Per intraprendere questo percorso di considerazioni sulla pandemia, e tentare in qualche modo di leggere quelle che sono le conseguenze nel tessuto sociale sardo, partiremo da alcune riflessioni di base che chiariscono le nostre convinzioni e ci indirizzano nel ragionamento.

Siamo fermamente convinti che il Covid-19, con le sue caratteristiche e particolarità, sia stata una sorpresa per tutti.

Alle strampalate tesi di una regia occulta che abbia immesso il virus per eliminare parte degli esseri umani, preferiamo quelle più materialistiche che individuano nel modo di produzione capitalistico – nello sfruttamento intensivo di umani, animali e ambiente – le cause di questo fenomeno. In questo senso la pandemia può essere descritta come un qualcosa di prevedibile ma probabilmente non c’è scienza capace di pronosticare con certezza un evento simile.

Qui dae su mari abbiamo visto e vissuto alcuni passaggi di questa vicenda secondo un rituale dal retrogusto conosciuto, quello coloniale. Nonostante i politici si siano prodigati a mitigare e nascondere il più possibile questo aspetto, a distanza di tempo le verità sono venute a galla. Ci riferiamo ad esempio alle celeri riaperture estive pensate più per gli spostamenti dei turisti che per quelli dei sardi, così come il vergognoso balletto di autocertificazioni, tamponi e permessi voluto da Solinas per entrare e uscire dall’isola, cancellato appena le lobby del turismo hanno fatto pressioni. Senza voler entrare ora nel profondo di questi aspetti ci teniamo a dire che le logiche che la Sardegna subisce si sono sapute adattare alla fase pandemica, profondendo il massimo sforzo per non mettere in discussione l’estrazione di valore dalle risorse locali, siano esse la Saras o il turismo.

Se crediamo che anche lo Stato – inteso nella somma dei suoi tecnici e organi decisionali – si sia trovato in un primo momento spiazzato, a distanza di un anno e mezzo possiamo provare a tirare le prime somme rispetto alle misure adottate.

Inizialmente la chiusura fu imposta con la speranza e la promessa che si sarebbe trattato di un’esperienza breve: la riapertura attesa di due settimane in due settimane, fu rimandata fino a un totale che probabilmente nessuno immaginava neanche nei peggiori incubi.

Il lockdown è stato vissuto da una grossa fetta di popolazione come un gigantesco standby, scandito dalle conferenze stampa, i numeri dei morti e il susseguirsi delle statistiche di diffusione del virus nel mondo.

Ad oggi si può dire, con una certa amarezza, che le misure adottate sono riuscite a velocizzare notevolmente alcune tendenze piuttosto intuibili della nostra società: la più evidente ci sembra la digitalizzazione delle vite (DAD e smart working su tutte, ma anche il diffondersi in modo enorme di telefonate, chat, videochiamate tra parenti e amici).

Nonostante le logiche economiche e sociali scatenate dal diffondersi della pandemia abbiano avuto un evidente taglio classista, lo Stato ha abilmente arginato qualsiasi possibile vagito di scontro: il malcontento si è riversato nei social ed è stato dimenticato dopo due giorni dalla riapertura.

In Sardegna non c’è stato un solo momento di tensione collettiva nei confronti delle misure di contenimento del virus, nonostante la condizione di insularità abbia costretto moltissime persone a vivere in modo ancora più pesante tutto il periodo primaverile.

Fortunatamente per tutta la prima fase della pandemia i casi di contagio sull’isola non hanno mai raggiunto numeri alti, perché altrimenti la sanità già al collasso per altre questioni sarebbe probabilmente tracollata. A questo va aggiunta la vergognosa gestione istituzionale che ha visto in Solinas e Nieddu i due principali attori, capaci solo di far danni e scelte sbagliate o tardive.

La gestione così efficace dal punto di vista della difesa della pacificazione sociale è stata possibile attraverso la notevole intuizione delle istituzioni di porre al centro di tutto il conflitto scientifico.

Se il nemico è il virus non possiamo che fidarci del parere degli esperti. Questa lettura è riuscita a deresponsabilizzare le istituzioni, che anzi hanno rincarato la dose con slogan come “la guerra al virus”, privi di senso logico ma evidentemente efficaci…

In questo modo, elevando la Scienza di Stato a dogma indiscutibile, il governo Conte ha cercato di appianare le differenze e di far stare tutti sulla stessa barca, tutti uniti contro il nemico comune, con il più che rassicurante: andrà tutto bene.

Indubbiamente la pressione mediatica incentrata sul terrore e la continua riproposizione dei dati hanno inciso tanto in questa dinamica: per dirla in poche parole, quando al telegiornale non si parla d’altro che di morti e i cortei funebri vengono riproposti in continuazione non è facile porre dei dubbi. Più che mai in questa fase si è vista la potenza del connubio tra politica e informazione, le voci che ponevano dubbi venivano zittite o ridicolizzate.

Al contempo fare leva sul sentimento d’unità nazionale e proporre un capro espiatorio – l’incosciente che prima usciva di casa e che ora è quello che non si vaccina – ha contribuito ad insaporire il brodo della sottomissione.

In questo modo inoltre lo Stato ci ha guadagnato su due versanti: da un parte ha amplificato la fiducia di cui già godeva, dall’altra ne ha approfittato, facendo leva sulla retorica della guerra contro il virus, per legittimare ancora di più i militari nella società, da quelli col mitra nelle piazze a Figliuolo che dirige la campagna vaccinale.

All’interno degli apparati statali c’era e c’è tutt’ora piena consapevolezza di quelle che sono le condizioni in cui versa il settore della sanità: spostare la rabbia sugli irresponsabili e far leva su un presunto sentimento nazionale è stato un modo efficace per distogliere lo sguardo da chi responsabilità ne aveva eccome.

Nonostante molti sguardi siano stati spostati altrove, in Sardegna la sanità ha mostrato tutti i suoi limiti, e migliaia di persone li hanno visti e subiti sulla loro pelle. Visite spostate di mesi, reparti sovraccarichi, carenze di dotazioni sanitarie di sicurezza, sono state riscontrate ovunque, molto spesso nascoste anche se non sempre è stato possibile. Il caso più emblematico lo abbiamo vissuto all’ospedale di Sassari dove alcuni reparti si sono trasformati in veri e propri focolai.

La retorica di una sanità pubblica al collasso è improvvisamente diventata realtà, la subalternità infrastrutturale da sempre negata da ampi componenti dell’arco istituzionale si è palesata in modo inequivocabile, ma non sapevamo ancora cosa ci sarebbe aspettato.

I primi di maggio alla riapertura la voglia di libertà unita al profumo dell’estate in arrivo ha distratto tutti o quasi. L’appuntamento con i problemi era solo rimandato a qualche mese dopo.

due penne di maistrali