Pubblichiamo queste riflessioni, redatte dal Comitato per la difesa del territorio del Sulcis-Iglesiente, sul rapporto uomo-territorio emerse dalle pesanti contraddizioni che la speculazione energetica sta imponendo. Il testo si divide in due parti, una più agevole, “formato volantino”, e una in cui si iniziano ad approfondire alcune questioni che nei prossimi mesi, anni, diverranno sempre più fondamentali.

La speculazione energetica busserà alle nostre porte per comprare i nostri terreni. Li volete vendere?

L’agricoltura e l’allevamento sono fra le migliori prospettive di futuro per la Sardegna e allo stesso tempo la miglior difesa contro la speculazione energetica.

Nell’ultimo secolo le imposizioni coloniali hanno condizionato l’economia e la vita dei sardi, oggi siamo di fronte a una nuova possibile svolta imposta dall’alto.

Le multinazionali dell’energia vorrebbero impossessarsi di migliaia di ettari di terreni agricoli compromettendoli per sempre, impedendo nei fatti lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento nel presente e nel futuro.

COSA E’ LA TERRA PER NOI?

La terra è una vigna, un oliveto, un pascolo, a volte ereditato, a volte comprato con le fatiche di una vita. E’ un prato, una foresta, garanzia della sussistenza dei cicli naturali. E’ il posto del pranzo domenicale, è la fonte di reddito principale o il modo di arrotondare, è il modo per liberarsi dallo stress e molto altro.

La terra può essere una vera e propria fonte di sussistenza per intere comunità.

Portatrice di usi e costumi, consuetudini e saperi ancestrali.

Ma anche innovazione e futuro per chi vuole trovare lavori alternativi.

La terra e i suoi utilizzi sostenibili e sociali possono essere un futuro per la Sardegna evitando quindi nuovi ricatti di industrie straniere.

La difesa dei territori agricoli non è solo un modo di fermare gli speculatori, è la possibilità di garantirci del cibo sano e buono, prodotto vicino a noi, è il modo di preservare valori e cultura contadina e pastorale, che sono parte fondamentale della nostra identità.

Siamo cresciuti con s’aggiudu torrau, con l’organizzazione socio-culturale del pastoralismo, con vitigni autoctoni e colture di pregio.

Non vogliamo che tutto questo si perda, non vogliamo una Sardegna invasa di pale e pannelli.

Non vendiamo la terra agli speculatori, viviamola.

Su dinai spacciat, sa terra abarrat.

Espropri e vendite.

La realizzazione della transizione energetica in Sardegna passerà senza alcun dubbio da uno snodo fondamentale: l’acquisizione da parte delle multinazionali di enormi porzioni del territorio sardo e l’utilizzo sotto forma di servitù di una porzione equivalente dello stesso.

L’acquisizione potrà avvenire in due modi, acquisto o esproprio.

Gli espropri forzati, cioè anche contro la volontà del proprietario del terreno, saranno possibili in quanto gli impianti di produzione energetica sono stati dichiarati opere di interesse strategico nazionale dal dpcm in materia energetica emanato dal governo Draghi, vengono quindi equiparati tanto per capirci a opere come il TAV in Val di Susa o il ponte di Messina.

Le multinazionali – Terna in primis – stanno cercando di evitare la complessa pratica burocratica dell’esproprio poiché in caso di tentativo di opposizione (garantito dalla legge, ma quasi sempre inutile ai fini del risultato finale) i tempi si allungano notevolmente, rallentando quindi il – loro – sospirato inizio dei lavori. Stanno quindi bussando alle porte dei proprietari terrieri proponendo l’acquisto dei lotti inclusi nei progetti.

Questa fase è già uno dei momenti cruciali della lotta di resistenza che si prospetta di fronte a noi, anzi forse in questo momento è uno dei più importanti in assoluto.

Non vendere la propria terra, non affittarla, vuol dire con molta probabilità complicare notevolmente, e sicuramente rallentare, l’apertura dei cantieri. Inoltre a livello generale vuol dire preservare ciò che resta di più importante della Sardegna, il suo territorio, già martoriato dalle varie vicende novecentesche e contemporanee, ma ancora in grado di garantire a noi, e alle prossime generazioni, un futuro di produzioni sinergiche con la terra, e non sfruttamento industriale per necessità energetiche di altrove.

L’importanza della scelta di resistere alla tentazione di vendere è importante perché la compromissione del territorio in caso di installazione dei campi di produzione energetica sarà totale e irrecuperabile.

Ci troviamo quindi di fronte a una scelta che non riguarda solo le prospettive attuali, di cui effettivamente si può riconoscere una scarsa propensione (perlomeno in certe zone della Sardegna) a utilizzare il territorio come risorsa per agricoltura o allevamento, ma anche quelle future che ci fanno intuire come un ritorno alla terra, a coltivazioni sane e non intensive sia quanto mai necessario per poter garantire alle generazioni future un accesso a risorse alimentari dignitose.

Qualcuno purtroppo in giro per la Sardegna ha venduto, ma la maggior parte dei proprietari per adesso non cedono, una resistenza di massa alla vendita potrebbe essere motivo di annullamento di numerosi progetti.

Infine vi è un ultimo aspetto, ma per questo non meno importante e riguarda il cambio di vocazione (o destinazione d’uso per usare termini tecnici) che le vendite imporrebbero ai territori.

Il passaggio da zona agricola a zona industriale, il passaggio da proprietà sarda a proprietà straniera:

questi due cambiamenti non possiamo sapere cosa ci riserverebbero un domani quando eventualmente i campi di produzione energetica non fossero più necessari, si rischierebbe la cessione da multinazionale a multinazionale per nuovi sfruttamenti industriali, in zone ormai private di vincoli paesaggistici, archeologici e agricoli, già compromesse e senza la “scocciatura” di espropri, una vera manna dal cielo per progetti di sfruttamento selvaggio. Tutto questo dobbiamo assolutamente impedirlo, non vendere i propri terreni, o convincere i propri familiari e amici a non farlo è il primo passo.

Il secondo passo.

Siamo una delle regioni più spopolate d’Europa, con un territorio enorme a terra e mare da poter utilizzare dai vari ambiti del settore primario. Renderci conto che l’incentivazione di questo settore, e la difesa di ciò che esiste sono forse la miglior resistenza alle opere di speculazione e devastazione, vorrebbe dire porre il secondo argine a questo e ai prossimi tentavi di saccheggio coloniale della nostra isola.

Intendiamo dire che una terra coltivata, vissuta, amata è una terra molto meno appetibile dagli avvoltoi colonialisti, e oltre a questo è una terra che è molto più forte nel difendersi.

Come possiamo fare questo? Partendo ad esempio dalle piccole scelte quotidiane di preferire i produttori locali alla GDO, di difendere ciò che rimane della cultura contadina e pastorale che abbiamo ereditato.

La crisi del comparto agricolo europeo, i venti di carni sintetiche e cibi OGM impongono una riflessione che viene accelerata da una vicenda come la speculazione energetica che ci vorrebbero imporre.

La riflessione è più banale di quello che si pensa: cosa vogliamo farne del territorio che ci circonda? Come vorremmo fosse utilizzato?

Se non prendiamo parte a questi processi decisionali – così come ci vorrebbero escludere Roma e Bruxelles – ci ritroveremo presto con l’ennesima imposizione esterna della nostra storia, dopo miniere, industria pesante, basi militari ecc.

Non è facile competere con le politiche istituzionali sulle decisioni che riguardano casa nostra, sembra strano dirlo ma è così.

Solo una partecipazione attiva e di massa può invertire questa tendenza e le migliaia di persone che a vario titolo in questi mesi si sono mobilitate per difendere la Sardegna dalla speculazione energetica sono un esempio di come si possa percorrere questa strada.

Uno sguardo indietro e uno avanti.

In questi mesi la percezione o la realtà – a seconda dei casi – dell’attacco in corso ha risvegliato e rafforzato qua e la pratiche e ricordi sull’utilizzo della terra, della campagna.

La percezione reale della possibile perdita delle proprietà ha fatto ritornare la voglia di condividerle, di condividere il lavoro e il raccolto.

A Selargius per esempio, fra i partecipanti al comitato è nata una forte intesa per la difesa dell’agro selargino, ne sono nati orti e vigne collettive, lavori comunitari, pranzi, chiacchiere e risate, con il comune denominatore della lotta contro il Tyrrhenian link.

A Nuraxi Figus la difesa dei territori individuati da Terna per la costruzione di un’enorme sottostazione, è nata e vive tra persone che lavorano la terra e non hanno alcuna intenzione di smettere di farlo, e ne stanno conoscendo di nuove che la pensano come loro.

Chiunque conosca un po’ le dinamiche campagnole sarde sa quanto legame c’è o ci può essere con piccoli o grandi appezzamenti, a volte ereditati, a volte comprati tra mille fatiche, necessari a campare o arrotondare, o utili a svagarsi e divertirsi.

In mezzo a Sa laurera – per citare Giulio Angioni – in un modo o nell’altro ci siamo cresciuti, difendere questi saperi non vuol dire essere nostalgici dell’aratro a buoi, ma far sì che la terra rimanga una possibile, vera e propria fonte di sussistenza per individui o comunità, in grado di preservarne gli usi, i costumi, le consuetudini e i saperi ancestrali, senza negarsi – anzi – le possibilità innovative che il presente offre.

Disinteressarsi ora delle sorti del nostro territorio è un errore che non possiamo permetterci.

Immaginare nella difesa dalla speculazione energetica un utilizzo futuro e condiviso della terra ,potrebbe essere una grande esperienza intergenerazionale per rivitalizzare la società, imparando a lottare per la propria libertà senza delegarla.

Non vendiamo la nostra terra.