Riceviamo e pubblichiamo una panoramica dello sfruttamento del sud ovest sardo, uno dei territori più sfruttati e inquinati dell’intero Stato italiano, che continua a essere nelle mire di enormi speculazioni, che nulla hanno a che fare con un territorio come il Sulcis-Iglesiente, ma trovano possibilità solo grazie all’enorme ricatto del posto di lavoro costruito ad arte nell’ultimo secolo.

Il definitivo declino dell’attività estrattiva, con le conseguenti ricadute sotto il profilo occupazionale, hanno reso la nostra terra un banco di prova privilegiato per le politiche colonialiste portate avanti dallo stato italiano e per lo sfruttamento a opera di imprenditori privi di qualsiasi scrupolo.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: migliaia di ettari di territorio e di costa sono oggetto di servitù militari a Capo Teulada, dove quest’anno hanno avuto luogo due tra le più massicce esercitazioni di cui si abbia memoria, vale a dire la “Noble Jump” e la “Join Star”, che hanno visto la partecipazione di circa 10.000 militari provenienti da oltre 20 paesi Nato, con le inevitabili ripercussioni in termini di inquinamento e di disagi che i residenti hanno dovuto sopportare. Che la guerra costituisca un buon affare, d’altronde, lo dimostra anche la vertenza che la RWM di Domusnovas sta da anni conducendo al fine di ingrandirsi ed espandere la propria produzione.

Che ricatto e sfruttamento siano prassi ben consolidate nel Sulcis è ben evidente anche se si guarda a ciò che accade a Portovesme, che non solo ospita una delle sette centrali elettriche a carbone ancora presenti sul suolo italiano, ma che da decenni si trova al centro di un modello imprenditoriale che non è esagerato qualificare come criminale, che ha condotto alla totale devastazione del territorio, ostacolando lo sviluppo dell’agricoltura e di qualsiasi attività alternativa. La carenza di occupazione è infatti sistematicamente invocata dalle industrie per sottrarsi dal condurre le necessarie bonifiche e per imporre ai lavoratori – con il beneplacito della maggior parte delle maestranze sindacali, ormai adagiate sull’assunto della difesa del posto di lavoro “costi quel che costi”- condizioni lavorative malsane, precarie e scarsamente retribuite. È ad esempio notizia di pochi giorni fa che i vertici di Glencore (la multinazionale svizzera che ha in carico Portovesme) e della Nuova Materie Prime Mediterranee di Macchiareddu risultano indagati per vicende inerenti alcune speculazioni commerciali condotte su rifiuti industriali altamente tossici.

Nemmeno la recente riqualificazione turistica, che ha visto protagonisti i paesi che si affacciano sulla costa, sembra essere in grado di invertire questa tendenza. Concentrato in poche settimane, infatti, il turismo di massa costituisce un sovraccarico per le risorse del territorio ed espone i lavoratori del settore a turni massacranti e a paghe da fame.

Altrettanto insidiosa è la svolta concernente la cosiddetta “transizione energetica”, presentata da governo e multinazionali come una ghiotta occasione per rilanciare sviluppo e occupazione nel Sulcis, e incentrata sul settore dell’eolico offshore, che prevede, secondo le intenzioni dei proponenti, l’installazione di pale eoliche alte 280 metri al largo delle coste di Carloforte. Al di là delle eventuali ricadute paesaggistiche e sull’ambiente e la fauna locali, l’impostazione coloniale del progetto diviene palese qualora si consideri che il cosiddetto “Tyrrhenian Link”, ossia il collegamento sottomarino tra Sardegna, Sicilia e penisola italiana, di fatto priverebbe la nostra isola della propria indipendenza energetica, imponendo l’esportazione verso il continente di qualsiasi surplus prodotto.

Anche le ricadute occupazionali della nuova svolta green appaiono del tutto trascurabili. Si pensi, ad esempio, che il piano presentato da Glencore per fare di Portovesme un polo per lo smaltimento del litio e del cobalto, componenti essenziali delle batterie delle auto elettriche, oltre a rappresentare una potenziale bomba ecologica, non creerebbe a regime più di una ventina di posizioni lavorative stabili.

Di fronte a un simile stato di cose è difficile restare lucidi e non farsi prendere dallo scoraggiamento. È indubbiamente forte la tentazione di emigrare e di cedere al miglior offerente terreni e possedimenti, alimentando il circolo vizioso della rassegnazione e dello sfruttamento.

E invece no! Occorre ripartire dal sentimento di attaccamento di chi questa terra la vive e la abita per costruire dal basso una resistenza a queste speculazioni. La risorsa principale del Sulcis Iglesiente è infatti il Sulcis Iglesiente stesso, non il carbone, le ciminiere o chissà cos’altro, ma ciò che resta della natura, del mare, delle campagne e delle persone che ci vivono.

Se questa diventerà la spinta per le scelte future si potrà ambire a un territorio in grado di prendersi cura di sé e di chi ci vive, chiudendo finalmente la porta alla devastazione e allo sfruttamento che caratterizzano questa regione da più di un secolo e mezzo.