La procura chiama a giudizio 108 dei 283 secondini che il 6 Aprile 2020 entrarono nel carcere di S.Maria Capua Vetere dando una punizione esemplare ai detenuti in rivolta per alcuni casi di Covid tra le celle.

Non servivano le telecamere, erroneamente lasciate accese, a testimoniare le torture, bastava sentire le denunce dei detenuti, dei familiari e conoscere i 42 trasferimenti avvenuti poco dopo il pestaggio.

Dopo che avvennero le rivolte di Marzo, furono numerosi i tentativi di depistaggio sia nella ricerca di chi materialmente aveva represso le rivolte, che di quelli che, dai loro posti di comando, lo avevano permesso. Così è stato facile giustificare le morti all’overdose e la ridimensionare la repressione delle guardie come una risposta alla reazione dei detenuti.

Dopo vari decenni nella storia italiana emergono violenze di cui da un po’ non si parlava pubblicamente; assieme alla strage dei detenuti in rivolta a Modena, la vendetta a S. Maria Capua Vetere, pianificata dai secondini e dal Dap che si è occupato di autorizzare e depistare. La gravità di questi fatti ha scrollato ben poche coscienze, tra gli amanti della Costituzione o gli antifascisti da salotto, e questo disinteresse ha fatto in modo che per parecchi mesi non si riuscisse a sapere precisamente il nome dei morti, il numero e fino ad ora non ha permesso di compiere delle autopsie.

Questa estate qualcosa è venuta a galla grazie a un’inchiesta dove erano riportate precisamente le violenze che apparivano nei filmati del circuito interno di telecamere.

L’atteggiamento della Giustizia, dei carcerieri e della classe politica in generale è stata quella di chi sente per la prima volta che qualcosa è accaduto lì dentro, una reazione molto simile a quella data all’esposto di alcuni detenuti per chiedere il conto della morte di uno di loro, Sasà Piscitelli.

Adesso solo una parte di quei secondini finiranno in un’aula di tribunale, ma non può interessarci questo, data la storia recente delle famose assoluzioni di assassini e torturatori in divisa. Non è dallo Stato che possiamo aspettarci un giudizio, una vendetta, un riscatto per chi è stata vittima quel giorno. Nelle stesse aule migliaia di persone vengono giudicate e in nome della rieducazione sottomesse al volere dei secondini e del direttore di turno, sembra alquanto improbabile che lo stesso Stato che reprime, incarcera e annichilisce le classi più svantaggiate possa giudicare chi riveste proprio questo compito.

Un’altra caratteristica stona in tutta questa storia: la narrazione, fatte dalle pagine dei giornali, sul ruolo dei detenuti. Durante i giorni delle rivolte nel 2020 vennero definiti violenti e mafiosi e ora invece vengono dipiniti con il ruolo di vittime sacrificali. Attraverso questa narrazione sembra che chi è detenuto perda ogni possibilità di autodeterminazione e di scelta, destinato a subire le botte e le torture delle guardie, trasferito e lasciato a sperare che il giudice di turno ingabbi i colpevoli. La storia di lotte nelle carceri italiani e le rivolte di quei giorni di marzo e aprile ci raccontano tutt’altro: qualcosa dietro quelle mura ribolle e sopporta, ma quando esplode fa paura perchè riesce a ricambiare la violenza che lo Stato gli fa assaggiare ogni giorno e di cui si vorrebbe unico detentore. La partita non è finita e non sarà la condanna o l’assoluzione di quegli agenti a mettere pace nei cuori di chi si rivolta.

Pång ràss