e sostenibilità.

Dipendenza da sussidi, premialità, indennizzo: come tutto il meridione una parte della popolazione sopravvive grazie vari tipi di sussidio elargiti dallo Stato, ad esempio per anni il numero degli operai di Portovesme in cassa integrazione – pagata dallo Stato – era imbarazzante.

Questa veloce e complessa fotografia arriva al giorno d’oggi, in questo 2023 si sono susseguite solo candidature di progetti altamente impattanti a livello ecologico. Il territorio viene immaginato principalmente per discariche e campi eolici o fotovoltaici. L’attuale vertenza sindacale legata ai lavoratori del polo di Portovesme rappresenta in modo paradigmatico la situazione precedentemente descritta. Multinazionali straniere come Glencore prospettano finte riconversioni degli stabilimenti che potrebbero diventare discariche di materiali pericolosissimi.

Verrebbe da gettare la spugna.

Invece assolutamente no, è proprio in virtù di tutte queste difficoltà, del comportamento subito dallo Stato e dalle istituzioni, presenti solo per chiedere voti o per difendere gli interessi degli industriali, mai presenti invece per bonificare, ricostruire o restituire; che si può ritrovare una base di consenso e partecipazione per costruire una resistenza a queste nuove speculazioni.

Si deve ripartire dall’attaccamento di chi è qua verso questa terra, ancora bellissima e piena di possibilità, che hanno però bisogna di determinazione per essere concretizzate; e c’è bisogno di resistenza contro chi continua a far di tutto perché questo non accada.

La risorsa più importante del Sulcis Iglesiente è il Sulcis Iglesiente, non più il carbone, o le ciminiere o chissà cos’altro, ma quel che resta della natura, del mare, delle campagne e delle persone che ci vivono.

Se questa diventerà la spinta per le scelte del futuro si può ambire a un territorio che si riprenda cura di se e di chi ci vive, chiudendo finalmente la porta allo sfruttamento e alla devastazione dopo più di un secolo e mezzo.

Schegge d’attualità:

A riconferma di quanto descritto in modo generale – e superficiale – nell’articolo approfondiamo qui due degli ultimi casi venuti a galla.

Il primo riguarda il trasporto presso la discarica di Serra scireddus, in comune di Gonnesa, degli scarti della lavorazione degli scavi per il TAV del terzo valico, in Liguria. Nonostante esista un norma che prevede che gli scarti non possano essere trasportati oltre una certa distanza dal luogo dove vengono prodotti (proprio per evitare il ruolo di discariche a intere regioni), l’Iglesiente è stato comunque individuato come sito prescelto. Questo perché la norma in questione non vincola le regioni a costruire discariche, rendendo vano quindi l’obbligo precedente. La discarica in questione si trova nelle colline tra Gonnesa e Carbonia, fu costruita una quindicina d’anni fa. Occupa un’intera valle, lontana da strade importanti e occhi indiscreti come quelli dei turisti. Se non si può, allo stato attuale di cose, mettere in discussione l’esistenza di questi posti vista la quantità di immondizia che quotidianamente creiamo, si può discutere eccome se sia il caso che tocchi a una periferia dello Stato prendersi le scorie di un’infrastruttura multimilardaria come il TAV, che non porterà alcun beneficio ai sardi (e forse nemmeno ai liguri..).

Il secondo riguarda invece l’infinita querelle sulla riattivazione di alcuni impianti della zona industriale di Portovesme, oggi spenti, per gli esagerati costi dell’energia e quindi senza operai al lavoro. La giunta regionale si sta prodigando in ogni modo sempre più servile per stendere un tappeto rosso alla multinazionale svizzera Glencore, che però non ha alcuna intenzione di riattivare l’impianto esistente e allora propone di utilizzarlo per lo smaltimento del cosiddetto Black mass. La strategia è stata ben descritta nelle pagine dell’Unione Sarda (notoriamente non esattamente un quotidiano rivoluzionario) che riportiamo interamente: La strategia di questa nuova nuova missione di veleni da spedire in terra sarda è scritta nella storia passata e recente: licenziare tutti, fermare gli impianti, far provare ancora più forte la morsa della carestia e della miseria, per costringere, poi, tutti ad accettare qualsiasi cosa, persino la “Black Mass”, quella spedita in Sardegna da ogni latitudine del mondo. Loro, i proponenti, svizzeri con affari metallurgici e minerari in mezzo mondo, la descrivono come linfa vitale per un giardino fiorito di dollari, pronto a far rinascere le speranze del Sulcis in ginocchio. La realtà, però, è tutta un’altra. Il quesito è disarmante: per quale ragione questo tipo di impianto para-industriale per estrarre “Litio & company” dalle scorie di batterie esauste, provenienti dal mondo intero, lo vogliono costruire proprio nella landa devastata di Portovesme?

Il progetto è quindi quello di far soldi realizzando il più grande hub di smaltimento e riciclo delle batterie esauste, piene, per i comuni mortali, di veleni, gli stessi che i riciclatori di batterie considerano materiali rari e preziosi, come il Litio o il Cobalto, Nickel e Manganese. In parole tecniche: «Impianti di smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi».

La prepotenza, sempre basata sul ricatto, non si nasconde neanche dietro la promessa di chissà quanti posti di lavoro, gli svizzeri parlano così: «Il progetto prevede una fase di cantiere, per la quale si stima una ricaduta occupazionale pari a 15 persone per un periodo di sette mesi ed una fase di esercizio che prevede l’impiego di circa 20 unità di personale (tra diretti e indiretti)».

A questo possiamo sommare i vari progetti presentati dalle multinazionali dell’energia verde che vanno dai campi fotovoltaici, alle mega pale eoliche di 280 metri che vorrebbero mettere al largo dell’Isola di San Pietro.

Mariapica

Iglesiente, primavera-estate 2023

p.s. mentre andiamo in stampa ci arriva la notizia della nascita di un canale Telegram creato per provare a far circolare informazioni, appuntamenti e notizie riguardati il sud ovest sardo, questo il link per accedervi:

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