Quando si parla di militari e eserciti in Sardegna, spesso si sente usare il termine occupazione militare, e capita di vedere delle facce fare una smorfia strana, specie se forestiere.

Indubbiamente il termine in questione è un termine forte, che evoca territori spesso lontani da noi, il medio oriente ora, l’oriente qualche decennio fa, ma anche zone dove si consumano conflitti violenti ed efferati, pensiamo a Ceuta o a Belfast solo per citarne due tutto sommato non lontani da noi.

Qualcuno obietterebbe che proprio azzardando questi paragoni ci si dia la zappa sui piedi, ammettendo un’oggettiva differenza, ma ne siamo sicuri?

Se esistesse un’unità di misura per quantificare l’occupazione militare subita dai territori quale sarebbe? Ovviamente tante. La durata, l’estensione, la violenza, il numero dei morti, la forza dell’imposizione, la repressione delle cicliche recrudescenze che vi si oppongono.

Ebbene mi sembra che tralasciando la provocazione dell’unità di misura, possiamo ragionare in termini di indicatori, cioè quali di questi aspetti insistono sui territori, e nella fattispecie in Sardegna.

Senza trasformare questa piccola riflessione in un tedioso elenco di sfighe, si può dire che per quanto riguarda la durata siamo ben oltre i 70 anni di un’occupazione militare (in senso stretto degli eserciti) così come la conosciamo e subiamo ora (tralasciamo quindi quella storica delle varie dominazioni ovviamente). 70 anni sono un tempo che anche a livello storico sta battendo di decennio in decennio numerosi record.

Per quanto riguarda l’estensione la Sardegna “ospita” il 60% del demanio militare dello Stato italiano pur avendo una popolazione pari al 2%.

La violenza, se anche non è stata quella guerreggiata del Vietnam o quella di una chiara contrapposizione come quella algerina, porta con se decine di morti di quel conflitto asimmetrico che da sempre si combatte in Sardegna, che va di pari passo con la forza della violenza dell’imposizione di questa condizione, basti pensare all’operazione Forza Paris, all’esproprio forzato per la creazione di tutti i poligoni, alla capillare e oppressiva presenza sproporzionata di divise sul territorio, dai cacciatori di Sardegna ai carabinieri.

Vi è poi la “violenza nascosta”, consumata lentamente giorno dopo giorno dentro i nostri corpi o nei letti degli ospedali, delle patologie mortali e non, causate dall’attività addestrativa militare. Non sapremo mai quante sarde e sardi sono morti a causa di ciò. Quelli che conosciamo sono già troppi, da unire alle malformazioni, agli aborti e ad altre patologie “minori”.

Nella storia più o meno recente a confermare il carattere di un’occupazione imposta e mal sopportata, c’è la storia della resistenza ad essa e della conseguente repressione subita da chi si è organizzato per provare ad essere efficace.

La parte finale di questo ragionamento va dedicato ad alcuni aspetti che ormai quasi non notiamo più, che tolleriamo come la sabbia negli occhi di una giornata ventosa.

Il lento e fumoso scorrere nelle nostre strade di lunghi convogli militari, che con i loro vecchi motori diesel (gli unici euro 0 che possono ancora circolare legalmente in tutto lo stato!) si riconoscono da lontano, la presenza nei porti di navi e sottomarini al posto di pescherecci o barche a vela, la costante presenza dei militari nei bar, nelle scuole, nei paesi, specialmente quelli vicino alle basi, e qui da noi sono veramente tanti.

Il dover sopportare le divise mimetiche nelle attività civili, feste paesane o luoghi di ritrovo dove ostentano un’arroganza, forti dell’intoccabilità che le leggi gli riconoscono, che prima o poi gli restituiremo nei denti.

In certi paesi non mancano neanche i boati delle esercitazioni a scandire le giornate e le stagioni.

Infine il fenomeno più difficile da contrastare e da accettare è come 70 anni abbondanti di occupazione militare abbia imposto una prevedibile diffusione del militarismo nella società sarda, intendiamo le migliaia di persone che in qualche forma sono ormai legate ai militari, da mogli&mariti, a figlie&figli, per arrivare a tutti i dipendenti della RWM, della Vitrociset, chi lavora per l’indotto, chi spera di lavorarci, chi prende i sussidi, chi è rimasto affascinato dalle favolette raccontate e altri ancora.

Tutto questo forse non sarà quello che hanno subito alcune popolazioni, come ad esempio quella afghana, però per noi rimane un’occupazione militare, imposta e violenta, contro cui varrà sempre la pena lottare e rischiare un pezzetto della propria libertà per questo.

Per liberare la nostra terra, per non essere complici silenziosi dei massacri in mezzo mondo.