Riceviamo e pubblichiamo un’interessante confronto con il disegnatore Benigno Moi, sull’utilizzo dell’arte e in particolare dei fumetti in carcere e contro il carcere.

L’idea di concentrarmi su un tema come quello dei fumetti in carcere, mi è venuta molto banalmente osservando i lavori di Benigno, di cui pubblichiamo qualche estratto. Ci tengo molto a recuperare questi disegni che sono stato realizzati nel lontano 1984 all’interno delle carceri speciali di Fossombrone e Cuneo, dove lo stesso autore si è trovato nei primi anni ’80 in seguito all’arresto per “partecipazione a banda armata e associazione sovversiva” nel processo al gruppo toscano di Prima Linea.

Sebbene sia noto che all’interno del carcere i detenuti si impegnino nelle attività artistiche più disparate per evadere dalla monotonia quotidiana, non avevo mai ragionato sulla potenza comunicativa del fumetto per raccontare la vita dietro le sbarre. Attraverso le vignette si possono narrare situazioni di vita quotidiana ma anche esprimere rivendicazioni di natura politica che arrivano immediatamente a chi osserva. E’ proprio questa natura di denuncia che mi ha fatto interessare all’argomento; mi sembra infatti una forma comunicativa replicabile e interessante anche per chi non ha grandi capacità artistiche ma cerca comunque un modo alternativo allo scritto, più diretto e incisivo, soprattutto in un periodo dove le forme di scrittura più articolate diventano sempre meno fruibili da buona parte delle persone. Questo tipo di espressione permette di recuperare amori e linguaggi talvolta soffocati nella comunicazione politica, come dice lo stesso Benigno nella presentazione della mostra dei disegni, esposti in occasione del convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere”, tenutasi a Parma nel 1984. I suoi disegni resistono al passare del tempo e raccontano problematiche ancora tristemente attuali all’interno delle galere e soprattutto nelle sezioni di alta sicurezza: colloqui con il vetro, censura della posta, regolamenti carcerari con restrizioni assurde ecc.

Sempre per rimanere in argomento, non si può non citare Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, il racconto di Zerocalcare della vita dei prigionieri durante la prima ondata della pandemia dell’anno scorso, in cui si sono susseguite rivolte e proteste in moltissime carceri italiane. Il fumetto è stato diffuso prima in un inserto della pagine di internazionale e visitabile a questo link (https://www.internazionale.it/reportage/zerocalcare/2021/07/01/zerocalcare-carcere-fumetto) e poi pubblicato in forma cartacea dalle edizioni di Porfido, benefit per i detenuti. A Cagliari alcuni dei disegni tratti da questo fumetto sono stati utilizzati per illustrare il materiale della campagna sul carcere Nishunu Est Solu, di cui segnalo la pagina Facebook (https://www.facebook.com/Nishunuestsolu). Questa iniziativa ha l’obbiettivo di sostenere i prigionieri nelle lotte all’interno della prigione, ma soprattutto creare delle reti di solidarietà per sostenere i detenuti dall’esterno con parenti e amici e rendere la prigione un luogo meno isolato dal resto della società.

Fuori dalla penisola invece ho scoperto da un articolo dello stesso Benigno (http://www.labottegadelbarbieri.org/zehra-dogan-avremo-anche-giorni-migliori/) il fumetto Prigione n.5 di Zehra Dogan, uscito in Italia questa primavera per le edizioni Beccogiallo. Al suo interno si racconta della prigionia dell’artista stessa all’interno del carcere turco di Dyarbakir, in cui è stata rinchiusa condannata per propaganda terroristica in seguito ad aver diffuso sul web delle vignette raffiguranti la città curda di Nusaybi, bombardata dal governo di Erdogan.

Con piacere ora lasciamo spazio a qualche domanda a Benigno.

Ciao, è un piacere averti tra noi in questo primo numero della rivista. Come prima cosa volevo chiederti, se ti facesse piacere, accennare brevemente alla tua esperienza all’interno del carcere e al clima che c’era al loro interno in quegli anni.

 Nei miei 5 anni di carcerazione ho “frequentato” carceri molto diverse fra loro, ed ho fatto anche l’esperienza di oltre tre mesi di “sottoposizione agli obblighi”, obblighi fra i quali c’erano quelli di recarmi tutti i giorni presso la caserma dei carabinieri, di non uscire dal mio Comune senza autorizzazione, di non mettere piede per alcun motivo in nessuna località del Continente (poi il motivo per farmici rimettere piede lo hanno trovato loro riarrestandomi). oltre al fatto che in quegli anni cambiava velocemente la gestione delle stesse.

Ho fatto circa metà della carcerazione in strutture ”normali”, anche se spesso nelle sezioni cosiddette “speciali” all’interno di queste. Ho quindi conosciuto piccole carceri, come quello  di Grosseto, dove sono stato poche settimane e ho incontrato anche un po’ di detenuti sardi o di origine sarda dentro per reati minori di vario tipo (tombaroli, ladruncoli, favoreggiatori di parenti latitanti ecc.), e carceri fuori dal circuito delle ”carceri speciali” ma con regime di controllo molto alto, e dove operavano anche le famigerate ”squadrette di agenti picchiatori”, come a Pisa. Nel mezzo altre tipologie di gestione (tipologia di gestione che nello stesso carcere poteva cambiare a seconda del personale presente, in particolare direttore o maresciallo capo delle guardie, o dei rapporti di forza che potevano riuscire ad instaurare i detenuti).

Ricordo Le Murate Firenze, dove ho passato i primi mesi dopo il mio secondo arresto a inizio del 1981, e dove furono portate avanti delle lotte che coinvolsero un intero padiglione, con occupazione dello stesso per giorni. Riuscimmo a coinvolgere la città e ci organizzarono un incontro con stampa e Sindaco di Firenze per denunciare il malessere nel carcere, incontro che non ci fu perché una ventina di noi, all’alba del giorno previsto per l’incontro, furono trasferiti in altre due carceri, previo duro pestaggio col classico corridoio di manganellatori lungo le scale (da cui io e l’altro “politico” presente nel carcere fummo risparmiati, grazie al tempestivo intervento di un brigadiere che probabilmente voleva evitare che venisse picchiato chi sapeva avrebbe denunciato il pestaggio perché meno ricattabile. Infatti, anche i detenuti pestati più duramente e pur attivi e solidali nella lotta, durante la visita medica nelle carceri di destinazione (dove arrivarono feriti e contusi) non ebbero il coraggio di sporgere denuncia.

Molto diversa l’esperienza nelle due carceri speciali dove sono stato trasferito a cavallo del processo di primo grado, Fossombrone e Cuneo.

Qui era prevalente la presenza di prigionieri politici, rincontravo molti compagni delle lotte fiorentine, o compagni non conosciuti prima ma della mia stessa organizzazione o addirittura coimputati nell’inchiesta fiorentina su Prima Linea. Nonostante l’applicazione dura dell’articolo 90 (il corrispondente dell’attuale 41 bis, che prevedeva la sospensione dei diritti concessi dalla riforma penitenziaria del 1975), la sperimentazione dei “cubicoli” (celle singole super blindate, con tutti gli arredi ben cementati a pavimento e murature, tv sotto vetro blindato, colloqui col vetro  ecc.), la presenza di una comunità affine rendeva la detenzione meno alienante. I dibattiti, i momenti di socializzazione, le lotte (furono portati avanti anche vari e prolungati scioperi della fame contro le leggi speciali) dava comunque la percezione di essere ancora vivi, presenti e attivi. Ed è soprattutto lì che ho cominciato a disegnare con costanza. Prima, nelle carceri “normali”e nei primi anni, mi capitava di dedicarmi con più frequenza alla scrittura, anche di poesie e di poesie in sardo, mentre la grafica era finalizzata quasi esclusivamente alla realizzazione di quelle cartoline autoprodotte che all’interno del circuito carcerario erano divenute quasi una forma d’arte specifica, che meriterebbe di essere recuperata; alla realizzazione di disegni o cartoline/gioco per i miei nipotini. Con la parentesi del laboratorio di pittura organizzato da un generoso educatore nel carcere di Lucca. Realizzai un bel po’ di dipinti a tempera su tela che non ho mai saputo che fine abbiano fatto,  dato che da lì fui trasferito nel circuito delle carceri speciali.

Come è nata l’esigenza di disegnare fumetti per raccontare la tua esperienza da prigioniero politico?

Mi era capitato già altre volte, anche da ragazzino, di provare a realizzare fumetti o vignette per giornalini o robe simili cui collaboravo. Ma erano cose sporadiche, come le partecipazioni per la nascita di un nipote o i segnaposto ad un pranzo di nozze. Ed ho sempre letto molto fumetti. Ma è stato proprio il vivere in comunità nelle carceri speciali, la condivisione di esperienze, interessi anche culturali; la volontà di trovare qualsiasi strumento utile a far conoscere la vita in carcere, a denunciare e sensibilizzare, è stato sicuramente questo a farmi prendere la matita in mano e provare a tradurre in segno questa volontà di comunicare le nostre sensazioni ed emozioni. Con l’arma dell’ironia e del sarcasmo, derivante anche dal frequente “cazzeggio” dei nostri momenti di socialità, indispensabile a farci sopravvivere anche nei momenti più duri. 

Ho sempre considerato che l’ironia, l’autoironia che non avremmo mai gradito proveniente da terzi, da chi ”stando fuori non poteva capire”, potesse essere un mezzo capace di arrivare anche a chi non stava già dalla nostra parte, a chi non si interessava alle questioni del carcere, poco ne sapeva e poco voleva saperne.

A Fossombrone ho cominciato a realizzare alcuni disegnini, in particolare contro i colloqui col vetro e le altre assurdità della vita in carcere. Un collettivo di compagni di Firenze, Collettivo Gabbia/no, volle farne delle cartoline da usare nella loro campagna di sensibilizzazione sulla questione carceraria e dei prigioni politici. Con un sotterfugio riuscì a far uscire i disegni (conservo ancor la lettera con le vignette che cercai di spedire normalmente, e che non passò la censura e mi fu restituita. Le cartoline girarono un po’, una finì pure sulla trasmissione musicale RAI Mister Fantasy, dove fu mostrata anche se non venne compresa del tutto…)

Ti è mai capitato di parlare dei tuoi disegni con altri detenuti mentre eri dentro? Le espressioni artistiche erano un modo per socializzare in quei pochi momenti a disposizione?

Come detto prima buona parte dei disegni nascevano proprio dalla socialità, dialogo e cazzeggio coi compagni di detenzione. Questo soprattutto nel carcere di Cuneo e dopo che mi fu proposto di esporre i disegni a Parma, in occasione del convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere” organizzato dal grande Mario Tommasini.

Diedi forma definitiva alla serie “Basta col sole a scacchi” e riprendendo le vecchie “cartoline” colorandole coi pastelli, e realizzai tutte le altre, comprese le strisce per “Gli scatenabili”. Il contributo dei compagni fu assiduo e quasi assillante, con spunti, suggerimenti, prime critiche e revisioni. Con un compagno, lo straordinario Paolino Klun (che una volta fuori diede vita al primo giornale di strada, Piazza Grande a Bologna) passammo ore a studiare la realizzazione di un intero volume/manuale, Il popolo dei cubicoli volevamo chiamarlo, dove raccontare con disegni tipo il libro degli Gnomi di Wil Huygen uscito quegli anni.

Secondo te i fumetti possono essere uno strumento comunicativo efficace anche per discorsi complessi?

Penso di si, e l’hanno pensato in molti a cominciare da Umberto Eco e Oreste del Buono. Non solo i fumetti hanno avuto una grande influenza nella cultura di massa, ma autori come Quino, Feiffer, lo stesso Schulz coi Peanuts, o Altan, Pratt e Pazienza in Italia, solo per fare alcuni fra i tantissimi nomi di classici che potrei citare, sono stati capaci di sintetizzare in un disegno, in una battuta, dei concetti, o degli spunti di riflessione, che spesso lo scritto non riesce a rendere con la stessa efficacia immediatezza. Non si tratta ovviamente di dare scale di valori alle varie forme di espressione, ognuna ha una sua specificità e la sua “efficacia” dipende da vari fattori, capacità dell’autore, momento storico, contesto.

Ci sono state altre esperienze di compagni che hanno scelto di raccontare la propria esperienza in modi differenti dalla comune autobiografia che ti va di citare?

Si, partendo proprio dal disegno, l’esempio più famoso in quegli anni è stato il quello di Mario Dalmaviva, fra i fondatori di Potere Operaio e finito in carcere assieme a Tony Negri e altri per il Caso 7 aprile (il famoso processo contro Autonomia Operaia N.d.A.), le cui vignette sintetiche e basate sopratutto sui dialoghi, venivano pubblicate su Linus[i].

Nel 1989 fu pubblicato, con prefazione di Oreste del Buono, Alla prossima volta[ii], una storia a fumetti realizzata da due brigatisti, Lo Bianco e Piccioni, casualmente concepita anch’essa nel carcere di Cuneo a partire del 1987. Si tratta di una cosa diversa sia dai miei disegni che da quelli di Dalmaviva, anche se si tratta sempre di trovare forme espressive capaci di raccontare, possibilmente in prima persona, la propria storia in un momento storico in cui era vivo il dibattito attorno a cos’era stata la lotta armata in Italia, a cos’era stato ed era la gestione emergenziale (in termini di repressione prima e di carcerazione poi) dei movimenti armati, sia spontanei in piazza che nei gruppi organizzati.

Si cominciava a cercare di rompere la cappa creata attorno alla questione della violenza politica e della repressione, del superamento contraddittorio di quegli anni, fra dibattiti e speculazioni su pentitismo, dissociazione, irriducibilità e quant’altro. Dibattito che dopo quasi quarantenni possiamo considerare fallito considerando che la questione della lotta armata degli settanta in Italia resta ancora un nodo irrisolto e mai affrontato in maniera compiuta.

Personalmente ho sempre privilegiato l’ironia e l’autoironia, ai limiti del sarcasmo anche doloroso, perché pensavo e penso ancora sia più efficace per accostare certi temi senza frapporre subito la barriera ideologica. E a conti fatti mi illudo anche sia la forma capace di durare meglio col trascorrere del tempo.

Infine, voglio citare un esempio illustre, anche perché dentro c’è finita anche un po’ di Cagliari. Ernesto Rossi, uno dei militanti più illustri di Giustizia e Libertà e coautore del Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli, durante la sua carcerazione prima, e al confino a Ventotene poi, non ha mai smesso di coltivare le sue passioni, il disegno satirico (spesso direttamente sulle lettere alla moglie) e i burattini.

E proprio i burattini di Rossi sonno stati recuperati e fatti rivivere da Giulia e Mauro Sarzi in un progetto che ha coinvolto, oltre al loro Teatro delle mani, che ha sede a Cagliari da oltre 40 anni, anche l’Università di Cagliari, la Fondazione Sarzi e la Regione Emilia Romagna.[iii]


[i] https://ilmanifesto.it/mario-dalmaviva-la-memoria-resta-viva-nei-sorrisi-e-nel-cuore/

https://www.ugomariatassinari.it/morto-mario-dalmaviva-galera/.

[ii] https://www.maremagnum.com/libri-antichi/alla-prossima-volta/156378580

[iii]  https://www.unica.it/unica/it/news_notizie_s1.page?contentId=NTZ78318

https://ilmanifesto.it/ernesto-rossi-e-il-suo-manifesto/
https://www.umanitaria.it/carbonia-attivita/carbonia-avvisi/1504-i-pupazzi-di-ernesto-rossi-insegnano-l-europa

Alcuni disegni tratti dalla serie Basta col sole a scacchi, disegni dal carcere, 1983/1984

Alcune strisce tratte dalla serie Gli Scatenabili “scatenati” … o quasi, carcere di Cuneo 1984