La mattina dell’11 Agosto, alle ore 12, a Ulassai, abbiamo parcheggiato l’auto davanti a una piccola bottega nella via principale del paese per comprare dei panini. Attività, questa, che d’ora in avanti tenderemmo a sconsigliare: quando volete recarvi in un alimentare, fatelo a piedi.

Infatti, al  rientro alla macchina, abbiamo trovato ad attenderci una Jeep dei Carabinieri col motore acceso, ferma davanti alla nostra. Appena abbiamo provato ad entrare nell’auto, gli agenti sono usciti dalla Jeep e ci hanno chiesto i documenti personali e il libretto del veicolo, simulando un normale controllo. I tempi ci sono sembrati da subito più lunghi di quelli medi in una consueta verifica delle scartoffie che permettono la circolazione dei veicoli (comunque, va detto, molto placidi) e ci è stato detto, diremmo ora pretestuosamente, che l’assicurazione non risultava registrata. Mai fidarsi di un assicuratore, ma la registrazione dell’onerosa assicurazione era fortunatamente certificata da un prezioso foglio di carta, che solo la Legge permette di apprezzare davvero nella sua bellezza. Solo dopo circa tre quarti d’ora, quei giovani dagli eccentrici cappelli hanno deciso di manifestare la vera ragione del fermo: due rotoli di manifesti poggiati nel lunotto posteriore, sicuramente notati ben prima del nostro ritorno all’auto. I manifesti, di cui ci sono stati chiesti molto insistentemente i luoghi delle affissioni, promuovevano l’iniziativa contro l’occupazione militare che si terrà il 19 Settembre all’ex base radar sul Monte Limbara.

Dopo di che, avendo fatto probabilmente una rapida stima della pericolosità della carta arrotolata -nota arma impropria-, hanno ritenuto opportuno richiedere il sostegno di altre due jeep. Inoltre, che sia d’esempio a tutti, non si fraternizza con due pericolosi attacchini: lo sdegno è l’unica condotta decorosa. Purtroppo, un amico originario del luogo che passava di là per andare al lavoro, non aveva afferrato il concetto e si è fermato a salutarci. Indicando i due facinorosi con l’ormai celeberrimo gesto che sentenzia la delittuosità e che  rende le italiche forze dell’ordine riconoscibili in tutto il globo, i guardiani della pace hanno fatto passare al viandante la voglia di gesti d’amicizia tanto gagliardi con una semplice frase: “Conoscente? Documenti!”.

Tra le numerose domande che ci sono state rivolte, alcune, quasi comiche, restituivano perfettamente quanto la loro concezione delle cose fosse lontana dalla realtà. Ci è stato chiesto per conto di chi ci adoperassimo, sotto l’ordine di chi compissimo queste fatiche e perfino chi ci stampasse i manifesti.

Dopo un lungo tergiversare, ci è stato comunicato che avremmo ricevuto una multa, per ottenere la quale era necessario che li seguissimo alla caserma di Gairo, dato che notoriamente le guardie circolano sprovviste di verbali. Abbiamo accennato alla possibilità che fossero i verbali a essere portati dalla caserma e che non fossimo noi a dover fare 10 km scortati dopo un’ora di fermo, ma ci è stato detto che era impossibile. Abbiamo elencato quindi stazioni più vicine di quella di Gairo, ma anche questo era impossibile, perché “noi siamo di Gairo”. Quando le guardie delle jeep di sostegno, ignare dell’annoso problema burocratico, hanno gentilmente offerto di portare dei verbali sul posto, gli incorruttibili giuristi hanno replicato fermamente: “No no, non ci servono”.

Ne è seguita una trattativa di mezz’ora che non riguardava più le nostre argomentazioni: come nelle migliori barzellette sull’Arma, il collettivo Carabinieri si è spaccato in due tra chi non aveva voglia di arrivare fino a Gairo e chi moriva dalla voglia di portarci fino a Gairo. Tra i dipendenti dello Stato, si sa, alla fine trionfa sempre la pigrizia, e infatti siamo stati portati alla Stazione di Ulassai, provvista di verbali, a 600 metri dal luogo del fermo.

Passata un’ulteriore oretta, abbiamo ricevuto il nostro premio: 102 € di multa per “aver affisso abusivamente, alle ore 11,30, un numero imprecisato di cartelli nel comune di Perdasdefogu”, atto del quale “è stata data comunicazione telefonica e per iscritto dal comando Stazione CC competente territorialmente”.
Dalle conversazioni avvenute tra gli agenti, siamo riusciti a intuire che la segnalazione sarebbe arrivata da un abitante del paese, che avrebbe riferito modello del veicolo e targa. Non abbiamo idea del perché la nostra auto sia stata identificata così velocemente a 25 km dal luogo del presunto delitto, ma non è questo ad aver colpito la nostra attenzione.

Cosa può aver smosso nella testa di un abitante di Perdasdefogu l’affissione di un manifesto nel suo paese per portarlo a relazionarsi le forze dell’ordine e non, più semplicemente, a dimostrare il suo disaccordo rimuovendolo? A che grado di complicità, a quale comunione di spirito arriva un civile con le forze dell’ordine in un luogo esplicitamente caratterizzato dalla presenza militare?

È evidente che nella testa di quella persona non ci fossero solo le classiche argomentazioni sull’indotto economico portato dalle basi alla zona, ma che sessantacinque anni di presenza militare agiscano sulla cultura di un territorio e instillino uno spirito di appartenenza a qualcosa di più grande e importante, tanto che la presenza militare è assimilata come un qualcosa da difendere, come un bene comune. Evidentemente, per un membro della comunità, un manifesto antimilitarista a Perdasdefogu non attacca solamente la base, ma Perdasdefogu e i foghesi stessi.

Ci piacerebbe pensare che quella chiamata sia stata effettuata per noia o per la vocazione delatoria di un singolo individuo, ma sarebbe un’analisi pigra e distratta. È molto più probabile che la propaganda e la cultura militarista e coloniale abbiano una forza molto incisiva e ormai strutturale, una forza che fa leva sul buon gioco  ricattatorio che una fonte di sussistenza piovuta dall’alto può avere su  un contesto povero e che non vive d’altro da decenni.

La connivenza dei territori con l’occupazione militare non deve portarci ad avere l’arroganza e la supponenza di insegnare a vivere a dei “servi inconsapevoli, infelici e subalterni”, ma neppure deve diventare una giustificazione autoassolutoria per non ragionare sulla nostra inefficacia, o per smettere di lottare perché “tanto è tutto inutile”.

Sì, in un territorio segnato da tanto tempo dal dominio militare, non sono più la paura e il rispetto – supino o di facciata – dell’autorità a segnare il solco dell’immobilità: la servitù verso il potere smette di essere condizione, diventa cultura. I cittadini stessi diventano, in qualche modo, soldati.

L’esiguità dei numeri, l’ostilità ricorrente e diffusa: niente di tutto ciò rappresenterà mai una buona scusa per arrendersi all’evidenza, né per mettere in discussione la salda convinzione di essere nel giusto e che solo continuando a provarci potremo un giorno incontrare una rottura.

F. e L.