Bentu di Salvatore Mereu si perde nell’assolata campagna di Sanluri al tempo in cui le macchine dissociarono il rapporto tra uomo e ciclo naturale della trebbiatura dei campi. Qualche riga di sfogo su un film con una fotografia tanto bella da presumere di non doversi misurare con il limite del linguaggio cinematografico davanti a vicende di uomini indifferenti al linguaggio, all’idea del progresso, alla società e dell’idea di lavoro associata a questi.

I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore
(La malora, Fenoglio)

                                                   

Il dominio del ciclo dei fenomeni è la soggezione dell’uomo all’eventualità. La parola non è richiesta. Un fatto si presume si imponga per scandire l’opera al passare dei giorni. Il vento si presume si alzerà a separare il grano dalla paglia.
Una mietitrebbia assorda la campagna della Marmilla, aspra e ingenerosa, allora come ora, nella sua miseria di eventi. Metà del secolo, grosso modo. Quello scorso. Non c’è più da aspettare il vento. Gli uomini volano via, dai campi e sulla macchina. Nessun vento li avrebbe mai strappati a quell’asservimento. La mietitrebbia libera dai campi ma non dal lavoro. Ora questo diventa lavoro per gli altri, per il progresso, per l’interesse collettivo. A questa fatica corrisponde una retribuzione della società.
Non tutti però seguono la mietitrebbia.

Lo schema morale è tutto qui: accettare o no di farsi strappare all’eventualità salendo sulle macchine.

Solo lo sguardo che si posa su questa frattura rassicurato dalla distanza dell’epoca presume un’innocenza dell’opera riposta nell’evento e il suo inquinamento con l’avvento della macchina.
Ha un linguaggio questo sguardo. Come il cinema, che è un linguaggio aumentato nello sguardo.
L’altezza contemporanea di questo sguardo è quella che permette di vedere la secessione dal dominio dei fenomeni. Parla il linguaggio del lavoro che si emancipa attraverso le macchine su una promessa di miglioramento delle condizioni di vita, affrancandosi dalla suscettibilità dell’evento ma asservendosi alla regola della società e della sua utopia redistributiva in cambio della compartecipazione al suo progresso. Con le macchine. Il vecchio non lavorerà più per sé o per i suoi signori seddoresi ma per tutti, e quindi per sé nella socializzazione della sua opera in cambio di un salario.

Ma chi si perde in un’epoca travolta non ha parola perché questa non era richiesta per abitare quel mondo avaro di prossimità e senza società. È inutile la parola per lavorare aspettando il vento.

datti ai lavori che gli déi hanno fissato agli umani,
perché tu, un giorno, con mogli e figli, il cuore afflitto,
non debba cercare di che vivere dai vicini e questi non se ne curino.
Perché due o tre volte forse otterrai qualcosa, ma, se insisterai nel seccarli,
non riuscirai più a niente, e spenderai con la gente molti vani discorsi:
ti sarà inutile nutrire parole
”.
(Esiodo)

Il cinema parla sempre un linguaggio e adotta quello del tempo di cui è figlio quando il suo sguardo si posa su un tempo passato: è il linguaggio che deve giustificare la fatica e il lavoro come compromesso con la società perché le macchine hanno inaugurato una nuova forma di prossimità allargata ben oltre i campi e che tocca l’universale. Questo linguaggio celebra l’avvento delle macchine e la fine di una forma dell’opera umana e della sua percezione del lavoro o ne ha pietà, ma è incapace di cogliere l’equivoco della potenza inespressa con quel che scompare.
Esso ha la pretesa di esprimerla con parole che non avrebbe avuto.
La pietà inoltre irrita sempre perché arriva con il privilegio di dispensarla.

Allora viene da sospettare che l’unico sguardo possibile non sarebbe tanto quello che rievoca le epoche travolte, riempiendo del linguaggio del mondo venuto dopo un universo ancora muto, ma quello che osa contraddirsi avanzando la possibilità del suo proprio equivoco.

Da questo quindi non solo l’esigenza di un cinema che impari a guardare senza far parlare quanto non aveva espressione pur vantando una certa potenza ma anche il presentimento che nel mutismo che ci abita nel nostro tempo riposi una potenza senza espressione non ridotta alle macchine sulle quali lavoriamo.

Certo, il cinema che dispensa ancora la lezione della storia, un tempo nella celebrazione e ora nella pietà davanti al progresso, non può aiutare in questo compito di scoperta.