Del film di Riccardo Milani e su una iniziazione quasi politica al mitico Cagliari del ’70



C’è da partire da una dichiarazione d’amore, una professione di fede, la pratica di un culto.
Di Riva Luigi di Leggiuno se ne parla come nella lotta per la lettera di una dottrina.

Non è un sentimento particolare. È invasivo, condiviso, trasversale, unificante. Tanto è presente in questa città e anche oltre, almeno fin dove il mare isola questa terra, che è sufficiente esserci per attraversarlo.
Si impone, ti cresce, ti accompagna.

Per questo non era improbabile farne un film; per questo di un film del genere ne parliamo senza vergogna di anteporre una confessione oscena: a proposito di Riva e del Cagliari del ’70 e di quanto si è trascinato dietro muoviamo dalla sicurezza di consegnarci a una risorsa fidata e intima dalla quale si trae forza e che disdegna il soccorso della razionalizzazione.

Dottrina e interpretazione: la seconda avanza diritti sulla prima affermando quanto quella nostra vicenda si trascinò e tuttora si trascina dietro. Abbiamo allora a nostra volta un altro piccolo e particolare diritto storico di interpretazione. Non dominante, non di senso comune ma compreso in una storia comune.
Non tradiremo nessuno, nessuno di quanti partecipano della nostra stessa oscena confessione, né sconfesseremo coloro ai quali un film a più riprese pacchiano è piaciuto e basta perché semplicemente ha rinnovato una comune passione.
Pratichiamo lo stesso credo officiato in tante forme e che nasconde più di un mistero.

C’è allora forse un malinteso per il quale partecipiamo della stessa storia ma sentendo che ci consegna memorie e presenti diversi in una compresenza misterica, appunto.
C’è un universo proletario sardo rimercificato in varie forme a metà degli anni ’60: infilato in fabbrica, a Sarroch o a Ottana attraverso il Piano Rinascita, espulso attraverso l’emigrazione e umiliato nella solitudine all’estero, braccato dai carabinieri nei paesi e nelle campagne invase da poligoni e basi. Attorno al mito del Cagliari del ’70 sembra condensarsi un’epica positiva e progressista secondo la quale l’affermazione di quella squadra e del sostegno che l’accompagnava suggellasse con l’impresa sportiva la definitiva affermazione di questa nostra vicenda di classe nella più estesa società del capitale italiano e internazionale, quella dei Moratti come regia occulta e interessata del Cagliari Calcio, fino a quella dell’Aga Khan che “svelò” la Sardegna e i suoi “fortunati” abitanti al mondo. Una lotta per il riconoscimento, insomma. Il frasario ricorrente di questa nostra storia contempla il “riscatto”, la “rivincita”, la “pari dignità”… l’“integrazione” infine. Riva sarebbe il veicolo simbolico di questa realizzazione, fedele alla sua parabola nel tramontare a opera compiuta, condividendone il destino e custodendo un carattere ancestrale che ci ammette al mondo storico del patto fordista post-bellico con pari diritto e una nostra propria personalità, cioè la stessa sua: mite, fiera, dai silenzi severi… balente.

La critica è un esercizio sterile. Restituisce a posteriori e con una costruzione morale le forze storiche ma solo dopo che queste si sono inverate in noi. Con la critica sola si è impotenti perché in fondo non si può non essere quello che si è diventati e non fa dunque che condannarci alla consapevolezza di quanto siamo diventati.
Quindi non diremo che forze malvagie ci hanno corrotto in quest’epopea. Non diremo che saremmo potuti essere diversi o migliori e neanche diremo che questo nostro mito ci ha tradito in una nostra presunta autenticità storica più profonda di… uno scudetto di calcio.
No. La verità è che siamo stati e siamo ora esattamente il prodotto storico di quella lotta per il riconoscimento ma che, allo stesso tempo, la nostra epopea, mediata dai simboli della sua affermazione attraverso Riva e gli eroi del ’70, è stata ed è suscettibile anche di un altro uso.

Quanto segue è una formula di iniziazione al rito misterico di un culto comune.
Riva è schivo. Figlio di gente umile, cresce in collegio progettando evasioni continue. Tomasini, viene dal sud, cresce al nord e gli basterà una pompa di benzina per restare a Cagliari. Claudio Olinto de Carvalho detto Nené, Martiradonna, Domenghini e Comunardo Niccolai, proletari. Gli altri non tanto dissimili. Non faticano a riconoscere la gente loro, prima anche di lottare per riscattarci da quanti ci offendono.
Non è il rigore morale, come certi amano raccontare, che migliora il mondo intero nobilitandolo e aumentandone la statura. Quel Cagliari non redimeva alcuna barbarie e non addomesticava la Sardegna con il gioco del pallone per ottenere il rispetto di una disciplina di classe in cambio di una soddisfazione sportiva. È che in quello che siamo, pure in quello che stavamo diventando, spossessati nella vita venduta per un salario o sradicata in tutte le forme del linguaggio universale della merce, quindi uguale a quella di tutti gli altri nel mondo, non meno barbari di noi, c’era e c’è comunque la riserva di una superbia: quella di affermarsi non – solo – per ottenere riconoscimento ma per trovare la forza dell’indifferenza alle ragioni degli altri. Nelle passioni confuse e sommerse di chi ama quella squadra, di chi la tifava, si conserva un’integrità indisponibile a integrarsi sul ruolo assegnato dalla propria condizione di classe o sulle appartenenze ed identità che ci hanno attribuito. Vincere per non dover dimostrare più nulla: di esser meno criminali, o pastori rispettabili, o buoni operai, oppure ancora ordinati consumatori… finanche per non dover dimostrare di esser sardi fieri, portatori di chi sa quale resistenziale costante.
Siamo solo quello che siamo, prodotti di quella storia, ma eredi del diritto di disprezzare i rapporti che ci sistemano nel mondo. È un segreto che si annida nella realtà in ogni dove. Ci sono miti che lo rievocano.
Riva è schivo. Giocava a pallone e non ama parlare. Non deve spiegare nulla di quello che dovremmo essere. I suoi silenzi si lasciano abitare da ogni possibilità.

Scusa Ameri, qui Cagliari. Il solito Riva!