Pubblichiamo quest’articolo apparso nell’ultimo numero di Nc’at Murigu per stimolare delle riflessioni sul tema degli incendi in Sardegna, in vista dell’iniziativa del 30 Maggio organizzata da Sardinnia Aresti (di cui trovate la locandina nella categoria cronaca, lotta, territorio). Questo tema sta assumendo ogni anno delle forme sempre più impattanti sul tessuto sociale sardo e devastanti da un punto di vista ambientale.

Anche quest’anno in Sardegna si è perso il conto degli incendi, centinaia di roghi hanno caratterizzato l’estate, non provocando vittime ma recando enormi danni al territorio e a chi ci vive.

I danni più gravi si sono registrati nel Montiferru, dove a fine luglio è scoppiato un incendio durato diversi giorni che ha reso cenere migliaia di ettari di pascolo e bosco dalle colline al mare. Nei paesi colpiti la conta di danni non è ancora finita e già si palesa il rischio di dissesto idrogeologico in caso di forti piogge autunnali.

Se l’incendio in sé non stupisce più di tanto, ciò che lascia l’amaro in bocca più a lungo è la gestione di esso, durante l’emergenza e quando essa finisce.

Questo articolo nasce per provare a condividere alcune suggestioni emerse nel corso dell’estate maturate durante una breve esperienza di sostengo alle popolazioni del Montiferru, dei confronti, degli studi e delle ricerche. Non si ha pretesa di completezza, ma il desiderio di provare a collocare la questione degli incendi nell’ambito che gli compete, e quindi quello della devastazione sistematica del territorio sardo, con le annesse responsabilità, omissioni e finalità più o meno occulte.

Gli incendi che ogni anno devastano migliaia di ettari di territorio sardo, non lasciano solo terra bruciata in senso letterale, fanno anche terra bruciata intorno a chi in quei territori ci vive.

L’incendio colpisce anche dopo il suo passaggio, assumendo le forme di un fortissimo incentivo al cambiamento, molto spesso inteso come “modernizzazione”, a una svolta nelle abitudini-consuetudini locali e delle tradizionali forme di sussistenza di determinati territori.

A titolo di esempio: le attività più colpite dagli incendi di quest’estate sono di natura agropastorale e olearia, nonostante le promesse delle istituzioni non tutti coloro che sono stati più o meno danneggiati potranno riprendere la propria attività, anzi saranno indirizzati – o costretti nei fatti – a convertirsi nei nuovi settori avanzanti, come la green energy, il turismo o il terziario in generale, se non addirittura ad emigrare. Venderanno o affitteranno i terreni anneriti alle nuove economie, abbandonando un altro pezzo di terra alla speculazione o all’incuria.

Negli ultimi decenni le istituzioni e l’ordine socio economico sotto cui viviamo, hanno creato le premesse sempre più forti, perché gli incendi siano – al pari di altre calamità naturali – un fatto sempre più ricorrente, contro il quale esiste solo la cura e non la prevenzione.

Implicitamente queste scelte hanno cancellato quelle che invece storicamente adempivano all’effetto opposto, cioè che prevenivano – per quanto possibile – il diffondersi di incendi di enormi dimensioni, attraverso il vivere, curare e conoscere il territorio dove si vive.

Come proveremo ad analizzare più avanti gli incendi in zone come la Sardegna sono normali, non c’è di che stupirsi che in giornate in cui si sfiorano i 40° nascano roghi un po’ dovunque, ciò che stupisce è che i roghi diventino incendi e poi megaincendi. Ciò accade nonostante tutti in Sardegna sappiano riconoscere le giornate tipiche da incendio, e quindi ci si chiede perché questo continua ad accadere?

Per introdurre uno dei temi cardine sull’argomento mi affido a uno stralcio di un articolo dell’antropologo sardo Giulio Angioni, che nell’89 provava a smontare la credenza assai diffusa che gli incendi esistessero quasi solo in virtù dell’esistenza degli incendiari, e non principalmente per questioni climatiche. Questa lettura mi è sembrata interessante in quanto più di trent’anni dopo le cose non sono cambiate – se non addirittura peggiorate – e questa lettura del mondo mi sembra far comodissimo alle istituzioni che hanno un ottimo modo per scaricare qualsiasi responsabilità.

Incendi&incendiari

di Giulio Angioni, tratto da Ichnusa, rivista numero 16, febbraio-marzo 1989

Troppo facilmente si punta l’indice contro i pastori e si ignorano invece le condizioni ambientali e climatiche che favoriscono da sempre i focolai. Caccia alle streghe, luoghi comuni e scomode realtà.

“Di fuoco specialmente mi pare più utile discorrere a freddo. Di incendi estivi è perciò meglio riparlare d’inverno. Ho un mio parere, che ai più suona stravagante. Ma non ho nessuna intenzione di fare stravaganze. Si tratta di una mia convinzione maturata in un paio di decenni, che qui ripropongo, sperando di gettare almeno un sasso nello stagno, se non acqua sul fuoco.

L’idea che quello degl’incendi agroboschivi in Sardegna, e in generale nel Mediterraneo e dintorni, sia soprattutto un problema criminale è una delle più radicate. Sembra proprio a sentire molti, anzi sicuramente i più, anche tra gli esperti, che all’improvviso al sopraggiungere dell’estate soprattutto i pastori e un po’ meno i contadini, comunque nel nostro caso i sardi di campagna, siano presi dalla piromania, mentre nelle altre stagione questa mania parrebbe in loro sonnecchiare o dormire della grossa: come se cose combustibili ci fossero solo a San Giovanni e a ferragosto, e non anche a Natale e capodanno, per chi voglia bruciarle.

Certo che è così, ci si spiega da secoli: perché i pastori e i contadini hanno interesse a bruciare campi e boschi per migliorare pascoli e raccolti. E poi, si aggiunge, si tratta anche d’una forma consueta di danneggiamento per vendetta e per rivalsa o per semplice malanimo o invidia del bene altrui.

Certo, il fuoco per l’uomo è, forse ben prima della cosiddetta domesticazione dei vegetali e degli animali, almeno da decine di millenni, anche un mezzo per fertilizzare il suolo, oltre che per ripulirlo e disboscarlo. Certo è anche che c’è chi danneggia il prossimo col fuoco, in Sardegna come dappertutto. Intanto però, di regola, i pastori e i contadini sanno quello che fanno (o perlomeno lo sapevano fino a ieri) e cercano (o quanto meno cercavano) di bruciare a ragion veduta quel che bisogna bruciare, incidenti a parte, che possono sempre darsi a maneggiare il fuoco. Ma con la seconda affermazione si presuppone, postulando e non dimostrando, che pastori e contadini siano tra l’altro anche più vendicativi, che so, di fabbri e vasai, che pure esercitano mestieri del fuoco. Più vendicativi forse no, ma più numerosi certo sì, si obbietta. Ma eccoci a un punto notevole. E il punto che in altre zone altrettanto colpite della Sardegna del flagello degl’incendi estivi, poniamo le coste provenzali e toscane, la Liguria e la Catalogna, per restare nel mediterraneo Nord-Occidentale, di pastori non ce n’é più, o quasi, mentre gl’incendi restano e l’orrore rinnovato li fa apparire sempre in crescita non meno che da noi. In Sicilia, dove la pastoralità è meno incidente che in Sardegna, l’incendio agroboschivo risulta, per lo meno dalle statistiche, più frequente e incisivo che in Sardegna, In Corsica ci sono caprai e pastori non meno che da noi, e la situazione degli incendi è grosso modo quella tipica di queste nostre latitudini, pastori o non pastori. La pastoralità dunque non spiega molto, così come non è la presenza di pastorizia brada che spiega l’abigeato: in Corsica abigeato non c’è né, in Sardegna invece sì, ma in ambedue le isole c’è pastorizia brada.

Bisognerebbe incominciare a dire francamente che questo voler rendere qualcuno, e in luoghi come la Sardegna soprattutto il pastore, e in campagnolo in genere, responsabile principale dell’infuriare dell’incendio estivo è non solo una colpevolizzazione indiscriminata, ma è anche fuorviante, tanto più perché ripetuta con grande insistenza e ormai da secoli diventata senso comune tenacissimo: l’incendio è prevalentemente doloso, si ripete ed è tipico delle aree pastorali. Siccome poi in Sardegna l’incendio agrario e boschivo è presente dappertutto anche dove non è rilevante la presenza di pastorizia brada, allora è sempre possibile trovare che dappertutto i pastori arrivano in transumanza: che però in Sardegna è invernale, mentre l’incendio è estivo. […]

Insomma, ripetiamolo: la Sardegna è terra d’incendi prima di tutto e principalmente perché le sue condizioni naturali sono quelle che sono, e secondariamente perché queste condizioni naturali hanno permesso e condizionato un certo tipo di loro sfruttamento agro-pastorale, sfruttamento che contempla anche il fuoco come tecnica produttiva, ma non è né provabile né sensato spiegare l’incendio estivo come dovuto a volontà (criminale) come sua causa principale. […]

Lo so di non scuotere ferree convinzioni secolari come queste sull’incendio doloso sardo, e più in generale mediterraneo. Però è probabile che prima ce ne liberiamo e prima impareremo a comprendere, a prevenire e a correre ai ripari in modo più efficace, invece d’andar sempre e quasi solo alla ricerca “dei piromani d’agguato”, come suona da tempo un ritornello delle nostre cronache; e di postulare magari un animus sardo agropastorale propenso al vandalismo incendiario.”

Se l’incendio non è doloso allora…

Se l’incendio non è doloso allora qualcosa cambia. Quando divampa un incendio le istituzioni e i media seguono un copione ben definito, che è quello della ricerca del colpevole (perché l’incendio è sempre doloso…), della conta dei danni, del sensazionalismo fatto si immagini dei danni o delle prodezze dei vigili del fuoco. L’emergenza assume quindi i tratti di uno spettacolo con trama, protagonisti, colpevoli e via dicendo.

L’assenza dell’elemento base, cioè di colui che appiccherebbe il fuoco probabilmente cambierebbe l’intero copione, perché le varie componenti istituzionali non dovrebbero più preoccuparsi della caccia all’uomo, ma bensì di rispondere delle proprie responsabilità per non aver portato a termine i compiti. Strisce tagliafuoco, pulizia del sottobosco, creazione di invasi, organizzazione dei volontari, pulizia del bordo strada e via dicendo, tutti aspetti considerati marginali e che fanno la differenza in bene o in male nell’appiccarsi, diffondersi e divampare degli incendi.

La ricerca di un colpevole è una strategia ben oliata che ritroviamo in una marea di altre situazioni, quindi non c’è nulla di cui stupirsi al riguardo (pensiamo a come è stata usata nella questione pandemia per spostare la responsabilità da chi aveva lasciato marcire la sanità pubblica a chi per vari motivi non si è vaccinato). Parlare apertamente di “inneschi a tempo messi in più zone” senza avere alcuna prova è un audace ed efficacissimo modo – ad esempio per un sindaco – per non dover parlare degli sfalci non fatti, o di altre inadempienze e per non far sembrare inadeguate o incapaci le forze antincendio, in generale per distogliere l’attenzione, e convogliare la rabbia verso ignoti.

Oltre agli ignoti le istituzioni non esitano a rifarsi sulla sorte avversa, che magari è causa del vento o del gran caldo (come se non esistessero le previsioni metereologiche) in modo da non dover parlare dei canadair arrivati con otto ore di ritardo, o della presenza di pochi elicotteri. In breve un incendio che distrugge migliaia di ettari, decine di migliaia di ulivi, migliaia di capi di bestiame e via dicendo ha un solo responsabile (l’incendiario) o è un colpo di vera sfortuna.

Ovviamente non è così, e l’articolo di Angioni lo spiega benissimo.

E’ assurdo che personaggi istituzionali di una regione del centro-sud mediterraneo parlino in termini di sfortuna per quanto riguarda gli incendi estivi, ed è forse ancora più assurdo che lo facciano passando nei paesi colpiti senza che nessuno gli tiri un secchio di cenere in testa.

Chissà che prima o poi non riescano a convincerci che anche le mareggiate sono provocate da qualcuno…

Mentono sapendo di mentire?

La risposta è indubbiamente si, ma infatti la domanda interessante non è questa, ma è: perché lo fanno?

Non ammettere le proprie responsabilità e scaricarle su un colpevole ignoto è una strategia che permette di evitare il crearsi di una possibile conflittualità sociale innescata dal malessere sociale che le calamità naturali portano con loro.

L’accordo tra istituzioni e media per battere il tamburo in quella direzione quindi non ci stupisce, ad esso viene aggiunto l’ulteriore calmante dei sussidi, che seppur lenti e insufficienti arrivano a coprire una parte dei danni. Vi è poi l’aspetto – che suona di beffa – della solidarietà dal basso, spontanea, assai diffusa in Sardegna che riesce a rimediare in molti dei posti dove le istituzioni non arrivano. Ovviamente non si vuole assolutamente metterla in discussione, anzi andrebbe rinforzata e alimentata con una severa critica e sfiducia verso chi è responsabile di tutto ciò.

Se qualcuno avesse dei dubbi nel merito di alcune responsabilità ecco alcuni dati che ci pare interessante condividere:

I canadair: lo Stato italiano “possiede” una flotta di 19 aerei, una delle più grandi al mondo. Le virgolette sono però d’obbligo perché i canadair sono privati e vengono affittati per ben 30.000 € all’ora, mentre gli elicotteri solo per 5.000. Le regioni – Sardegna compresa – si rifiutano di progettare la creazione di una flotta propria in quanto i canadair sono forniti e pagati dallo Stato. Questo però crea situazioni come quella di quest’estate in cui gli aerei sono arrivati con 9 ore di ritardo, dando al fuoco un tempo di propagazione che è stato pagato carissimo. In Corsica ad esempio i mezzi aerei antincendio sono già in cielo nelle giornate considerate a rischio (un po’ come l’allerta meteo rossa o arancione per le giornate di pioggia) in modo da poter intervenire celermente in caso di roghi. Negli ultimi anni sono stati spesi più di 5 milioni di euro per l’affitto degli aerei, e ancora nessuna regione ne possiede uno, ovviamente se si fa richiesta per avere dei soldi per altre attrezzature antincendio da dare ai volontari locali i tempi sono biblici e spesso le cifre irrisorie.

Da questi dati e queste scelte si evince che la cura viene preferita alla prevenzione, perché la cura fa girare denaro e apre nuovi scenari di investimento per i territori.

La questione dei gruppi di volontari dell’antincendio è un tasto dolente perché si tratta dell’evoluzione di uno storico ruolo di cui le intere comunità si facevano carico, e che avrebbe la potenzialità di essere la soluzione quasi definitiva al problema, se non fosse che anche le consuetudini storiche migliori devono essere adattate ai cambiamenti sociali realmente avvenuti.

In questo caso mi riferisco al fatto che il modo che veniva usato settant’anni fa per prevenire e combattere gli incendi oggi non sarebbe più attuabile: l’abbandono delle campagne e la perdita di conoscenze necessarie allo scopo sono ad esempio due fattori ineludibili in questo ragionamento, così come l’avanzamento tecnologico ed altri fattori che hanno nel bene e nel male cambiato la società, in questo aspetto come in mille altri.

Rimane però un’enorme generosità che parte dall’attaccamento al territorio e la cura di esso, che viene sfruttata e tenuta in pastoie per evitare che diventi una reale alternativa alla gestione accentrata dello Stato.

A queste persone viene relegato un ruolo apparentemente marginale ma in realtà fondamentale, che va a coprire molte delle carenze istituzionali, similmente a quanto accade per i volontari delle varie croci mediche. Molti di questi gruppi sono fra i pochi che puliscono il sottobosco e che conoscono a fondo i territori in cui intervengono. Rivendicare un maggior investimento statale su questo tipo di “istituzione locale” sarebbe utile in un senso, rischierebbe però di rafforzare l’accentramento, la logica della cura e non quella della prevenzione, aumentando inoltre la dipendenza dallo Stato, che sappiamo bene inseguirà sempre e solo il profitto. Allo stesso tempo avere i volontari dell’antincendio dotati di attrezzature più all’avanguardia salverebbe ogni anno centinaia di ettari di territorio. La soluzione dunque non è facile, però credo che la si possa trovare nella direzione dell’autogestione di questi gruppi e nella effettiva presa in carico da parte delle comunità, sia per quanto riguarda i volontari che per le attrezzature.

In chiusura, ma non perché l’argomento sia stato trattato a fondo, anzi, iniziare a parlare di incendi, alluvioni e altri disastri ambientali in un altro modo è una necessità che il cambiamento climatico ci sta imponendo sempre più velocemente.

Ricordo superficialmente notizie di prime pagine dei giornali di altre regioni che sempre più spesso aggiornano i record per la nevicata più intensa, o l’inverno meno nevoso, per la tromba d’aria più estesa, o il maggior numero di valanghe, i mm d’acqua scesi in un’ora e via dicendo.

Gli incendi seppur fanno parte della storia di questa terra stanno assumendo come altri fenomeni un ruolo sempre più incidente in logiche che non hanno nulla a che vedere con noi che qui ci viviamo. Da una parte un clima che cambia e ci coglie impreparati, terreni troppo aridi, caldi troppo intensi, dall’altra una speculazione energetica e turistica che non ci da il tempo di far ritornare quei territori ciò che erano prima del fuoco.

Spalando fango a Bitti e bonificando i boschi a Santu Lussurgiu ho sentito un attaccamento a questa terra che raramente ritrovo, al pari dell’odio di vedere a pochi metri da me carabinieri e militari con divise immacolate farsi foto e ripulirsi coscienze e ruoli. La Sardegna viene spremuta in ogni suo angolo e in ogni modo, anche con gli incendi che dopo il loro passaggio aprono autostrade a multinazionali che ci imporranno un nuovo modello di vita e sviluppo. Riprendiamoci la nostra terra, difendiamola prima, durante e dopo gli incendi e qualsiasi altra calamità, rendiamoci ostili a chi vede in qualsiasi situazione, tragica o no, una possibilità di profitto.

Sa Mariapica