riceviamo e pubblichiamo:

“In un mondo che non ci vuole più”

I giornali sardi (ma anche quelli italiani) hanno dato tra ieri e oggi ampio risalto all’operazione di polizia che si è abbattuta sul gruppo ultras Sconvolts Cagliari 87. Lasciando da parte il disgusto per il plauso piccoloborghese che si leva ogniqualvolta ci sia un’ondata di arresti, quasi come se le nostre vite da quel momento in poi fossero finalmente al sicuro, c’è qualche piccolo spunto da mettere sul tavolo delle discussioni.

Non mi concentrerò sul presunto rapporto di causa-effetto tra la vastissima campagna muraria in tutta la provincia e non solo (sono stati varcati perfino i confini isolani) contro il presidente Giulini e questa retata. A proposito di ciò, mi limito a riscontrare che la città rumoreggia sulla necessità della dirigenza sportiva di iniziare il campionato trovando un riparo da chi ormai ha lasciato intendere che la proprietà non è più la benvenuta e che verrà ribadito sistematicamente.

Ciò che preoccupa davvero, poi, non è tanto la sistematica spettacolarizzazione che le forze dell’ordine fanno della propria attività repressiva, che ormai sappiamo bene non essere altro che lo squallido tentativo di dimostrare la propria utilità e la funzione benefica che avrebbero nel proteggere la comunità da minacce immaginarie, ma l’uso dell’associazione a delinquere, e soprattutto dell’interpretazione che di questi contestati reati associativi hanno dato i giornali.

Reati in linea con gli usi delle tifoserie organizzate, come gli scontri con le forze dell’ordine o gli scontri tra tifoserie dentro gli stadi e per le strade, l’autofinanziamento tramite la vendita di maglie da gara del Cagliari (ricevute in regalo) e probabilmente anche del proprio gruppo (sui giornali il passaggio è impreciso), finiscono nello stesso calderoni di reati comuni come lo spaccio e le rapine. Ma questo sulla base di cosa?

Il sequestro di una cassa contenente 53000 €, la scoperta di una piantagione di marijuana, vari reati imputati a singoli individui tra i 33 bersagli dell’operazione, che andrebbero, nel quadro complessivo, a formare un’associazione a delinquere.

Non dovrebbe costituire un segreto che la cultura ultras ha un’origine marcatamente proletaria. Certo, oggi la situazione nelle tifoserie organizzate è molto più fluida, la curva non è più diretta espressione di una classe, all’interno di un gruppo ultras si trovano persone di ogni tipo in base al semplice riconoscimento di quella cultura come la propria. Ma date le origini di quella cultura, e perdurando il fatto che la curva rimane il settore più accessibile al portafoglio per vedere una partita, la composizione sociale di chi la frequenta assiduamente, in maniera formalmente organizzata o no, rimane in gran parte la stessa di 50 anni fa. E che, di conseguenza, se in una tifoseria organizzata si trova un gran numero di proletari, alcuni di loro si procureranno da vivere con quei mezzi, legali o illegali, ai quali la civiltà capitalista li ha destinati. Dovrebbe essere un sillogismo abbastanza semplice.

Ma il sillogismo fatto dai giornali, che divorano con avidità il bocconcino preparato per loro dalla questura di Cagliari, è un altro. La questura, ben attenta, specifica che l’associazione a delinquere riguarda una parte (le alte sfere) del gruppo Sconvolts e non il gruppo Sconvolts, però i giornali non si preoccupano di queste sottigliezze, è deciso: lo storico gruppo ultras di Cagliari è un’associazione a delinquere. Anche perché, del resto, lo dice proprio la questura, “verosimilmente” (testuale) gli introiti derivanti dallo spaccio servivano anchea finanziare l’attività del gruppo.

Può sembrare un passaggio sensazionalista utile solo all’accentuazione dello scalpore mediatico, ma non si tratta solo di questo. Ciò che veniamo indotti a dedurre, è che un individuo appartenente agli Sconvolts, qualora si procuri da vivere con mezzi quali le rapine o lo spaccio, lo fa in quanto appartenente agli Sconvolts. Con questo passaggio, non si è più uno spacciatore e un ultras, ma uno spacciatore-ultras, non si è più un rapinatore e un ultras, ma un rapinatore-ultras.

Gli Sconvolts, siamo indotti a pensare, rappresentano un’organizzazione criminale.

Alla conferenza stampa della questura è presente addirittura un funzionario della Direzione centrale della polizia di prevenzione, venuto per l’occasione da Roma, e si afferma che l’operazione è coordinata nientemeno che dalla DDAT di Cagliari (Direzione Distrettuale Antiterrorismo). Sembra che i cagliaritani e i sardi siano proprio in pericolo. Bisogna mettere un argine a questa minaccia che ci toglie il sonno. Verrebbe da dire che qui in Sardegna (o forse là in Italia) si vivono modesti pericoli se si riservano tali attenzioni a una piantagione di erba e a qualche tafferuglio. Non so se qualcuno oggi per strada si senta più al sicuro.

Forse però la ragione più profonda è un’altra.

I gruppi ultras, gli Sconvolts qui alle nostre latitudini, rappresentano una delle ultime sacche di conflittualità, una delle ultime resistenze alla piena realizzazione della nuova società dell’epoca digitale. Si proclamano apertamente contrari alla modernità che avanza, sono consapevoli di essere sacerdoti di una cultura residuale e lo esprimono in coro ogni domenica. Il “no al calcio moderno” che sfocia in un no al mondo moderno e alle sue derive. In più si pongono apertamente in conflitto con le forze dell’ordine e dunque con lo stato. Mi sembra più che altro questo che risulta necessario, più che reprimere, sopprimere. Questa irriducibilità di fondo all’ordine costituito, il darsi delle regole altre da quelle prestabilite, delle regole che valgono solo per la propria comunità. Il dissenso e l’affermazione della propria identità agiti sempre e solo attraverso il conflitto. E queste forme organizzate di dissenso e conflitto, che siano unite da una comune base etica o politica, o che siano espressione di una sottocultura sportiva, allo stato non piacciono. Anzi, non devono avere respiro. Non può essere un caso che gli stessi organi di polizia (in chiave antiterroristica!) si occupino dei reati politici e di quelli degli ultras. Questo è ciò che lo stato ci dice tra le righe, che a chiunque voglia esprimere questo dissenso verrà data la caccia fino all’ultimo respiro. Ce lo comunica attraverso l’associazione, se questo

dissenso viene espresso collettivamente, si è un’organizzazione criminale. E se queste sacche residuali di resistenza al nuovo mondo vengono ridotte al sacerdozio, al ruolo di testimoni di un passato di cui vogliono tramandare il sapere ai posteri, non devono nemmeno poter svolgere più questo ruolo: il conflitto non deve esistere. Il conflitto non è mai esistito. O si è d’accordo con questo mondo, o si deve essere estirpati da questo mondo.

Mi sa che non sono ancora riusciti a convincerci però, perché per l’ennesima volta a decidere per noi sardi cosa è giusto o sbagliato, cosa è pericoloso per noi, è venuto a spiegarcelo lo stato italiano da Roma. Però l’operazione l’hanno chiamata Frari, così ci fanno contenti. I padroncini ci hanno portato un bel croccantino: alla repressione danno un nome sardo, e non ci devono certo spiegare loro che cosa vuol dire.

Frari vuol dire fratello. E no, non siete nostri fratelli.

Torraus Arestis

In un mondo che
Non ci vuole più
Il mio canto libero
Sei tu

Brullanu