Questo contributo è un testo preparato per il numero 2 di NurKùntra pubblicato nell’autunno 2018, l’ho scelto perché affronta molte delle questioni che vorrei approfondire in altri articoli.

Spunti e riflessioni su un antico mestiere da sempre discusso, denso di contraddizioni e ancora molto diffuso.

Da anni mi interesso a titolo personale a questo argomento, da quando andando per monti e campagne, e a pescare sulle rive e nelle acque del mare, mi sono imbattuto nei segni e nelle conseguenze della pesca e caccia illegale.

Cervi, cinghiali, rapaci, volpi morti nei lacci d’acciaio, migliaia di gusci di ricci, reti da pesca illegali sono solo alcuni degli inequivocabili segni che queste attività lasciano.

Ciò che mi spinge a scrivere queste righe è il dubbio su cosa sia “giusto” fare&pensare nei confronti di questo fenomeno, quanto vada preso singolarmente o collegato alla caccia e pesca legale, quanto alle leggi di uno stato che vuole controllare tutto e che quindi pone attività storiche al di fuori della legalità per poterle bandire.

Ulteriore premessa è che quando parlo di caccia o pesca illegale e di bracconieri non intendo coloro che catturano una preda non consentita per il proprio gusto/fabbisogno personale in modo discontinuo (vedi un pescatore che prende una cernia sottotaglia o un cacciatore che uccide un cinghiale fuori dalla stagione venatoria), ma coloro che sistematicamente uccidono animali per venderli e ricavarne profitto per vivere.

Non si possono unire in un solo discorso il bracconaggio in terra ferma e quello in mare, per cui inizierò con il primo. Questo non vuol dire che il secondo sia meno grave o meno diffuso anzi, i danni a livello di ecosistema sono notevoli in entrambi i casi, ma i due ecosistemi e le leggi che li controllano sono molto diversi. A titolo di esempio faccio notare che in Sardegna è normale mangiare pesce selvatico, cioè di mare, lo si trova facilmente in ogni supermercato, pescheria o mercato civico, è invece molto difficile acquistare legalmente carne di animale selvatico, già solo questo pone i pescatori e cacciatori illegali in condizioni completamente diverse. Ma ci torneremo più avanti.

L’attività di bracconaggio si svolge in Sardegna in modo non uniforme, nel sud è assai più diffusa che qualsiasi altra zona, il motivo è molto semplice, c’è più mercato.

Paesi come Sinnai, Maracalagonis, Burcei, Capoterra, Siliqua, Santadi, Domusnovas e ve ne sarebbero anche altri, hanno tutti chi più chi meno, numerosi abitanti che campano o comunque integrano le loro entrate con l’attività di bracconaggio.

Per chi non conoscesse bene la geografia della Sardegna è necessario far presente che questi paesi hanno tutti una caratteristica in comune, sono molto vicini ad ampie zone selvagge, resistite al disboscamento di fine ‘800: i Sette Fratelli, i monti del Sulcis (Monti Lattias, Monte Arcosu ecc) e i monti dell’Iglesiente, che vanno dal Marganai al Linas.

Queste enormi foreste sono grandi macchie sempre verdi ben riconoscibili anche dalle immagini satellitari, rifugio da sempre di migliaia di animali, anche i più braccati.

L’attività di caccia in queste zone è sempre esistita, e quando sono state emanate le leggi di regolamentazione dell’attività venatoria è nata automaticamente anche la caccia illegale.

Questa velocissima contestualizzazione dei luoghi dove il fenomeno è più diffuso è necessaria per capire che non si tratta di una novità o di un vezzo, ma di una vera e propria attività locale, che ha le sue regole e consuetudini, maestri e innovatori.

I forestali in Sardegna si ritrovano a dover controllare enormi territori, attraversati da poche strade, completamente disabitati, per loro i bracconieri sono i classici aghi nel pagliaio, ecco perché questi ci tengono a non dare alcuna indicazione di quali siano le zone che battono, per cui neanche uno sparo.

Inoltre la legge antibracconaggio “appoggia” involontariamente la diffusione di altri strumenti di caccia (fra cui i più micidiali sono i lacci d’acciaio): i bracconieri per essere definiti tali e quindi pagare le conseguenze legali delle loro azioni, devono essere colti in flagranza, mentre sparano o mettono i lacci o portano via l’animale, e solo in quel caso i forestali possono perquisire le abitazioni e più precisamente i freezer, dove spesso vengono trovati pezzi di altri cervi e cinghiali.

Questi aspetti hanno quindi spinto i bracconieri a prendere la scelta peggiore, quella di riempire le montagne di lacci, causando decine e decine di morti inutili, cioè di animali che finiscono in trappola e vi marciscono dentro.

Ovviamente la prima impressione trovando una cerva morta in un laccio è di disprezzo profondo per una persona che ha causato quello scempio, per una persona che non ha alcun rispetto per la vita degli animali, che non solo si assume la responsabilità di ucciderli ma sceglie coscientemente di rischiare di farli morire tra atroci sofferenze.

Col passare degli anni e col crescere dell’esperienza mi sono però posto delle domande nuove, a cui spesso le risposte che do non mi sembrano contenere la totale complessità del fenomeno.

Proverò ora a condividerle.

Cosa vedo come assolutamente negativo nell’attività di prelievo dei bracconieri?

Per me la cosa peggiore è la casualità della preda che può finire nei lacci o nelle altre trappole, tutte troppo poco selettive, unita al fatto terribile che quando un bracconiere sospetta che le sue trappole siano state scoperte – e quindi controllate – dai forestali, le abbandona per non finire anch’egli in trappola…lasciandole attive per mesi e mesi.

E’ così che si spiegano i ritrovamenti di animali morti e decomposti nei lacci.

Un bracconiere sistema qualche decina di lacci d’acciaio per volta, tendenzialmente lungo le discese verso l’acqua. Le sistema una notte e poi va a controllarle tutte le successive fino a che non si ritiene soddisfatto o deve incassare un errore di valutazione.

Non avrebbe alcun senso per lui far morire quegli animali, che sono denaro, immediato e futuro.

Voglio dire che i bracconieri (quasi tutti) sono fra quelli che hanno più interessi a far si che le colonie di cervi o cinghiali godano di buona salute. Anche in quest’ottica non ricava alcun beneficio dalla morte inutile degli animali.

Perché i bracconieri usano i lacci d’acciaio?

Come già accennato i lacci sono una scelta di convenienza, costano poco, non fanno rumore, sono facilmente reperibili e trasportabili, non comportano i problemi del trasporto di armi specialmente se queste sono illegali. Sono molto efficaci.

Nell’ecosistema sardo i lacci si sono rivelati un’innovazione particolarmente dannosa dell’attività di bracconaggio, la loro diffusione così massiccia per la cattura di cinghiali e cervi ha fatto disastri.

Il motivo di questa diffusione è che il laccio a differenza della schioppettata è molto più “gestibile” dal bracconiere, che può sistemarlo in qualsiasi giornata senza destare sospetti, senza dover lasciare un segnale chiaro come quello di uno sparo, che al di fuori delle giornate di caccia (domenica e giovedì) sarebbe un’indicazione di attività di caccia illegale.

Vi sono anche altri strumenti utilizzati dai bracconieri, le reti per gli uccelli, che però hanno il problema di essere visibili a una certa distanza, i lacci per uccelli con il crine di cavallo e i tubi fucile, tubi di ferro con un sistema artigianale di sparo collegato a un cordino che viene innescato dal passaggio dell’animale sul sentiero. Anche questi sono in disuso per gli stessi motivi dei fucili, e perché possono causare vittime particolarmente scomode, è successo qualche volta che siano cercatori di funghi a prendersi un pallettone nella gamba…

Perché i bracconieri fanno i bracconieri?

Rispondere a questa domanda non è facile, però si può iniziare dicendo che non vanno confusi con i cacciatori domenicali, non è il piacere di uccidere un selvatico che li spinge a rischiare bensì credo che i bracconieri siano collocabili nella stessa categoria di altri “piccoli criminali”, cioè figure professionali che in qualche modo sono richieste dal mercato locale. La disoccupazione che infesta le zone dove ci sono i tassi più alti aiuta a prendere una strada non sicura ma neanche troppo balorda. Al giorno d’oggi non so quanta differenza ci sia tra chi coltiva un po’ di marijuana e chi cattura i cervi.

Sicuramente intorno alla zona di Cagliari la caccia e la pesca illegale se si è bravi nel praticarle rendono bene, la borghesia cagliaritana apprezza avere selvaggina fresca tutto l’anno, i ricci o le aragoste sono semplicemente adorati da tutti e anche ristoranti e agriturismi sono ottimi clienti.

I bracconieri sono diversi dai cacciatori?

Premesso che in molti casi i bracconieri sono anche cacciatori, mentre i cacciatori si trasformano in bracconieri solo occasionalmente quando invece che entrare in posta un cinghiale entra un cervo, e allora magari il dito sul grilletto scatta lo stesso, ma è tutt’un’altra cosa.

I bracconieri sono diversi dai cacciatori perché tendenzialmente non operano lontano da casa, cacciano nei monti dove sono cresciuti, che conoscono meglio di casa loro e di cui a modo loro si prendono cura. Le campagne territorio di caccia dei bracconieri non sono mai oggetto di incendi dolosi, ne di carneficine domenicali, spesso perché sono territori dove la caccia legale è proibita. Il bracconiere caccia tutto l’anno, uccide gli animali senza rimorsi ma con una sua forma di rispetto e attenzione, per evitare ad esempio che i branchi si spostino dalle sue zone di caccia.

I cacciatori sono invece tendenzialmente rumorosi, arrivano in trenta con trentacinque fuoristrada, sparano tutto il giorno come se fossero in guerra, sporcano il bosco e ammazzano più animali di quelli che si possono mangiare.

Esistono per fortuna delle compagnie di cacciatori che invece hanno dei valori e si prendono cura del sottobosco, delle strade e dell’antincendio, ma sono una minoranza esigua.

Ovviamente le due categorie non si amano, specialmente tra bracconieri e cacciatori di città si danno del coglione l’uno con l’altro, perché ritengono che a vicenda si rovinino territorio e reputazione.

E la pesca?

Le differenze più sostanziali ed immediatamente evidenti sono che i termini di legge della pesca, specialmente quella amatoriale (sia da riva con la canna, che in apnea), sono molto più vaghi e in alcuni casi assurdi, per cui il 90% dei praticanti è in realtà un pescatore illegale. Ma da nessuno o quasi viene considerato al pari di un cacciatore illegale, sbirri compresi!

Le leggi sulla pesca, cioè le taglie minime dei pesci, il numero di esemplari catturabili e altri parametri simili sono creati totalmente a caso e specialmente non controllati da nessuno. Le capitanerie di porto se ne fregano e tutte le altre forze dell’ordine semplicemente ignorano che queste esistano.

A titolo di esempio sul totale disinteresse delle forze dell’ordine del controllo sulla pesca, si può dire che in una giornata qualsiasi in un qualsiasi porto sardo, ai gommoni che rientrano da una pescata verrebbero consegnati decine di verbali per prelievi fuori dai termini di legge.

Ma questa cosa non avviene mai? Perché? Ovviamente non si sa, ma lo si intuisce, e non voglio di certo far intendere che preferirei un cambio di rotta sui controlli, però è evidente come la pesca illegale (specialmente quella a bassa intensità e incidenza) non venga considerata un problema al pari della caccia, neanche dall’opinione pubblica.

I giornali e i lettori si indignano solo se viene ritrovato un delfino ucciso da un’asta di fucile, ma non se migliaia di cernie sotto taglia vengono pescate e vendute in una sola stagione estiva, o se i ricci sono quasi estinti con un conseguente disastro ecologico dei nostri mari.

Il mare sta morendo, chi lo frequenta abitualmente se ne sta accorgendo, la colpa però a mio parere è per il 90% della pesca legale. Non è sostenibile avere tutti i giorni il pesce fresco appena pescato, eppure nessuno dice niente o quasi.

Anche nella pesca illegale ci sono masse di idioti che stendono reti a maglie finissime a pochi metri da riva facendo manbassa di pesci piccoli poco commerciabili per averne solo alcuni di valore.

Ma il vero danno non lo fanno questi e non lo fanno sicuramente i pescatori amatoriali che spesso si portano a casa al massimo due pesci da fare al forno, rendendosi così indipendenti dal mercato commerciale del pesce.

Il vero danno lo fanno i pescherecci che ogni notte tirano su chili e chili di pesce, di cui molto viene immediatamente scartato e ributtato in mare, già morto, perché non richiesto dai banchi del mercato e dai ristoranti. Il problema è che questa pesca è legale.

Questo articolo non vuole essere un’esaltazione banale del bracconiere, vuole però provare a dissipare la nebbia di banalità che si sentono dire su questo argomento, stuzzicando un dibattito a mio modo di vedere molto interessante.

Concludo con una riflessione, in Sardegna c’è sempre stato chi campava prelevando ciò che la natura offriva: cervi, pesci, funghi, frutta, ad oggi pochi lavoratori sono rimasti così legati al territorio e come già detto in qualche modo se ne prendono cura, come chi pratica la caccia illegale – il bracconaggio – ed è giusto definirlo sbagliato solo perché illegale?

Per me fa danno chi preleva dall’ambiente senza prendersene cura, senza preoccuparsi di lasciarlo nelle stesse condizioni in cui l’ha trovato, non importa se “legalmente” o “illegalmente”. Credo nel prelievo mirato e non dannoso.