Proponiamo la traduzione di questo testo, apparso a inizio novembre sul blog francese Lundi Matin (https://lundi.am/Pourquoi-courir-dans-les-champs ), che fa una lettura di rilancio delle due calde giornate del 29 e 30 ottobre 2022 a Saint Soline, nel Nord Ovest della Francia. Due giornate di opposizione alla costruzione di un mega-bacino idrico utile solo all’irrigazione industriale, con una grossa manifestazione che non ha esitato ad affrontare l’enorme dispositivo di polizia schierato ed è riuscita ad invadere il cantiere, e poi un’azione di sabotaggio collettivo di uno dei tubi di futura trasmissione dell’acqua. (https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/la-bataille-de-sainte-soline-en-photo )
Lo riteniamo una lettura interessante, oltre che per conoscere la forza e i ragionamenti delle lotte territoriali d’oltralpe di cui su questo blog si è anche parlato in precedenza, perché il testo pone delle domande importanti anche per chi lotta contro le basi militari e lo sfruttamento coloniale qui in Sardegna.
Principalmente facciamo riferimento a tre questioni:

  • la grinta espressa in queste giornate di lotta specifica, e che ci porta appunto a correre nei campi, è fine a se stessa o c’è qualcos’altro in gioco?
  • una volta raggiunto l’obbiettivo della giornata, invaso il cantiere o tagliate le reti, cosa si fa? Se “l’obbiettivo è vuoto”, come ricalibrare i prossimi passi d’azione?
  • come uscire dalla logica delle singole giornate e mettere a frutto quella grinta, quelle pratiche su un arco di tempo più lungo e su uno spettro di obbiettivi più ampio? Ovvero, come passare da una lotta specifica ad una lotta di liberazione?
    Ovviamente questo testo non offre delle risposte nette: affrontando questi problemi però dà qualche spunto che può essere prezioso.
    Offre inoltre dei paralleli su altri piccoli aspetti con cui il movimento contro le basi ha a che fare: l’intromissione di politicanti e i rischi di recupero della lotta; il feticismo dell’azione diretta e dello scontro; la limitatezza delle letture ecologiche, che spesso scivolano in logiche di governo.

    Col rilancio della lotta contro l’occupazione militare e le difficoltà in cui versa il complesso movimento sardo, testi simili crediamo possano quindi dare uno stimolo a ragionamenti e discussioni che ci fanno crescere, nell’accordo o disaccordo, e ci faranno ritrovare davanti a quelle reti, o dove altro decideremo di essere assieme, con un pizzico di determinazione, intesa e inventiva in più.
    Buona lettura.

Movimento contro l’accaparramento dell’acqua. Sabato 29, assalto tumultuoso di diverse migliaia di persone in occasione della mobilitazione vietata contro la costruzione di un mega-bacino.

Domenica 30, sabotaggio di un tubo sotto le telecamere.

Partigiani di un certo eco-populismo con tendenze insurrezionali, gli organizzatori avevano promesso una manifestazione gioiosa e determinata, promessa mantenuta.

L’obiettivo era raggiungere il cratere del futuro bacino e ci sono riusciti.

Il sottoprefetto ha cercato di congratularsi per gli eventi della giornata, sostenendo che i manifestanti sono stati respinti e l’occupazione del sito è stata bloccata. Ma la gendarmeria è stata effettivamente sommersa, fila dopo fila. La probabilità che sia stata particolarmente scarsa toglie la certezza di essere stati particolarmente bravi, ma l’assalto è stato continuo e non c’è stata un’ombra di esitazione per due ore e mezza. Questa determinazione non solo era intensa e continua [1], ma era anche il risultato di una lunga e intensa lotta. Ma è stata condivisa in una misura molto rara. Come dirlo? C’è stato un allineamento tattico dall’alto tra i partecipanti. Questo testimonia almeno la possibilità di un allineamento strategico dall’alto.

Quali questioni circondano l’evento? I protagonisti ambientalisti, più o meno interni, danno il loro sostegno prima della manifestazione. Uno di loro lascia il campo con la parola “crevure” [carogna, ndt] dipinta sulla sua auto, due volte. Il suo collega più radicale dice che sta pagando per la sua difesa di un’ecologia governativa, a scapito di un’ecologia di lotta. Lei stessa ha parlato nei giorni scorsi di “guerra dell’acqua” e ha decorato Rémi Fraisse con la medaglia di “primo morto”. Non c’è dubbio che la sinistra difenda la rivoluzione postuma. Un leader trotskista ha detto, tra gli applausi, che si pone la questione della violenza. La manifestazione dimostrerà che non si tratta più di un problema. Dopo la manifestazione, il Ministro dell’Interno “non ha esitato a parlare di eco-terrorismo”, avendo in futuro un margine di manovra semantico piuttosto ristretto. “Uno sbandamento” replica il numero 1 dei melenchonisti, invocando una polizia repubblicana (“La République, c’est moi”). Al Ministero degli Interni hanno elaborato una risposta: non ci sarà nessuna ZAD a Sainte-Soline. Ma nessuno aveva posto la domanda. Ci sono giorni che sembrano dotati di parola, in grado di porre domande ad alta voce.

Perché correre attraverso i campi, intralciare le linee della gendarmeria, aggirarle, farle bruciare, passare attraverso i fossati e le siepi, collettivamente, vecchi e giovani, attraverso tutto questo?

“Ve lo diciamo noi: è l’ostilità ai bacini”. Una cosa è il motivo invocato, che è centrale e dominante, un’altra è la meccanica della rivolta. Quando la rivolta mette piede su un campo di lotta, è già in gioco qualcos’altro. Abbiamo attraversato le linee insieme, in barba al divieto, alla paura, in contraddizione con il nostro stesso respiro, siamo passati tra le maglie di una rete destinata a stringersi; abbattendo le ultime barriere siamo scesi nell’area del Progetto, un’area devastata di un progetto civile tra milioni di altri, mettendo in fuga due elicotteri dopo aver attaccato i furgoni, e poi siamo dovuti uscire, siamo dovuti uscire sotto le granate Sivens, i colpi di LBD, nella solita atmosfera rarefatta, e abbiamo usato le stesse barriere per proteggere la ritirata. Sì, c’è qualcos’altro in gioco.

Tuttavia, la giornata assomiglia furiosamente a un atto fallito, sintomo di un’epoca: l’obiettivo è stato raggiunto, e l’obiettivo era vuoto. Come se si fosse tanto più capaci di impegnarsi quanto più questo tende al grado zero. Si rallegreranno gli attivisti puri, per i quali la rivolta è il proprio fine. Gli altri blatereranno, facendo della lotta su una questione ultra-precisa una pietra miliare per l’avanzata rivoluzionaria. Ma che piaccia o no, la politica del passo dopo passo, quella del progressismo radicale, non ha mai posto altre questioni se non quelle che entrano nella logica del governo. E di fronte alla proliferazione di argomenti e alibi riformisti, il radicale che non dice nulla acconsente. Tutto accade come se, tra depressione e disorientamento, i rivoluzionari avessero essi stessi perso il filo, la voglia di rivoluzione, appena quattro anni dopo un’insurrezione la cui eco si era diffusa in tutto il mondo. È difficile da ammettere. In realtà, la rivolta conosce un altro passo dopo l’altro, come abbiamo detto, trasfigura il terreno dove mette piede, e non è quindi il vuoto che si raggiunge quando ci si organizza per l’offensiva, è semplicemente qualcosa di diverso da ciò che è stato annunciato, pianificato o verbalizzato in anticipo. Così, non si partecipa mai solo a un giorno di azione. Ogni partecipazione politica implica uno schieramento su ciò che si vuole far crescere partecipando. Questo può sembrare paradossale dopo una giornata in cui abbiamo fatto così bene, ma dobbiamo rompere con il modello del pedone o del soldato come forma di soggettività politica. Un modello in cui diciamo, ad esempio, che les Soulèvements de la Terre sono i piccoli soldati della Confédération Paysanne, o qualcosa del genere. La soggettività è indissociabile, anche se in modo distinto, dal dire io e dal dire noi. Non si tratta quindi di un “quant-à-soi” individuale o gregario, ma dell’imperativo centrale di non rinunciare mai alla decisione, a qualsiasi livello. Ciò significa: assicurarsi che il significato di ciò che stiamo facendo sia evidente.

Formularla a tutti i costi, correre il rischio dell’incomprensione, del conflitto, piuttosto che crogiolarsi, come tutto ci spinge a fare, nella confusione e/o nella tiepidezza.

Oggi non è più necessario oscillare tra la “concretezza” delle lotte a compartimenti stagni e l'”astrazione” della rivoluzione. Non è più tempo nemmeno di parlare di insurrezione (tutti sanno che è una possibilità del presente, il suo stesso rilievo, e non un orizzonte lontano). Fuori moda, la rivoluzione è all’ordine del giorno.

Significa fondamentalmente l’insurrezione che vogliamo, che possiamo volere, contro tutti quelli che rifiutiamo o che respingiamo. Ogni lotta deve scegliere, contemporaneamente al suo percorso, il campo che la rende possibile, lo spazio di discussione in cui cresce e che cerca di rafforzare. È il dibattito rivoluzionario, questo campo strategico, che deve essere reso potente, senza indugio. Aggregare le forze non è sufficiente, dobbiamo sgombrare un nuovo campo di intelligibilità e assumere la rottura con l’ordine democratico. La paura della scissione, contrariamente a quanto spesso si dice, rafforza la possibilità fascista, dandole la possibilità di incarnare la grande scissione. Perché iniziare da perdenti? Perché scommettere sull’impossibilità, in quest’epoca, di aggregare le forze in una modalità, un linguaggio e una prospettiva rivoluzionari? È prendere la gente per matta. Si ritiene che i discorsi lucidati e rilucidati siano i più desiderabili. È condannare i disertori a non sapere a cosa si uniscono quando disertano, è incoraggiarli a ripiegare sull'”etica”, sullo stile di vita, sull’unità familiare, sull’individuo come centro di gravità – la depoliticizzazione. La questione non è la mancanza di radicalità diffusa, ma la mancanza di idee, di parole, di tensioni, di ostinazione, di pazienza, di “spazi” organizzativi che ci facciano uscire dall’analfabetismo rivoluzionario – perché si tratta di reimparare cosa significa organizzare.

Coloro che dedicano la loro vita alla lotta politica non possono essere all’avanguardia del crollo ideologico contemporaneo. Consideriamo solo una cosa: l’ossessione per le questioni sociali, cioè per i settori produttivi. Il movimento contro il water grabbing ne è un chiaro esempio. Stiamo lottando contro la monopolizzazione delle acque sotterranee da parte di un’oligarchia contadina. E cosa gli mettiamo davanti? L’idea del bene comune. In altre parole, alla monopolizzazione privata si oppone un’altra monopolizzazione privata, che ha la ben nota perversione di essere chiamata “pubblica”: lo Stato. L’opposizione tra ciò che è “privato” e ciò che è “per tutti” ha sempre strutturato il governo del mondo, la civiltà. Un bene è una proprietà. Quando invochiamo, come è di moda oggi, i “beni comuni”, con pochissime eccezioni, non sembriamo preoccuparci troppo di liberarci del retroterra che tutto questo implica: il diritto di proprietà. Se cerchiamo di separare il “comune” e il “pubblico” dal punto di vista teorico, non cerchiamo di separarli dal punto di vista politico. Per strappare l’idea di comune al diritto, bisogna almeno cominciare a optare per la destituzione e la de-socializzazione delle questioni. La trasformazione dei problemi in settori della società deve essere fermata. Ciò implica una rottura totale con il programma rivoluzionario degli ultimi due secoli: il socialismo.

Le questioni sociali sono quelle che presuppongono e danno origine

all’organizzazione in settori produttivi. Non dobbiamo quindi affrettarci a parlare della questione dell’acqua, ma prima chiederci: deve esistere una questione dell’acqua? Questo elemento, così intimamente legato alla vita, è politicamente costruito come polo di imposizione della sopravvivenza. La questione comunista di fondo in questa materia sembra essere: come fare, come organizzare, non per risolvere la questione dell’acqua, ma per far sì che la questione dell’acqua non sia una questione.

È l’imperativo della destituzione che rende possibile una nuova soggettività rivoluzionaria, un nuovo noi. Da un lato, si propone di rinunciare a tutti i fondamenti oggettivi della politica: classe, genere, razza, sessualità, ma anche territorio; dall’altro, si propone di vedere in questo lutto non una fine, un confinamento nella desoggettivazione, ma l’inizio di qualcos’altro. Non scommettiamo su un unico partito di rivolta, né su un campo plurale e unificato del Bene. Si tratta di pensare e vivere l’iscrizione di posizioni rivoluzionarie chiare e distinte in un campo inarrestabile nel suo futuro ma legato a criteri solidi: l’odio per l’istituzione, la guerra al governo del mondo.

[1]Intensità “bella come l’incontro casuale, sul sedile anteriore di un camion coperto senza telone, di un casco e di una pietra”. (Ouest France, “Ivre, il se rend au camp des antibassines”, 30 ottobre 2022, articolo su lundi.am).

[2]Abbiamo la risposta pronta a questo, il disprezzo mostrato per il moralismo e per qualsiasi spirito di sistema. Ma è proprio quando non ci si pone più il problema della fermezza ideologica che ci si condanna ad alimentare, per contrappeso, la tentazione moralistica.