Le lotte, sono per la Sardegna uno strano tema da trattare, questa terra famosa in tutto il mondo per il suo mare a uno sguardo veloce sembra completamente pacificata, forse di una pacificazione imposta, ma comunque in apparenza non ribollente.

La nostra isola non sarà una terra di conflitti canonici, ma di sicuro non è una terra in pace, in particolare con se stessa. Lacerata da mille ferite inferte dalle dominazioni più antiche fino alle più recenti, presenta crepe da cui soffiano insofferenza e rabbia.

I territori devastati dalle miniere e dalle industrie, quelli sottratti dai militari, i milioni di emigrati dell’ultimo secolo, le foreste distrutte, i mari saccheggiati, i lavoratori sfruttati sono tutti sassi tenuti rabbiosamente nelle tasche che aspettano solo di essere lanciati contro l’oppressore di turno.

Non sono mai mancati segni inequivocabili di questa insofferenza, le centinaia di attacchi a caserme e istituzioni, i sabotaggi alle basi, le variegate forme di quella resistenzialità endemica sempre più vicina all’estinzione ma ancora esistente, solo per citarne alcune.

A queste forme di attacco individuale e asimmetrico spesso è mancato un contesto di massa o pubblico che fungesse da contestualizzatore, da catalizzatore (non egemonico) di queste manifestazioni di insofferenza sociale. Negli ultimi anni solo la lotta dei pastori del 2019 ha saputo svolgere questo ruolo – seppur con ovvi limiti – raccogliendo una solidarietà senza precedenti e complicità e determinazione insospettabilmente forti e diffuse.

Con queste righe si giunge rapidamente alla conclusione che in Sardegna negli ultimi decenni sono mancate come l’acqua nel deserto le lotte di massa. Le giornate in strada, anche se rare – che si tratti di scioperi generali, di lotte territoriali o di altro ancora – qualche volta riempiono le strade anche con migliaia di persone, come accaduto recentemente a Nuoro per lo smantellamento dell’ospedale cittadino, ma non si può parlare di veri e propri momenti di rottura. Infatti è frequente che quelle rare occasioni non riescano a superare il momento contingente, vengano ridimensionate dalla fiducia delle persone nelle istituzioni e recuperate dalla politica dei palazzi (vedi la fine della lotta dei pastori).

Il contentino istituzionale, unito ad una rimozione collettiva della determinazione – a volte anche violenta – di piazza, finiscono per spegnere quei piccoli fuochi di lotta, e le speranze di chi sogna lotte che possano cambiare il mondo.

Questo non deve scoraggiare, anzi deve essere una chiaro fattore locale con cui saper convivere.

Questo però, allo stesso tempo, è il motivo per cui le lotte degli ultimi anni contro le basi militari sono una piacevole anomalia nel panorama isolano, e la ripresa del conflitto vissuta negli ultimi due mesi ne è parte.

Non siamo degli illusi, non vogliamo assolutamente dipingere o forzare la creazione di un qualcosa che non esiste, non vogliamo però neanche negare che una giornata come quella del 19 dicembre abbia per noi e per quest’isola un valore importante, e una potenzialità enorme.

Tagliare quelli reti, in questo momento va ben oltre il concreto attacco all’occupazione militare, è un segnale che tutte le reti che sottraggono libertà alla nostra isola possono essere tagliate. Per come la vediamo noi va bene che ciò accada in ogni modo, di giorno di notte, in tanti o in pochi.

Possiamo sinceramente ammettere che l’altro giorno farlo in tanti, sotto uno splendido sole e cielo azzurro, ci ha reso veramente felici, ci ha dato quella fiducia di cui avevamo bisogno e di cui speriamo possano godere tanti di quelli che vogliono lottare per la Sardegna, sia che ci fossero sia che fossero altrove.

Inoltre non va dimenticato un altro fattore importante, e cioè il fatto che questa giornata, come altre organizzate in passato, avesse apertamente dichiarato l’intento di voler invadere attraverso il taglio delle reti il poligono. Essere conseguenti a ciò che ci si propone, fare tutto ciò che è possibile fare in una giornata senza esagerare, ma senza nemmeno tirarsi indietro o arrendersi di fronte alle prime difficoltà sono un ottimo segnale di questo risveglio.

Tutto questo però non deve ingannare, tagliare le reti ieri ha voluto dire far respirare le lotte in Sardegna, già domani o magari dopodomani vorrà dire solo recidere un pezzo di infiniti reticolati arruginiti che dopo qualche giorno tornano al loro posto. Abbiamo già visto l’abilità con cui la nostra controparte ha saputo spuntare le nostre armi, recuperare le nostre pratiche e indebolire le nostre convinzioni. Questo non deve scoraggiarci, né farci smettere o indietreggiare, dobbiamo essere consci che le pratiche di azione diretta e sabotaggio sono fondamentali, ma per cambiare radicalmente l’esistente è necessario entrare nelle pieghe e piaghe del sociale, dove si annidano pesantissime contraddizioni che spesso non si vuole nemmeno nominare.

La lotta contro le basi militari polarizza le posizioni, o sei pro o sei contro, lottare contro i padroni è molto più difficile, lottare contro il turismo (unica vera fonte di reddito per moltissimi sardi) ancora di più.

Riteniamo fondamentale il riaccendersi della lotta contro le basi, abbiamo bisogno di una lotta così, che ci accompagna almeno dal ‘69, che avvicina le nuove generazioni, che ci fa vivere belle giornate, propone e sperimenta pratiche individuali e collettive, che si articola in tutta l’isola. Ma abbiamo bisogno anche di altre lotte, di allargare i ragionamenti alle implicazioni socio economiche dell’attuale fase del capitalismo, di smuovere le basi di quest’ordine sociale imposto affinché la polarizzazione diventi di classe, affinché si diffonda l’abitudine al conflitto, la necessità e il desiderio di prendersi cura di se stessi e del posto in cui si vive: di autodeterminarsi.