Lo scoppio dello scontro russo-ucraino è un evento dalla portata mondiale, i cui effetti si sono ripercossi a diverse latitudini, soprattutto a livello economico-sociale, su cui già gravavano gli effetti della pandemia. Gli equilibri politici, mai veramente stabili, tra gli schieramenti NATO e Confederazione Russa sono di nuovo al centro di una guerra, adesso più vicina al cuore dell’Occidente e sempre più legata alla ristrutturazione e riproduzione capitalistica che a vere questioni di ideologia o sovranità nazionale. Lo scontro si gioca falsamente sul piano dittatore-democrazia, quando, in verità, la questione riguarda piuttosto il controllo imperialista del territorio ucraino, ricco di risorse come carbone, petrolio, gas e uranio (fondamentali per le società energivore occidentali) e di materie prime come acciaio e grano: anche in questa guerra ci sarà ancora chi ne guadagnerà e chi morirà sotto le loro bombe.

Lo Stato italiano a livello generale si è schierato con il resto dalla UE, varando un decreto legge per l’invio di armi sul fronte ucraino e proclamando l’ennesimo “stato d’emergenza”, strumento burocratico che impone la forza dello Stato come normalità. E dopo più di un decennio di morti in mare e propaganda razzista, l’emergenza passa da respingere i migranti ad accogliere i profughi ucraini, giusto per essere coerenti con le gerarchie occidentali.

Dalla nostra isola possiamo provare a fare delle considerazioni.

I. La questione militare

I giochi di geopolitica militare, la spartizione di territori e l’occupazione armata non sono nozioni nuove alla Sardegna, che si vede “ospitare” quattro grosse basi militari, oltre a vari poligoni minori e caserme, proprio per volontà dei patti NATO di avere basi di appoggio per un conflitto con l’URSS.

Ora, saranno cambiate le bandiere e le motivazioni partigiane, ma il nemico russo rimane e rimangono anche le basi. Dopo l’abbandono della base USAF del Limbara, gemella di Sigonella, le basi sarde attive non sono esplicitamente strategiche, ma più di addestramento o sperimentazione, fatta eccezione per la base di Decimo e per il deposito PolNato a Cagliari. Aerei e carburante in caso di scoppio di guerra, o anche solo a sostegno dello scontro, saranno sicuramente centrali.

Tuttavia, mentre non si può ben prevedere l’effettivo scoppio di una guerra mondiale, si possono notare ci si può accorgere di notevoli movimenti militari attorno alle basi in Sardegna: un incremento di voli da Decimo, costanti spostamenti di convogli lungo le arterie principali sarde e nuove sperimentazioni di razzi a Quirra.

Per noi è evidente come la guerra parta anche da qui, prende forma tra quelle reti che delimitano il territorio sardo occupato e da lì viene esportata verso la destinazione di turno, che ora è il fronte ucraino. Il miglior modo per portare solidarietà alle popolazioni colpite, così come per opporsi alla guerra stessa e agli schieramenti bellicosi, è continuare ancora di più a lottare contro la presenza militare e le basi. Se è vero che la guerra inizia qui, nelle basi, allora non possiamo che provare a fermarla.

II. La questione turistica

La monocultura vacanziera che la Sardegna costiera vive, con tutti i suoi effetti ambientali di consumo del suolo e le conseguenze sociali dello sfruttamento lavorativo che comporta, mostra palesemente altre sue contraddizioni. Già dai tempi del primo COVID-19 era stato dichiarato che “senza turismo, la Sardegna crolla“, e tra limitazioni agli spostamenti e la scarsa voglia/disponibilità al viaggio (tranne per i ricchi) la prima estate ha mostrato come questa economia non è che l’ennesima dipendenza che l’isola vive. Dipendenza dalla ricchezza esterna, dallo sfruttamento della nostra sabbia e del mare e dalle condizioni ideali per viaggiare. Una dipendenza imponente e determinante, visto che volentieri si sacrifica la salute della popolazione con l’annullamento delle misure restrittive esclusivamente per l’estate e a misura di turista.

Ora che alla pandemia si aggiunge la situazione di guerra in Europa, quante persone vorranno viaggiare? Quante in una terra vacanziera che ospita basi militare Nato? E poi, con i costi della vita in continuo rialzo, quanti si potranno permettere il lusso di una settimana di vacanza?

Forse i clienti di un Forte Village, o i frequentatori di Porto Rotondo, o magari anche i business-men a Palazzo Doglio a Cagliari, tutte strutture e luoghi in mano ai potentati di turno, in questo caso incidentalmente russi (adesso lo scandalo lo fanno loro, ma domani sarà qualcun altro). Le ultime notizie parlano di congelamenti di ville e licenziamenti di massa dai servizi di lusso che i 40 mila russi annuali in Gallura richiedevano. Quindi sicuramente le mosse di Putin e la compatta risposta mediatica alla guerra manderanno in fumo tutti i piani turistici “Sardegna parla russo” e lo studio di strutture e mezzi per aumentare il flusso da Mosca che sono spuntati negli ultimi sei mesi, e non riprenderanno da zero a guerra finita, giusto?

III. La questione energetica

Il cuore pulsante del conflitto in corso, probabilmente la questione centrale della nostra generazione. I rifornimenti di gas dalla Russia (che passano per l’Ucraina), da sempre base dell’economia europea, adesso che vengono a mancare fanno paura agli Stati europei: lo Stato Italiano, fortemente dipendente da Gazprom e affini, non ne subisce meno la mancanza. Infatti, il ministro Cingolani, (che, da ex pezzo grosso di Leonardo, di guerra se ne intende) dichiara che dovremmo fare dei sacrifici e che, per sostituire e rendersi indipendenti dal gas importato dalla Russia (circa il 40% del consumo nazionale), ci vorranno dai 24 ai 30 mesi, tra permessi e costruzioni. Anche se, per via dei lauti guadagni, sembra difficile che i russi chiuderanno i rubinetti delle forniture.

Intanto Di Maio e l’Eni, emblema degli investimenti di Stato, velocemente cercano le soluzioni migliori per nuove forniture che ingrassino i loro portafogli: della stessa compagine fa parte anche SNAM, che si sta sfregando le mani per le opportunità di profitto che questa crisi energetica offre in terra sarda.

Il loro progetto di gasdotto, obsoleto e vetusto, oltre che un palese passo indietro rispetto alla “transizione energetica”, visto l’impiego di energia fossile (giustificata come intermediaria tra carbone e green energy), è in questo momento coperto d’oro e fatto passare come praticamente necessario. Tanto si vede l’urgenza di gas e nuove forniture, qui che il gas non l’abbiamo mai avuto, che si rispolverano le carte di un progetto che sembrava caduto nel nulla: il GALSI, ovvero un metanodotto che collega Algeria, Sardegna e Italia, sfruttando l’isola sia come punto di approdo che di passaggio. Insomma, le opportunità di profitto non mancano e, come avvoltoi, investitori e pesci grossi dell’energia piombano su punti strategici come il nostro territorio.

All’opposizione si staglia Legambiente, ormai paladina del capitalismo verde. Insiste che bisogna fare di tutto per accelerare la costruzione degli impianti solari ed eolici (su terra e offshore), per perseguire gli obbiettivi di Parigi e Kyoto e slegarsi da queste forniture estere. La Sardegna risulta ancora tassello importante in questi piani, andando a costituirsi come hub energetico del Mediterraneo (leggere “colonia energetica”), vivendo assieme ai territori della stessa fascia sud di mondo (tra cui il Meridione d’Italia) un estrattivismo energetico tinto di verde.

Per Legambiente, senz’altro appoggiata da WWF e Greenpeace con cui ha qui un’alleanza, il Ministero dalla Cultura e i suoi vincoli paesaggistici si dovrebbero fare da parte e la Valutazione d’Impatto Ambientale dovrebbe essere ignorata, in quanto ostacoli burocratici alla transizione energetica. E con questi, anche i comitati del territorio che si battono per salvaguardare la terra dalla speculazione selvaggia e che ricercano modi compatibili di produzione energetica, perché fastidiosi e ignoranti. Una curiosa forma di ecologia da parte delle tre associazioni…

Intanto le bollette salgono e il costo della benzina raggiunge picchi inverosimili: quale transizione salverà le persone dalla fame? Quanto ancora non si metterà in discussione questo modello di sviluppo, centralizzato e sfruttatore? Che sia col gas o con i pannelli fotovoltaici, infatti, il sistema che tutta questa energia andrà ad alimentare e il modo in cui questa energia viene prodotta rimarrà lo stesso.: non ci sarà alcuna transizione reale del modello energetico, ma solo un ulteriore devastante sfruttamento del territorio.

Che fare allora?

Non ci resta che lottare per la nostra terra.

Per liberarla dalla gravosa occupazione delle basi e per bloccare questa guerra e quelle future: torniamo a interrompere le esercitazioni, tagliare le reti o a trovare nuovi modi di opporci alla presenza dell’Esercito e della Nato. Il corteo dell’8 marzo e i presidi a Decimo siano solo l’inizio.

Per non dover vivere in mezzo alle macerie di cemento sulle coste, una volta che il turismo ha estratto tutto quello che poteva prendere: opponiamoci ai nuovi progetti alberghieri, allo sfruttamento delle risorse e organizziamoci per vivere le nostre città e i nostri paesi come vogliamo noi, non come vorrebbe il gusto dell’estate.

Per fermare l’ennesima occasione di profitto fatta sulla testa degli abitanti dell’isola e la prossima devastazione ambientale fatta in nome dell’ecologia: troviamoci di nuovo sotto pale eoliche esistenti o ai cantieri futuri, discutiamo insieme del come e dove produrre energia e per cosa usarla, scegliendo per noi stessi e le nostre comunità la strada da prendere. Rispolveriamo e collettivizziamo le diverse capacità e indirizziamole a costruire un’alternativa che ci sleghi dalla produzione industriale di energia e miri alla nostra autonomia.

Per vivere una Sardegna libera da imposizioni e sfruttamento coloniale, ostile a chi la vuole saccheggiare e occupare, lottiamo contro i signori della guerra, della vacanza e dell’energia, progettiamo e organizziamo la vita che vorremmo.

A fora sa Nato

Kontra sa gherra de is meris e de sa energia, torraus a una Sardinnia aresti