Pubblichiamo quest’articolo tratto dal numero 8 di NurKùntra, per andare ad approfondire ulteriormente la complessa tematica del rapporto tra uomo, territorio e istituzioni.

I parchi, per la Sardegna e i sardi sono un tasto dolente.

L’argomento a uno sguardo superficiale potrebbe apparire superficiale, o addirittura marginale, ma così non è, la causa sta nello storico rapporto esistente tra i sardi e la loro terra, un rapporto di amore e odio, complicato ulteriormente dalle ingerenze esterne, che senza alcun rispetto si sono abituate a imporsi dall’alto, innescando variabili imprevedibili intrise di orgoglio, attaccamento, rabbia e voglia di libertà.

La storia dei parchi fa parte di tutto questo solo nella misura in cui questi sono stati subiti e vissuti come ennesima imposizione e sottrazione di “sovranità” sulle proprie terre, ovviamente non da tutti, anzi, sono molte e tutte numerose le visioni sul tema.

Le opinioni sull’argomento Parchi non sono quindi per nulla concordi e le posizioni in materia non rispettano i consueti colori politici, così le fazioni hanno composizioni particolari, assolutamente uniche.

In particolare si riscontra una notevole distanza tra le opinioni degli abitanti dei centri urbani medio grandi e quelli dei piccoli paesi.

Sulla questione dei parchi negli ultimi anni, si è diffusa con ottusa superficialità una posizione  che vede in una presunta fascinazione malinconica del passato il movente della sfiducia di alcuni sardi nei confronti dell’Istituto dei parchi. Una sorta di miope visione del mondo, nostalgica del passato, che verrà presto risolta quando “si renderanno conto che è l’unica possibilità”, o quando “le nuove generazioni  finalmente  capiranno  che…”.  Non  è  impossibile  capire  perché  si  sia  diffusa  questa visione così superficiale della questione, la risposta – o almeno una parte di essa – la si trova nell’imposizione planetaria dell’industria del turismo che in Sardegna farebbe affari d’oro se un po’ dovunque nascessero parchi e aree marine protette, gigantesche vetrine naturali a misura di turisti.

Proprio perché convinti che la visione sia superficiale, ci è sembrato interessante proporre un piccolo approfondimento sulla questione parchi, perché crediamo profondamente che i motivi che spingono ogni anno a turno alcune comunità a rifiutare le varie proposte del Ministero dell’ambiente siano più che mai attuali e fondati.

In ordine di tempo l’ultima comunità che si è opposta in blocco alla creazione di un’AMP è stata quella di Carloforte, che di certo non rifiuta l’economia turistica, e allora perché respingere l’idea di un parco?

Ma andiamo con calma, e iniziamo con dei dati.

I parchi come praticamente qualsiasi altra cosa hanno le loro gerarchie, i più importanti sono i Parchi nazionali, in Italia ne esistono 25 che ricoprono circa 16.000 kmq che rappresentano il 5,3% del territorio.

La Sardegna ne ospita due quello dell’Asinara e quello de La Maddalena, ma sarebbero potuti essere tre, nel ‘98 infatti fu istituito quello del Gennargentu, che però a seguito di dure proteste fu poi destituito dallo Stato stesso, ma torneremo più avanti sui conflitti tra Stato e oppositori ai parchi.

Vi sono poi tre Parchi Naturali (Porto Conte, Posada e Molentargius) e cinque Aree Marine Protette (Asinara, Capo Caccia, Tavolara, Isola di Mal di Ventre, Capo Carbonara). Vi sono poi altre aree protette riconosciute dalla Convenzione di Ramsar e numerosi monumenti naturali.

A queste ovviamente si sommano altre zone protette, ricadenti però sotto altre tutele, come ad esempio l’oasi WWf di Monte Arcosu.

Quando a inizio anni ‘90 si diffuse nel mondo la moda dei parchi, in Sardegna ne furono identificati altri nove, di cui per ora si è persa qualsiasi traccia di progetto e investimento, in alcuni casi esiste   solo il nome in qualche decreto regionale e in qualche cartello stradale sbiadito.

Perché nascono i parchi?

Rispondendo a questa domanda si trovano più o meno tutte le questioni più spinose della materia.

I parchi nascono con l’intento di preservare delle zone di territorio ritenute di particolare interesse per vari motivi, che possono essere faunistici, floristici ma anche geologici o storici. La conservazione di biodiversità, di specie in via d’estinzione, di foreste primarie e via dicendo.

Mettere quindi un limite e una tutela allo sfruttamento umano attraverso un sistema di leggi che regola  l’accesso  alle  zone,  e  tendenzialmente  vieta  qualsiasi  tipo  di  prelievo,  che  siano  funghi, animali o piante. In questo modo teoricamente le specie viventi dovrebbero poter godere di una condizione di natura selvaggia e non più alterata, potendo così vivere e riprodursi in serenità, garantendo il mantenimento delle loro specificità.

La tutela ed il mantenimento di un parco hanno però dei costi, anche piuttosto rilevanti, per questo negli anni la logica della tutela si è dovuta piegare a quella del mercato turistico, e i parchi lentamente sono stati attrezzati per diventare fruibili al pubblico, in cambio di denaro.

Sono stati creati rifugi, campeggi, bivacchi, ostelli, sentieri, aree picnic e via dicendo, così attrezzati i parchi sono diventati mete turistiche sempre più ambite e frequentate, e quindi fonti di guadagno e investimenti sempre maggiori.

Un esempio di quanto la logica commerciale abbia prevalso su quella della conservazione lo si ritrova nella divisione delle aree del Parco Nazionale dell’Asinara, dove la zona A, quella di riserva integrale (dove è vietato l’accesso a chiunque), è ormai ridotta a poco più di un francobollo, mentre la zona C quella aperta al turismo autonomo è la più grande, e il costo di ormeggio per un gommone alle boe è di ben 30 €.

In breve quindi da ragioni prettamente scientifiche o etiche, si è scivolati brutalmente su quelle commerciali, e così queste porzioni di mare o territorio sono l’ennesima risorsa che il capitalismo sottrae alle comunità che storicamente le hanno vissute, e le trasforma e rivende.

Ovviamente non può esserci alcuna popolazione che culturalmente sia legata a questo tipo di economia, i parchi sono stati inventati un secolo fa, e in Italia tranne quella del Gran Paradiso sono tutti relativamente recenti. Ed eccoci quindi arrivati al terreno di scontro.

Solo per essere chiari, perché non tutti vivono nei pressi di un Parco nazionale ma gari non tutti ne hanno visitato almeno uno, le regolamentazioni di alcuni Parchi prevedono il divieto di libero ingresso nei territori sottoposti a tutela, per farsi una passeggiata o nuotata è necessario avvisare gli enti preposti e in buona parte dei casi pagare. Questo si intende come sottrazione di territorio.

L’ipocrisia dell’ambientalismo e dell’ecologia svendute al dio denaro

Non posso parlare di parchi di altre regioni perché sono territori che non conosco, ma sicuramente non è un caso che i due Parchi nazionali esistenti in Sardegna siano in zone particolari, uno è situato in  un’isola  che  nell’ultimo  secolo  lo  Stato  aveva  già  sottratto  ai  sardi  per  farne  una  Cayenna, all’Asinara è tuttora presente, anche se in disuso, uno dei più mostruosi super carceri che l’Europa “democratica” abbia potuto conoscere. L’altro invece è nell’arcipelago de La Maddalena, unico parco ricadente in un solo territorio comunale (che quindi ne prende da solo tutti i benefici), ma anche un arcipelago particolare. Nei secoli scorsi le varie isole dell’arcipelago hanno vissuto storie piuttosto originali, sono state proprietà e località di villeggiatura privata di famiglie straniere, una di queste

cedette Caprera a Garibaldi, le altre in buonissima parte sono sempre state disabitate. Inoltre La Maddalena, unico centro abitato dell’arcipelago, ha dovuto subire per mezzo secolo l’occupazione militare statunitense, con tanto di stazione per sommergibili militari a propulsione nucleare (che si teme abbiano lasciato in dono un notevole inquinamento), insomma una storia non comune alla fine della quale probabilmente l’istituzione del parco – avvenuta nel ‘94 – è un finale positivo e tra l’altro piuttosto redditizio.

Un’isola  era  deserta  o  quasi,  l’altra  già  votata  al  turismo  e  maltrattata  da  una  pesantissima occupazione militare, così sono potuti nascere gli unici due parchi nazionali, tutti gli altri tentativi, in particolare quello per la creazione del parco nazionale del Gennargentu sono andati a sbattere sull’insofferenza dei sardi nel vedere le ennesime imposizioni dall’alto di forme di sfruttamento non autoctono dei loro territori.

La lotta contro il Parco Nazionale del Gennargentu

Il Parco Nazionale del Golfo di Orosei e del Gennargentu venne istituito attraverso il decreto Ronchi – allora ministro all’ambiente – nel ‘98. Il Parco sarebbe stato costituito da 74.000 ettari  e avrebbe coinvolto 25 comuni.

Il progetto calato dall’alto, come da tradizione nei rapporti tra Stato italiano e Sardegna, suscitò da subito malumori, i motivi specifici di tale diffidenza vanno ricercati nel fatto che i territori inseriti nel parco sarebbero stati sottoposti a tutele particolari, particolarmente limitanti delle consuetudini e libertà degli abitanti, dalla scarsa rappresentanza che le popolazioni locali avrebbero avuto nel consiglio direttivo del parco, con cinque componenti su un totale di dodici, e dal mancato coinvolgimento delle stesse comunità nella fase decisionale che avrebbe portato alla perimetrazione del parco.

I territori interessati sono zone dove il pascolo brado ovino, caprino, bovino e suino sono storicamente assai diffusi, e fonte di sostentamento per numerosissime famiglie, inoltre sono da sempre territori di caccia per gli abitanti dei paesi limitrofi e non.

Ma non solo, una consistente fetta della cultura dei paesi del centro Sardegna è legata a doppio filo con la montagna, non a caso viene chiamata cultura montagnina, e molto spesso ha avuto poco a che fare  con  la  legge  imposta  dallo  Stato,  o  comunque  ne  ha  sempre  fatto  un’interpretazione necessariamente aderente alle esigenze che la vita in montagna impone e rispettosa delle tradizioni culturali sedimentatesi nei secoli.

Questo insieme di questioni creò un malumore che dalle chiacchiere nei bar, nelle piazze e nei mercati, si diffuse a macchia d’olio in tutta la zona e del quale i sindaci di piccoli paesi non poterono non farsi carico, iniziando per primi a far uscire pubblicamente e istituzionalmente le resistenze al progetto del parco.

Il progetto cessò di esistere nel 2008, quando formalmente fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale che il parco si sarebbe potuto fare solo in accordo con le popolazioni residenti.

Il culmine della protesta si ebbe nei primi anni 2000, vi furono giornate di lotta a cui parteciparono migliaia di persone, più di una volta furono bloccate nello stesso giorno le vie d’accesso a quello che sarebbe diventato il parco, arrivando quasi allo scontro fisico con le forze dell’ordine.

Dopo aver dimostrato capillarità ed efficacia sul proprio territorio la lotta si spostò anche a Cagliari, dove toccò il suo punto più alto il 21 ottobre 2005 con una manifestazione sotto il consiglio regionale di più di diecimila persone.

La lotta contro il Parco del Gennargentu è forse l’esempio più eclatante e recente di lotta trasversale all’interno del panorama politico isolano, questo non vuol dire che tutti andarono d’accordo o che tutti spingevano per le stesse motivazioni, ma che di sicuro tutti i partiti provarono a portare acqua al proprio mulino, anche perché ad essere proparco c’era solo da perdere.

La lotta antiparco divenne quindi per molti aspetti l’ennesimo ambito di campagna elettorale, ma i motivi profondi che spingevano buona parte di quelli che lottarono erano per fortuna molto più genuini e lontani dalle logiche dei partiti, c’era l’insofferenza per l’ennesimo tentativo italiano di imporre un sistema economico alloctono, in uno dei pochi territori che ancora conservava e conserva una parte di tradizioni millenarie che sono basate sulla convivenza con il territorio.

E forse ancora più in fondo c’era il desiderio di non vedersi sottrarre dei luoghi bellissimi, che è giusto che rimangano liberi, anche se in mezzo a mille contraddizioni.

Parchi: zone protette o servitù?

L’opposizione ai vari tipi di parchi, a sentire le popolazioni coinvolte oggi come allora, affonda le sue radici nel timore di ritrovarsi la collina dietro casa dove per tutta la vita si è andati a raccogliere funghi o asparagi, dove si pascola il gregge o si va in bici, recintata da regolamenti, controllata da forestali e inserita in un disegno di logiche ecologico-turistiche che spesso nessuno voleva.

Il tutto aggravato dal fatto che queste decisioni vengono prese a Roma, al massimo ratificate dal consiglio regionale e poi calate sulla testa di chi i posti li vive.

L’assurdo è poi che il tutto viene commercializzato e diventa quindi ad appannaggio di chi i soldi li ha, o comunque li vuole spendere per andare a passeggiare o a fare diving.

Mi sembra abbastanza logico e comprensibile che chi fino al giorno prima andava a pescare nel mare davanti a casa sua sia restio a pagare per fare la stessa cosa, e possa anche non vedere di buon occhio il fatto che alla fine lui non lo fa più ( se lo fa rischia la multa) e i turisti invece lo facciano attraverso una strisciata di carta di credito.

Per chi non lo sapesse nelle aree marine protette sono concesse un tot di licenze di pesca per pescherecci, che spesso vengono trasformate in barche da pescaturismo, cioè barche che a pagamento accompagnano i turisti a fare un vero e proprio safari di pesca a caccia di cernioni o ricciole e via dicendo. Alla faccia della tutela integrale!!!

I vincoli a cui vengono sottoposti i territori divenuti parco e l’estensione degli stessi si va a sommare a una lunga serie di altre servitù che pezzo dopo pezzo sottraggono una cospicua fetta di Sardegna ai sardi. Le più celebri sono le servitù militari, che tra terra e mare ricoprono una superficie di 23.000 kmq cioè più di tutta la Sardegna, ci sono poi le servitù turistiche zone privatizzate aperte solo a pagamento, ci sono le servitù industriali e energetiche, enormi porzioni di territorio inquinato o utilizzato per fini industriali, o dove sono state impiantate decine di enormi pale eoliche.

Anche solo attraverso questa veloce carrellata si può vagamente intuire il perché ci siano resistenze quando nuovi progetti fanno intravedere il rischio della sottrazione di altre porzioni di terra o mare dalla gestione di chi ci vive, anche se queste sono imbellettate come parchi o AMP.

A maggior ragione questo vale per i progetti avanzati negli ultimi anni, come le proposte di AMP di Capo  Testa  o  dell’isola  di  San  Pietro,  in  queste  intenzioni  istituzionali  la  vocazione  turistica  è nettamente più evidente di quella ecologica, e così sembriamo schiacciati tra le sole possibilità di un turismo di massa o un turismo che ci deve sottrarre la terra in cui viviamo per trasformarla in acquario, o museo o zoo, e noi?

Noi nella logica dei signori che ci comandano siamo qui per rendere queste attrattive funzionanti, forse possiamo goderne ogni tanto fuori stagione, ma questo comunque non conta nulla.

E’ ora di ribellarsi, i Parchi, come un albergo o un porticciolo possono esistere solo se le popolazioni che vivono quei territori sono d’accordo, se non compromettono equilibri ecologici e sociali.

Purtroppo tutto in questo ordine socio-economico e piegato a logiche di guadagno e rapina, anche la tutela e la protezione dell’ambiente e degli animali, questo non vuol dire che non vadano protetti, ma che non sempre ciò che ci viene proposto o imposto sia la soluzione migliore, anche se ha  le sembianze di un parco o di qualcosa di simile.

Sa mariapica