riceviamo e pubblichiamo:

Silentziu,
solu sos passos de sa zente nostra:
kiercamos perdonu ma su peccadu est troppu mannu.
Totu como bruxat in su cantu. […]
Ki su cantu nostu imbattet attesu,
ki abbrandet sas sufferentzias nostras;
de nois
ki ‘nde segamos sas arbures nostras nieddas pighidas.

Un racconto delle stagioni del fuoco, nell’anno che ha seguito il disastroso incendio del Montiferru dell’estate 2021. Immagini, interviste, percorsi e canti sotto una voce narrante poetica che parla di sofferenza e speranza davanti alla cenere. L’ultimo docu-film di Enrico Pau, considerato lavoro frettoloso e collettivo nella raccolta e scelta del materiale e presentato a IsReal2023 a Nuoro, trasmette principalmente le emozioni di chi ha perso tutto nel giro di qualche ora, per tutto il resto della propria vita. La speranza di vederlo rinascere è poca.

L’evento catastrofe, come intervento esterno incontrollabile, irrompe nel nostro tempo determinandone una cesura netta: è l’impossibile che può sempre accadere, si dice. Il momento sospeso divampa su tutto ciò che fino a lì era e finché non si esaurisce infinite sono le possibilità del nostro sentire. Dolore, urgenza, paura, solidarietà, rabbia, sconforto, coraggio: al loro massimo grado. Ognuna resta in minima parte, disseminata tra le anime il cui tempo adesso continua, rientrato nella normalità. Ma l’amplificazione vissuta lascia una traccia anche nella memoria, come effetto della cesura e esperienza condivisa.

Sul Montiferru il passaggio delle fiamme è indelebile. L’attaccamento alla terra è viscerale, che sia per l’esserne immersi dalla nascita, o nell’ammirazione della sua bellezza, o nello sforzo di ricavarne delle possibilità di sopravvivenza alle condizioni difficili: immenso è allora il dolore. “Il danno è nel cuore, ma anche nelle tasche”. Come una rondine, dopo il fuoco, vola via chi sperava che, rimanendo, una possibilità c’era: tanche o luoghi attrattivi, poco importa, adesso non se ne fa nulla. Il lavoro di una vita, lo sfondo della propria Passione: chissà se basteranno gli anni restanti per rivederlo in fiore.

Passione, come quella della Chida Santa che da queste parti ha ancora valore meravigliosamente collettivo, spirituale. L’affidamento “religioso”, dopo la catastrofe, non può sorprendere nei luoghi dove la spiritualità tradizionale è praticata storicamente, riconosciuta nelle sue mura, espressa nei suoi canti. Il cuncordu di Cuglieri che accompagna le immagini sullo schermo non sono colonna sonora ma parte integrante del quadro della sofferenza. Il cammino in salita de sa Kenabara Santa de sa Passione intonante il Miserere è l’anima struggente di qualsiasi sardo davanti al suo malessere: tramite il canto della catastrofe cristiana si rivive il momento sospeso, sperando che il ricordo condiviso fornisca strumenti di espiazione. È sicuramente più facile affidarsi a qualcosa di più grande di noi, piuttosto che alla macchina di gestione della catastrofe che, si sa, è la stessa della sua gestazione. È più umano.

https://www.youtube.com/watch?v=rSqg6TuQlCk

Il peccato in questione non è quello originale, ma quello di sapere dove si sta andando e di non imparare le lezioni del passato: di aver visto nel ‘83 e nel ‘94 la strada del fuoco e aver permesso che si ripetesse; di continuare, come uomini, o meglio come vettori umani del valore, a imprimere il proprio passaggio e uso della terra, che diciamo ci ospita e sembra gradirlo in silenzio. La compartecipazione nel peccato permette di non voler trovare delle colpe singole, ma dà una spinta alla nuova unità ritrovata nella ricerca dell’espiazione. Un’espiazione più materiale.

Se il film si muove quindi sulla direttrice della speranza della nuova vita, questa è possibile per la natura secondo i suoi tempi. Essi non sono i nostri, noi che freneticamente produciamo e vogliamo consumare, noi che moriremo senza vedere che ne sarà fra cent’anni di quel monte, noi che forse ci siamo resi conto di essere ancora vivi durante quel fuoco perché finalmente provavamo qualcosa per ciò che ci circonda. Fatti rientrare nella normalità, quel momento sospeso lo rintracciamo in maniera episodica, come nel canto, appunto.

Questa spiritualità fa parte della nostra identità e nella sospensione del nostro tempo possiamo ritrovare dei frammenti di quello che possiamo ancora essere. Non possiamo permettere che sia un’altra catastrofe a farci respirare quelle possibilità, a rischio di vederle spazzate via del tutto; né che prendendo l’acciaio il posto della corteccia, benché bruciata, le possibilità si restringano o peggio restino nel passato. Quel pezzo di umanità ritrovata può armonizzarsi con altre sospensioni, se in quelle possibilità si crede. Questa la speranza per il tempo nostro.