Questo articolo è tratto da Sa Tiria numero 7 – estate 2012. Sa Tiria era un periodico antimilitarista nato durante l’esperienza della lotta contro i radar militari costieri nel 2011, pubblicato fino al 2013 col tempo ampliò gli argomenti trattati. Questo articolo ripubblicato ora – a distanza di 8 anni – esprime il punto di partenza di alcuni ragionamenti che nel tempo ho avuto modo di approfondire, cambiare e evolvere. Nell’insieme mi è sembrato ancora un buon contributo per iniziare a trattare il tema del rapporto uomo ambiente in Sardegna.

Da sempre il peggior nemico degli animali è l’uomo, che siano essi carnivori, erbivori, pesci o volatili.

L’uomo e l’antropizzazione sono state le cause di tutte le estinzioni avvenute negli ultimi secoli sulla terra. Alcune estinzioni risalgono a talmente tanti anni fa’ che in molti non credono possibile che certi animali vivessero proprio nelle montagne che vedono tutte le mattine davanti a casa propria. Un esempio su tutti sono gli orsi, diffusi in maniera abbastanza uniforme in tutt’Europa ora abitano solo alcuni fra gli angoli più sperduti e protetti del vecchio continente. In Italia sono scomparsi dalla Sicilia, da tutto il meridione e da buona parte di Alpi e Appennini.

Veniamo ora ai casi e alla realtà di cui ci interessa parlare, la Sardegna e la fauna sarda. Per iniziare, occorre ricordare che la fauna sarda come quella di tante isole presenta numerosi endemismi, ossia specie appartenenti ai ceppi madre delle specie ma con caratteristiche, dimensioni, colori e abitudini uniche e caratterizzanti sviluppatesi nei secoli, adattandosi a climi e terre diverse. Gli endemismi sardi più diffusi sono: il cervo sardo, il muflone, il cinghiale, la volpe e svariate specie di rettili e anfibi. Non è chiaro se anche il daino fosse da annoverare in questa lista poiché venne estinto prima che si potessero fare i necessari studi.

Il bracconaggio è un triste fenomeno diffuso in tutto il mondo, si tratta dell’uccisione illegale di specie protette o dell’uccisione in zone e periodi non consentiti. Quando circa un secolo fa iniziarono a diminuire sensibilmente alcune specie animali pressate e braccate da una caccia incessante, iniziarono a nascere le prime forme di protezione, ed è in quel momento che i cacciatori di pelli, di corna, artigli eccetera non volendo sottostare a queste regole divennero bracconieri. I mercati continuarono e continuano a chiedere ciò che è proibito, che grazie a questa condizione aumenta notevolmente di valore attirandosi l’attenzione dell’avidità e della crudeltà umana.

Pelli di linci, ermellini, opossum, corna di rinoceronte, zanne di elefante, pinne di squali, testicoli e organi di tigri valgono migliaia di euro nei mercati clandestini di tutto il mondo. Questo in scala ridotta, ma altrettanto pericolosa per la vita degli animali, avviene anche in Sardegna.

Negli ultimi cinquantanni abbiamo visto sparire dalla nostra isola numerose specie, le più famose sono la foca monaca, il daino, l’avvoltoio monaco e il gipeto. Tutte a causa dell’uomo, tutte a causa del piombo dei proiettili. Come sia potuto succedere? Le cause sono tante, ma le principali sono l’ignoranza e l’avidità. Le foche sono state estinte nella costa orientale a colpi di pallettoni perché bucavano le reti dei pescatori per rubare i pesci e perché sempre più soffocate da un turismo crescente, iniziarono a partorire i loro piccoli nel buio delle grotte dove spesso questi nascevano ciechi impedendo così il ricambio generazionale. I daini furono sterminati per le loro abitudini mansuete e la carne pregiata, l’ultimo fu ucciso negli anni ’60 nei boschi di San Vito, e nessuno saprà mai se quei daini erano una specie unica.

L’avvoltoio monaco e il gipeto furono invece sterminati principalmente dall’ignoranza di pastori e cacciatori, i primi erano convinti che fossero pericolosi per il loro bestiame, i secondi avevano già in passato la mania di sparare a tutto ciò che si muove o vola. Quest’ultimo caso merita un approfondimento, è emblematico della poca cultura legata alla natura che caratterizza molte persone. In Sardegna esistevano tre specie di “avvoltoi”, mangia carogne, oltre ai due già citati esisteva e prova a (r)esistere ancora il grifone, questi tre magnifici rapaci insieme ai corvi imperiali e alle volpi ricoprivano un ruolo fondamentale nelle montagne della Sardegna, gli spazzini. Essi nutrendosi delle carogne evitavano il pericoloso diffondersi di malattie e infezioni di cui spesso le carogne sono portatrici, il tutto seguendo un preciso rituale e una particolare divisione dei compiti. Le volpi normalmente si occupavano di trovare e segnalare involontariamente i cadaveri, i grifoni erano i primi ad arrivare e a cibarsi delle parti molli, poi giungevano corvi e avvoltoi monaci a mangiarsi il grosso e infine arrivavano i gipeti che portavano in cielo le ossa (a volte intere carcasse) e le facevano ricadere in modo da romperle e potersi poi cibare del midollo, insomma una catena di smontaggio ben oliata. Questo è solo uno dei tanti esempi di come l’uomo e la sua ignoranza intervenendo violentemente non solo, danneggiano le specie interessate ma anche tutti gli incastri che permettono agli ecosistemi di sopravvivere.

Dopo questa lunga ma necessaria introduzione passiamo al vero fatto di “cronaca” di cui vogliamo parlare, l’enorme diffusione del fenomeno del bracconaggio in Sardegna oggi. In particolare parleremo della spietata caccia al cervo sardo e agli uccelli del sotto bosco. Il cervo sardo portato sull’orlo dell’estinzione verso la fine degli anni ’70 gode oggi di discreta salute, numericamente è in una situazione abbastanza tranquilla e i suoi areali si stanno espandendo sia naturalmente sia tramite ripopolamenti. Storicamente diffuso in tutti i massicci dell’isola verso la fine degli anni ’70 era confinato in tre zone non comunicanti fra loro, i monti dei Setti Fratelli nel sudest dell’isola, i monti di Capoterra nel sudovest e nelle dune fra Montevecchio e Piscinas, in quest’ultima zona in un censimento di inizio anni ’80 furono censiti solo 13 esemplari. Nell’ultimo ventennio un’opera di sensibilizzazione e difesa ha permesso di arrivare alla situazione attuale che conta qualche migliaio di esemplari. Purtroppo né la creazione di oasi, né una maggiore sensibilizzazione hanno messo un freno ai bracconieri, che sempre più spietati continuano la loro opera. Vediamo come. Le pratiche più diffuse sono due, la caccia di notte, con l’ausilio di fari o direttamente dal fuoristrada e l’uso di migliaia di micidiali lacci in acciaio, in cui i cervi e non solo loro rimangono intrappolati fino a morire d’inedia o di coltellata del bracconiere sopraggiunto.

Il primo metodo permette di “scegliere” la preda che nella tranquillità della notte e abbagliata dai fari spesso si concede ad un facile tiro, i pericoli di questa pratica stanno nel rischio di essere rintracciati grazie all’eco dello sparo, ma fra i monti è molto difficile riconoscere la provenienza di un solo colpo, già un secondo permette almeno un orientamento di massima, questo però ammettendo che ci sia qualcuno che ascolta e che poi vada a cercare. Il secondo metodo è completamente differente, necessita di una conoscenza dei boschi molto dettagliata e di lunghe camminate per evitare sentieri e strade battute. Il bracconiere una volta individuata una piccola porzione di bosco dove c’è un regolare passaggio di cervi, spesso nei pressi dei ruscelli, posiziona un laccio in ogni passaggio cercando di non lasciargli scampo. Questo vale anche per “le strade” dei boschi, ossia quei sentieri spesso nelle zone più impervie e nascoste dove gli animali passano abitualmente per scollinare o per risalire un costone. Girando per i boschi del sudovest è facile imbattersi nei lacci, probabilmente un bracconiere in una giornata di posizionamento ne mette una cifra variabile da 50 a 200, dopodiché ritorna i giorni successivi a controllare se qualcuno è caduto in trappola. Non sono solo i cervi a rimanere intrappolati, anche cinghiali, volpi, cani e tutti i quadrupedi del bosco. Può anche capitare che un bracconiere non vada a controllare i lacci lasciando gli animali alle loro sofferenze fino alla morte, o anche che un animale rimanga intrappolato in un vecchio o vecchissimo laccio, lontano dagli occhi e dalle orecchie di tutti. Queste scene terribili sono abbastanza comuni, non è raro imbattersi in cervi, cinghiali e volpi morte, di cui si intravvede solo più qualche osso e l’inconfondibile laccio d’acciaio attaccato ad una zampa.

Due parole a proposito del bracconaggio a danno dei cosiddetti uccelletti, gli uccelli del sottobosco anch’essi oggetto di caccia spietata. Qui chiaramente si tratta di forme di caccia completamente diverse, la più diffusa è il cosiddetto crine di cavallo, cioè un filo sottile con due o tre cappi attaccato a due pezzi di fildiferro apposti su un ramo. Di questi se ci si imbatte nel tratto di bosco giusto è possibile trovarne centinaia, anche perchè la cattura è più difficile. Meno diffusa ma più efficace è la rete, una rete a maglie finissime appesa fra due alberi che intrappola tutto quel che ci passa dentro.

Anche in questo caso il bracconiere mette le trappole e dovrebbe passare poi ogni giorno a controllare e prelevare le prede. Appostamenti dei forestali sono la strategia più usata per provare a beccare qualcuno, ma è facile immaginare come siano di difficile attuazione.

Infine due parole a proposito dei “tubi fucile”, pericolosissimi congegni per la cattura prevalentemente del cinghiale. Si tratta di tubi di ferro con un rudimentale detonatore in grado di far esplodere uno o più pallettoni, apposti al lato di un sentiero di passaggio della selvaggina, hanno come innesco un filo che se tranciato dal passaggio dell’animale mette in funzione il tubo che spara uccidendo l’animale. Diffusi fino a qualche decennio fa ora pare che siano in quasi totale disuso, anche se due anni fa un escursionista vide il suo cane morire per aver fatto saltare un innesco. Si dice che i bracconieri li sistemino la notte e li tolgano la mattina, per evitare incidenti e attirarsi troppe attenzioni.

La cultura della caccia e della pesca illegale è purtroppo molto radicata in Sardegna, ufficialmente dovrebbero essere i forestali a occuparsene, ma è chiaro che il compito non è facile e non sono poche le voci che sostengono che alcuni forestali siano ottimi bracconieri, ma queste sono voci e comunque poco importano, a mio parere la soluzione non è mandare un povero cristo in prigione o fargli 12.000 € di multa.

Questo articolo è l’inizio della seconda fase della mia lotta al bracconaggio (dopo aver tolto centinaia di lacci e continuare a farlo), il bracconiere esiste perché c’è qualcuno che compra ciò che lui uccide. Cercare di portare nelle case delle persone un pò di cultura in questo senso potrebbe essere l’arma vincente, in assenza di clienti il bracconiere dovrebbe trovarsi un altro lavoro. Potrebbe sembrare un progetto utopistico, e un pò già mi piace, ma in realtà ci sono esempi di come questo lavoro abbia avuto successo; in passato esisteva un commercio sottobanco di tartarughe marine, quando queste diminuirono sensibilmente, e contemporaneamente si diffuse un lavoro informativo, la richiesta cessò e anche la caccia illegale, ora esistono due centri per la cura delle tartarughe ferite*. I bracconieri esistono se la montagna e i boschi sono disabitati e sconosciuti, troppe persone non hanno idea di cosa viva e muoia a pochi chilometri dalle loro case e dai loro posti di lavoro. Riappropriarsi delle conoscenze della terra e degli animali è il primo passo per vivere meglio ed evitare che la natura continui sulla via della distruzione totale.

*in Sardegna negli ultimi anni abbiamo avuto anche il positivo esempio della campagna di sensibilizzazione sui ricci di mare, che ridotti quasi sotto il livello di rischio si stanno lentamente riprendendo grazie a un consumo più critico.