“Senza turismo la Sardegna crolla”
Gian Mario Pileri, presidente
della Federazione agenzie di viaggio

Queste poche parole riassumono molto bene ciò che la pandemia ha messo in luce nella società sarda, mostrandoci le debolezze e le fragilità di un modello di sviluppo che in alcune zone dell’isola si è imposto come asse portante. È da esse che vorremmo partire per provare a riflettere su ciò che è accaduto, su ciò che ci ha mostrato e su ciò che abbiamo sempre avuto sotto agli occhi.

Partiamo da un dato molto semplice: il turismo con il suo indotto complessivo incide circa per il 50% sul Pil sardo, vi sono zone con picchi altissimi, zone cosiddette turistificate, dove ormai non vi è più traccia di attività precedenti, di varietà e tradizione. Secondo un rapporto della Banca d’Italia nel 2019 in Sardegna i turisti hanno speso circa 1 miliardo e 120 mila euro (è ovviamente un dato molto ridotto perché relativo alle strutture ricettive e alle transazioni registrate). Ci chiediamo, dove va a finire tutta questa ricchezza? Perché non se ne vedono i frutti nei territori?

Il turismo viene spesso presentato come “l’economia sostenibile”, ciò che valorizza la natura e che in questo modo salverà l’economia sarda. Qualcuno potrebbe sbrigativamente, ma non a torto, pensare: ma de cali parti?

Se ci si fa un giro nelle zone costiere non si ha la percezione che l’industria turistica generi tutta questa ricchezza, non se ne vedono i benefici e a dimostrarlo ci sono – fra i tanti – i dati sullo spopolamento, in particolare quello giovanile.

Tra il 2016 e il 2020 l’isola ha perso il 3,32% della popolazione e non solo nell’entroterra, il Sud Sardegna ha perso ben 16 mila abitanti e persino Alghero, in cui di turisti ne arrivano eccome, ha registrato un calo demografico. Se saliamo in macchina e ci facciamo un giro nei paesi costieri ci rendiamo conto di quanto nei mesi invernali regni la desolazione, anche senza andare fino a Porto Cervo, luogo simbolo per eccellenza, la cui esistenza è giustificata esclusivamente dalla stagione estiva.

Ma facciamo un altro esempio che chiarisce ancor di più la situazione: perché in un qualsiasi paese del Trentino ci si rende conto che effettivamente il turismo ha reso tutti un po’ più ricchi e in un paese sardo no? Com’è possibile che un paese come Domus de Maria, a pochi chilometri dalle spiagge più frequentate dell’isola, si stia spopolando? Per non parlare di Teulada che negli ultimi 50 anni ha quasi dimezzato i propri abitanti e in cui dovrebbe valere anche la favoletta che tanto raccontano sull’indotto dell’occupazione militare.

La questione è che l’enorme ricchezza prodotta dal turismo non resta in Sardegna. Non sappiamo e non è semplice capire dove i profitti vengano drenati, ma ci sembra evidente che non vi sia una ridistribuzione collettiva. I grandi guadagni finiscono nelle tasche di pochi, sardi e non, che spesso reinvestono altrove, o se anche i soldi vengono spesi qui non sono di certo per strutture utili a chi in Sardegna ci vive.

Con questo non intendiamo dire che auspichiamo un tipo di turismo intensivo in mano ai sardi: in quegli stessi paesi del Trentino sopracitati, lo scempio ambientale ha raggiunto apici inauditi e inaccettabili.

La differenza sta nell’aver scelto – almeno in parte – per il territorio che si vive, significa avere una piccola parte della torta e un ritorno dal prezzo che si è scelto di pagare.

Qui in Sardegna non c’è mai stata una scelta e non c’è neanche un ritorno, questo ci sembra essere sotto gli occhi di tutti, nonostante le favole che continuamente vengono raccontate sull’industria turistica, sulla sua presunta sostenibilità, o peggio ancora sul fatto che sia la nostra unica possibilità.

Il problema è che veniamo trattati come terra di conquista&profitto, territorio in cui estrarre risorse a basso costo: dalle coste sfruttate all’inverosimile, alle risorse idriche depredate, passando per la massa di lavoratori stagionali pagati una miseria (a differenza dei luoghi che godono dei frutti dell’industria turistica in cui le paghe sono spesso pari al doppio!). Senza dimenticarci dei danni collaterali ad esso collegati: in costa la monocoltura delle vacanze ha raso al suolo gli altri tipi di economia, case e terreni costosissimi, tasse maggiorate e progressiva dissoluzione della cultura locale, i mari sono depredati degli ultimi pesci rimasti per offrire ai turisti la grigliata mista o l’aragosta alla catalana.

Ma torniamo alla questione della pandemia e a ciò che ha posto sotto i riflettori. Torniamo alle parole di Pileri.

Il Covid ha aiutato a capire quanto è instabile un’economia che si basa su un mercato sfacciatamente stagionale, della durata di tre mesi all’anno (con un picco che dura circa 50 giorni), dipendente dall’arrivo di vacanzieri esausti dalla vita e dal lavoro cui sono costretti, e che vedono la Sardegna come un posto che li aspetta, li accoglie e li desidera. La realtà è ben diversa, ai sardi piacerebbe eccome un’estate senza spiagge affollate, parcheggi a 20 euro e delirio ovunque, purtroppo le condizioni economiche ci impongono l’attesa – quasi spasmodica – dei turisti, che in due settimane spendono i risparmi di un anno.

Peccato che come già detto, salvo rari casi, quel mare di risparmi scivoli via con la stessa velocità con cui è arrivato (un esempio sono i costi dei traghetti, di proprietà di Onorato, che per moltissime famiglie medie sono quasi metà della spesa dell’intera vacanza).

E se qualcosa dovesse inceppare questo meccanismo?

In questi due anni a causare un imprevedibile calo degli arrivi è stata un’epidemia, la cui comparsa di questi tempi sarà sempre più probabile, ma i motivi potrebbero essere anche altri: una crisi del settore dei trasporti o semplicemente l’immagine della Sardegna che viene sostituita dall’offerta di un altro competitor o altro ancora. Cosa faremo in quel caso?

Saremo in grado di tenerci a galla?

A dimostrare quanto sia squilibrata l’economia isolana sono state soprattutto le forzature della giunta regionale, ben manovrata dalle lobby del settore, che pur di far sbarcare i turisti hanno fatto di tutto. Le misure di contenimento e monitoraggio del virus sono state accantonate da giugno a settembre: dalla sospensione del coprifuoco, ai tamponi negli aeroporti, per non parlare di tutte le manfrine pur di far aprire discoteche e ristoranti, ben riassunta da una scritta comparsa sotto il palazzo regionale l’autunno scorso, “avete preferito il Billionaire alla nostra salute”.

Ovviamente sia quest’anno che l’anno scorso siamo stati una delle regioni con più contagi, l’anno scorso la Regione ha dovuto ricorrere a vari minilockdown in alcuni paesi, e quest’anno abbiamo rischiato di tornare in zona gialla, come è invece avvenuto in Sicilia, anch’essa invasa dai vacanzieri.

Si può dire senza sbagliarsi che la giunta Solinas si sia preoccupata molto di più di favorire la mobilità dei turisti in estate che quella dei sardi in primavera, e peggio ancora, sempre il governatore Solinas si è completamente disinteressato di cosa sarebbe potuto accadere se l’intera isola ad agosto si fosse trasformata in un gigantesco focolaio, sapendo quanti pochi posti di terapia intensiva sono disponibili.

Purtroppo, ancor di più in questo periodo di rassegnazione e indolenza, la consapevolezza dello sfruttamento non basta a mettere in moto le coscienze, però ci sembra di poter affermare che ciò che è accaduto con la gestione dei flussi turistici, al fianco della disgrazia in cui versa il settore della sanità sarda, abbia aiutato a comprendere meglio che tipo di imposizioni e subalternità vive la Sardegna. Per quanto i fenomeni di insofferenza non sembrino spopolare, o non siano di facile lettura, la sfacciataggine con la quale siamo stati trattati e trattate, e specialmente messi da parte per gli interessi, dovrebbe aiutarci a capire la nostra condizione, e da questa partire per innescare la miccia della liberazione.

due penne di maistrali