riceviamo e pubblichiamo:

Il libro “Cemento. Arma di costruzione di massa” di Anselm Jappe, chiarisce sin da subito il suo contenuto: non la città o l’abitare, ma la storia del materiale da costruzione per l’abitare di massa. È una prospettiva nuova, o comunque insolita: lambisce una critica dell’architettura ma senza rinunciare a una critica della merce… la merce-cemento. Jappe infatti non vuole tanto metter parola sulla gestione capitalista dello spazio, con l’ingiustizia sociale che ne deriva, [perché] è stata spesso criticata, […]. Al contrario, la questione dei materiali impiegati non è stata quasi mai presa in esame. Ecco perché ora ci concentreremo su questo tema.”

La matericità dell’architettura, quindi ciò che plasma l’abitabilità, è un problema che viene lasciato a tecnofili o tecnofobi. Per questo l’architettura la si subisce e sta in questo la sua responsabilità sociale.

Il libro sarà presentato giovedì 23 febbraio in presenza dell’autore nell’aula Motzo del Magistero di Cagliari, a venti metri in linea d’aria dalle macerie del crollo che pochi mesi fa ha coinvolto lo stabile di Geologia a sa Duchessa. È l’occasione per porre due interrogativi alle riflessioni di Jappe di cui il secondo investe, ci pare, un dato-limite: la sostenibilità di un’ingegneria-sociale del costruire alle condizioni della società specifica che viviamo.

Primo problema: la storia del materiale.
Nessun materiale prescinde dal suo impiego e del cemento c’è un modo di fabbricazione che cambia i fini dell’impiego da un’epoca all’altra. C’è infatti un modo pre-industriale e un modo industriale di produzione del materiale-cemento. Il cemento alle condizioni di produzione industriale consente di progettare un abitare di massa, con relativo risparmio e quindi profittabilità. È dunque attraverso questo materiale che si impone in epoca moderna l’architettura come ingegneria sociale dello spazio, della quale, come puntualmente sottolineato da Jappe, i situazionisti si fecero per primi portatori di una feroce critica. Il primo capitolo si apre quindi con una “Breve storia del cemento” cercando di chiarire la confusione tra cemento, calcestruzzo e calcestruzzo armato.

Di calcestruzzo, come scrive Jappe, è fatta l’architettura a partire dall’epoca romana. Il termine cemento, e non calcestruzzo, da un punto di vista etimologico non designa il legante (argilla, calce o gesso), ma le pietre che venivano mischiate al le­gante nella costruzione dei muri: si impasta la malta, si costruiscono due paramenti, si riempie l’interstizio tra i paramenti con la malta. Si forma così l’opus cementicium. La debolezza di una muratura risiede nella tripartizione tra nucleo e paramenti esterni, che si supera tramite l’inserimento di materiale passante, i così detti diatoni, che rendono collaborante la muratura e che permettono di economizzare il materiale e il tempo di costruzione. A questo punto inizia il lento fenomeno di cristallizzazione o presa, che consiste nella concrezione dell’insie­me (da cui deriva il nome di muratura concreta, concrete, in inglese, sta per cemento) sotto forma di una crosta di carbonato di calcio che fissa i granelli di sabbia e i cocci di tegole e aderisce alle pietre o ai mattoni. I principi di risparmio e di efficienza presiedono fin dall’inizio la storia di questo materiale da costruzione.

Alla romanità non era estranea una certa padronanza nelle tecniche costruttive. Queste però, si può dire, avevano il carattere dell’artefattività e non dell’industrialità, ovvero ancora non assumevano il materiale come merce da produrre in scala, con una modularità scientifica capace di scomporlo e ricomporlo secondo un principio astratto in vista di un uso concreto. Queste tecniche riposavano quindi, come visto, sull’affinamento di principi empirici. Occorrerà tornare su questo aspetto caratterizzante l’industrialità.

I cementi sono oggi impasti artificiali di calce, argilla e sali metallici, generalmente ossido di ferro e di manganese: questi impasti erano totalmente sconosciuti ai romani e per­tanto il corrente termine cemento con riferimento all’architettura romana non è corretto. In riferimento all’architettura romana si parla quindi di malte come somma di leganti (aerei o idraulici), aggregati e acqua. La differenza quindi tra il cal­cestruzzo romano e quello moderno consiste nella preparazione sia del materiale prima della messa in opera, sia durante la stessa. La scienza galileiana e la chimica hanno consentito di inventare il cemento per come lo conosciamo noi.

Il calcestruzzo moderno è infatti frutto della rivoluzione industriale: esso è una pietra artificiale che organizza in una catena industriale i principi di risparmio ed efficienza già presenti nell’antichità, o nella storia pre-capitalista di questo materiale, per un progetto-sociale-di-costruzione.
Al centro del costruire industriale permesso dal cemento c’è cioè sempre l’abitare in società, vale a dire la progettazione di un’ingegneria sociale, cioè l’architettura stessa. Si vede bene come i termini cemento, architettura e industrialità scontino una certa reciprocità.

La tesi portante: la critica del valore per la critica della civiltà industriale.
L’invenzione del cemento armato, la sua brevettazione, si accompagna alla sua produzione come merce. In termini marxiani la merce-cemento è lavoro astratto che si fa concreto in una merce con un suo specifico valore d’uso, malta per la costruzione. Il rivolgimento, nella circolazione di questa merce, è che il lato astratto del lavoro contenuto in una merce concreta, la misurabilità del valore e quindi la parte di plus-valore estraibile come profitto, reifica, cioè cambia segno, ri-qualifica il valore d’uso di una merce nel suo valore di scambio. In altri termini i principi di risparmio ed efficienza che si condensano nell’industrialità che presiedono alla produzione di questa merce indispensabile per una concezione del costruire come ingegneria-sociale diventano i principi stessi del costruire e dell’abitare alle condizioni dell’industrialità. In questo senso si può affermare che l’architettura viene subita. Essa minaccia la vita-nello-spazio poiché pensata nella forma-merce del suo materiale, il cemento. L’architettura pensata all’altezza di un abitare di massa, cioè come disciplina assorbita nella scienza del governo e dell’amministrazione delle popolazioni nella società, è soggetta ai principi di risparmio ed efficienza che fanno da contrassegno all’industrialità del suo modo di costruire. Le sue costruzioni soffrono un rapido degrado, diventano pericolose, richiedono costante manutenzione. Obsolescenza, fragilità, vulnerabilità dell’architettura-industriale (cioè dell’architettura tra XIX e XX secolo) sono i caratteri della stessa forma-merce del materiale cemento attraverso il quale si è imposta.

Il cemento armato è la forma-merce del costruire nell’epoca dell’industrialità, ovvero la merce specifica che consente di pensare il costruire come infrastruttura spaziale della società, il costruire come condensatore sociale di servizi e infrastrutture: case, case popolari, edifici pubblici, vie di trasporto e comunicazione, ponti, grandi opere pubbliche. In altre parole il progetto politico al quale l’architettura dal tardo XIX sec. in avanti si è messa al servizio è segnato dalle direttrici del risparmio e dell’innovazione risparmiatrice per il profitto che informano la stessa forma merce nella quale il costruire si concreta minacciando inevitabilmente la riproduzione del vivere come esistenza sociale che in questo progetto di società è catturato.

Ed allora il palazzo dell’ONU – qualcuno ebbe a dire a proposito del famoso palazzo di vetro di Niemeyer – non è una unità, non è un edifizio, non merita il nome di “opera” nel senso classico: sono quattro edifizi banalmente poggiati l’uno sull’altro, con la sola conseguenza che le fondamenta e le ossature del primo lavorano stupidamente a sopportare un peso quattro volte maggiore. Se da tutti gli angoli della terra i fessi, noi fessi, abbiamo pagato per questo, ci sarà lieve pensare che la società di domani apporrà sul mostro luccicante al sole una scritta: qui è il simbolo di una umanità cogliona”.
(A. Bordiga)

Secondo problema: sopravvivenza della forma merce oltre l’industrialità dell’abitare e costruire di massa.
La tesi portante di Jappe è una critica dell’architettura come progetto di ingegneria-sociale per l’abitare di massa elaborata a partire dalla critica della forma-valore del materiale da costruzione attraverso il quale si può imporre una produzione industriale del costruire: una critica della merce-cemento, per l’appunto.
Vale la pena richiamare una definizione di industria come modalità e organizzazione dell’agire in una società specifica, quella capitalistica:

Chiamo esplorativamente ed ipoteticamente “industria” prima l’intercombinazione di tutte le grandi potenze rese disponibili dall’applicazione della scienza. E poi elencando queste grandi potenze come sue parti una maniera, una modalità organizzativa trasversale almeno implicitamente collettiva dell’agire, in cui il lavoro (o il residuale agire umano) in generale, cooperante, é pre-scomposto e ridistribuito nel collettivo mediante un piano segnico che lo reintegra secondo una razionalità scientifica peculiare e rivolta al risparmio, soprattutto di capacità umana, ed all’innovazione risparmiatrice, e quindi produce nell’intreccio con la scienza galileiana, combinante sinergicamente potenze differenti, ed allora organizzata in modo necessariamente aperto, e dunque con una forma sempre aperta in avanti, verso il futuro, al nuovo. E mirante all’incremento, soprattutto qualitativo, del macchinario, nel quale sbocca.” (R. Alquati).

Quanto finora descritto riguarda la forma-merce del materiale che rese possibile l’architettura come progetto di ingegneria-sociale al servizio una politica del governo e dell’amministrazione della società trasversale nel ‘900, dall’utopia concreta nella forma socialista a quella social-più-o-meno-democratica. L’industrialità è la forma di agire e costruire delle società che hanno azzardato questa utopia concreta, la nostra compresa con tutto l’elefantiaco peso di istituzioni pubbliche che, pur all’apparenza oggi esanimi, mutano di forma e si ristrutturano. Crollano le università (o avremmo da elencare dalle nostre parti gli ospedali chiusi, i servizi dismessi etc.) perché la forma storica novecentesca di quell’istituzione non è più economicamente sostenibile, ovvero profittevole, ma non scompare una forma di industrialità che presiede l’organizzazione sociale dell’agire con un riferimento istituzionale (quasi invariabilmente sovrapposto alle stesse vecchie istituzioni pubbliche). L’ingegneria sociale si sposta dall’economia di piano attorno all’investimento pubblico e l’architettura, come organizzazione dello spazio, perde di centralità. Un punto ulteriore allora va segnato a partire dalle riflessioni di Jappe: cosa significa la ristrutturazione dell’industrialità per le sorti dell’organizzazione dell’agire in comune? La forma-merce infatti sopravvive nelle trasversalità dell’agire organizzato socialmente oltre il costo, comunque già troppo oneroso, di strutture superflue. La critica infrastrutturale rischia di essere fuori-fuoco e forse non è mai stata il vero bersaglio di una lotta adeguata al modo industriale di costruire e alle sue trasformazioni. 1952:

Il colpevole non è dunque il nuovo materiale, o le regole della sua meccanica matematica da cui si traggono volta per volta le prescritte misure esecutive. (…) Il calcolatore del cemento armato non è dunque il deus ex machina del moderno mondo delle costruzioni. Egli è un povero ruffiano che deve vendersi nelle più diverse direzioni, e la dittatura è in due mani. Un poco in quella dell’architetto e decoratore che deve attirare l’acquirente borghese e parvenu nelle sue sensibilità sempre più distorte e deformate (…). L’altra dittatura, la decisiva, appartiene all’imprenditore capitalistico che vuole, siamo lì ancora, abbassare il costo. Allorché costui fabbrica per vendere direttamente vuole fare lo stesso edifizio con poco ferro e poco cemento, e le sezioni vanno resecate all’osso” (A.Bordiga).

La storia del cemento, della merce-cemento, a un tempo esemplifica un ciclo epocale della valorizzazione capitalistica e della forma-sociale a esso connessa. L’insufficienza e la mancanza di forza del punto di vista di “sinistra”, quello che chiede più Stato e più investimento pubblico per riammodernare infrastrutture e servizi, risiede tutta nella difficoltà storica nel continuare a realizzare valore dalla forma-merce. Ogni investimento infrastrutturale risulta anti-economico e ogni intervento sul patrimonio esistente, per quanto percepito come socialmente necessario per la mancanza di un’alternativa a una riproduzione sociale slegata dalla regolazione di questa società specifica, non segue le nuove direttrici strategiche sulle quali l’industrialità dell’organizzazione-sociale è stata dislocata nel tentativo di continuare e estrarre valore dalla forma-merce umana: non più l’umano infrastrutturato in uno spazio collettivo, ma in uno spazio-tempo, spesso tele-organizzato. Non è un caso che l’architettura perda certamente di centralità nella sua funzione storica e politica di ingegneria dell’universale-sociale ma è altrettanto evidente come non sconti nella nostra contemporaneità un’incompatibilità con la forma dell’industrialità capitalistica nel riproporsi oggi come disciplina di progetti di sostenibilità (eco-sociale) neo-artefattiva (i riferimenti al movimento Arts and Crafts di William Morris in Jappe suonano per questo un po’ naïf).

C’è qui allora con tutta evidenza un nodo politico aperto e attuale. Nelle prime ore successive al crollo dell’università a Cagliari, nel pieno di uno shock collettivo, la preoccupazione ricorrente di studenti e studentesse era relativa al ritorno a una didattica a distanza nell’indisponibilità delle aule crollate e di altri plessi inagibili. Una picccola parabola, se si vuole, e un’esemplificazione di una urgenza politica e storica: se la forma-merce e il modo della sua industrialità riaggiornata sopravvive con tutta evidenza alla forma-storica del costruire di massa, come tenere assieme una opzione politica di decisione sul patrimonio infrastrutturale ereditato e che ancora subiamo con la critica delle forme di industrialità che investono oggi l’agire umano oltre la sua infrastrutturazione architettonica, nello spazio-tempo dell’organizzazione sociale a trazione immateriale?