Pubblichiamo un articolo di Costantino Cavalleri, che noi abbiamo ritrovato nel numero 41 della rivista Nunatak. Ci sembra un contributo interessante a qualche giorno di distanza dal terribile incendio che ha devastato il Montiferru, mentre continua la conta dei danni.
Il testo offre vari spunti per inquadrare e collegare il fenomeno incendi alla situazione particolare sarda: la condizione coloniale, lo sfruttamento turistico, la politica di legalizzazione dei pascoli e l’estrattivismo che sveste le comunità dei loro saperi secolari.

Perché brucia la Sardegna?

Come ogni anno, anche l’estate scorsa è stata per la Sardegna una stagione in cui gli incendi hanno abbondato, per fortuna senza fare vittime umane come invece è accaduto non raramente nel passato. I media, al solito, riportano le notizie soltanto quando queste sono appetibili per i consumatori, in modo particolare se gli incendi lambiscono o si sviluppano in zone frequentate dai turisti e si sa che nell’isola, nei mesi di luglio ed agosto, questi abbondano.

Che poi, per il territorio, gli incendi che inceneriscono le zone maggiormente frequentate dai consumatori di spiagge e sole siano i meno dannosi, poco importa. E sono meno dannosi relativamente, perché di solito si sviluppano in aree a bassa vegetazione, per lo più ricoperte di arbusti, che si ricostituiranno nel giro di pochi anni, al contrario di boschi e foreste che invece richiedono dei secoli per rifarsi.

D’altra parte gli incendi nelle zone invase dal turismo di massa, concentrato nei due mesi estivi, son fenomeno recente, degli ultimi decenni, a significare che se il turismo non ci fosse gli incendi scomparirebbero, o quasi, da quelle aree. Accade solo sporadicamente, peraltro en passant, che chi si occupa di studiare il fenomeno degli incendi nell’isola la colleghi, almeno per la parte che concerne le zone costiere più frequentate dal turismo di massa, alla massiccia presenza di persone, in gran parte inconsapevoli del clima isolano, della fragilità del territorio in una regione ove l’”estate” dura, per il più delle annate, da aprile sono ad ottobre. Sei mesi di calura che rendono particolarmente combustibili erbacce e vegetali in genere. E se per caso nei mesi più caldi, che coincidono con l’invasione delle coste sarde da parte di circa 7 milioni di cristiani, si verificano gli acquazzoni estivi, la sterpaglia è ancora più sensibile alla combustione. Non è pertanto necessario accendere fuochi per far scoppiare incendi devastatori: basta una cicca di sigaretta ancora accesa buttata dal finestrino mentre si è in auto, o durante una passeggiata o un’escursione, o anche l’abbandono del sacco dell’immondizia lungo le strade o in piena macchia mediterranea, contenente sostanze soggette a fermentazione e quindi all’autocombustione per innescare incendi di gigantesche dimensioni.

Ma vi è dell’altro, per quanto concerne la relazione incendi-turismo, che viene taciuto, considerato il dogma indiscutibile secondo cui la Sardegna sarebbe “a vocazione turistica”. E quest’altro consiste nella speculazione che ruota attorno alle zone costiere isolane. Ciò moltiplica per mille le cause degli incendi in tali aree per due ordini di ragioni. Da un canto, le zone incenerite sono sottoposte a rigidi vincoli e divieti agropastorali, d’altro canto valorizzano le aree ad espansione turistica alternative a quelle incenerite! Detto in altre parole, se Olbia brucia, le zone più a nord, o più a sud, sono privilegiate da ogni punto di vista, sia nell’immediato, sia in prospettiva. Nell’immediato perché gli incendi portano all’evacuazione dei turisti, che si recheranno nelle altre zone, in prospettiva perché gli speculatori di ogni sorta avranno maggior possibilità di “derogare” dai limiti previsti dalle vigenti leggi sulle aree colpite dagli incendi.

Vi è possibilità di uscire da questo circolo vizioso date le attuali condizioni e situazioni, oltre che “culturali”, sociali, politiche ed economiche? No! A meno che non si metta in discussione l’intero esistente, perché la soluzione consiste nel ribaltamento di tali condizioni.

Tuttavia il problema degli incendi in Sardegna ha radici lontane che esulano in certo qual modo dalla assai recente problematica legata all’industria turistica costiera. Non è un caso se si additano gli allevatori come i maggiori responsabili degli incendi che divampano “all’interno” dell’isola, e per “interno” s’intende la gran parte dei centri abitati isolani (377 comuni), anche se demograficamente ospitano una parte minima della popolazione totale residente (1.600.000 individui). Non è affatto inutile uno sguardo alla distribuzione della popolazione dell’isola.

Sul totale dei residenti, ben il 45% son concentrati in quelle che possiamo definire 15 città, dislocate per la gran parte nelle coste, il capoluogo (Cagliari) in particolare. Se si tiene nel dovuto conto che di questi 15 centri solo 7 superano i 30 mila abitanti, abbiamo una prima idea della distribuzione della popolazione nell’isola. Completano il quadro demografico i seguenti dati: solo 84 comuni superano i 4 mila abitanti e soltanto 22 superano i 3 mila. Così che vi sono ben 271 comuni in cui abitanti consistono in poche decine di residenti, fino ad un massimo di 3000. E sono questi 271 poco più che villaggi ad essere dislocati, e rappresentare l’interno della Sardegna (la cui superficie è di poco superiore ai 24 mila kmq).

Rispetto alla geografia fisica, nell’isola predomina si può dire l’altopiano roccioso più che la montagna, ed essendo terra antichissima (risalente a circa 300 milioni di anni) fino a qualche millennio fa era ricoperta di foreste, boschi e altra media vegetazione, tanto che solo con la colonizzazione romana ha inizio la deforestazione sistematica delle pianure per adibirle ad uno dei suoi granai. E, bisogna pur dirlo, con la vera e propria colonizzazione (anche se parziale) dell’isola da parte dei figli della lupa, gli incendi diventano un grosso problema per la flora isolana. Problema che si tramanda nei secoli, amplificato dalle varie genie di colonizzatori che si alternano nel dominio dell’isola.

I romani incendiano la flora delle pianure per fini agricoli, ma il fuoco lo utilizzano altresì per stanare, o ricacciare nei territori montuosi i “barbari abitanti” che non si lasciano sottomettere. D’altro canto i sardi “mastrucati”, come definiva gli isolani il civilissimo Cicerone, impediti nell’utilizzo dei territori pianeggianti in cui dominavano i figli della lupa, dovettero a loro volta deforestare a mezzo degli incendi i diversamente inospitali boschi, per garantire il pascolo libero alle loro greggi e praticare quel minimo di agricoltura possibile nelle zone montagnose dell’interno.

La pratica dell’incendio di boschi e foreste col fine di cacciare le popolazioni ostili al dominio, o di costringerle alla resa distruggendo il loro habitat, venne eredita dai bizantini e successivamente dagli spagnoli. Tra i primi ed i secondi si articolò la nascita e lo sviluppo dei Giudicati, veri e propri embrioni dello Stato moderno, che se da un canto punivano gli incendiari con squartamenti e tante altre delizie della civiltà, dall’altra erano incapaci di comprendere e quindi accudire alla necessità per le popolazioni pastorali di rendere sgombro dei rovi e altri arbusti spinosi il sottobosco e la macchia per il bestiame brado. Ma sono i Savoia che, ottenendo la Sardegna come reame, grazie alla prostituzione esercita dalla famiglia nelle corti di tutta l’Europa, fanno dell’incenerimento “industriale” dei boschi e delle foreste, vera e propria attività capitalistica: dagli incendi della flora infatti si ricavava ottima cenere che, oltre per la lisciva, era componente necessaria della produzione del nitrato di potassio, utile per la polvere da sparo e ottimo fertilizzante in agricoltura.

Non paghi della produzione di ceneri per tali usi, una volta allargato il proprio regno a tutte le regioni dell’attuale Italia, diedero in concessione amichevole ai propri amici e complici, il taglio degli alberi di alto fusto da utilizzare per la costruzione delle navi. Quando poi decisero di costruire anche in Sardegna (non dimentichiamolo, l’origine del loro regno) le ferrovie, il loro costo non avvenne a carico delle casse statali bensì, in gran parte, a carico della già ridotte in schiavitù comunità locali, che si videro espropriate pure di quelle poche centinaia di ettari di terre comunitarie tra cui tante boschive, che riuscirono a strappare alla privatizzazione prevista dalle varie leggi dette delle “chiudende” (a partire dal 1820) che imposero nell’isola la “perfetta proprietà privata”. La flora sarda divenne inoltre materia prima per le traversine necessarie alla linea ferroviaria, e per la produzione di ottimo carbone vegetale, così che nella seconda metà dell’Ottocento, furono i “carbonai” toscani a ridurre ancor più l’estensione dei boschi e delle foreste in Sardegna, ancora una volta riducendoli in…frutto del capitalismo avanzante delle varie clientele dei politici savoiardi.

Nonostante ciò, l’isola ha in certo qual modo resistito alla distruzione del fuoco. Gli allevatori di bestiame, in generale, hanno sviluppato conoscenze e pratiche del bosco, e della vegetazione in generale, affinate nel corso dei secoli e atte a preservare un certo equilibrio fra le necessità di pascoli liberi per il bestiame brado, e la conservazione del bosco, fonte di alimentazione per gli stessi armenti (basta pensare alle ghiande) e per le comunità umane (noci, castagne e così via). Vi sono di certo molti fattori di rischio nell’appiccare il fuoco per liberare il terreno da pascolo dai rovi e altra vegetazione: il clima durante la specifica annata, il vento, la particolarità del terreno, ecc., eppure la pratica dell’incendio per motivazioni dovuta ai pascoli è dovuta morire. Perché?

Parte consistente della risposta a tale domanda è insita nella conformazione geografica, nella storia e nella attuale distribuzione demografica degli abitanti. La parte restante è dovuta alla politica passata e recente imposta a mezzo delle leggi statali e regionali che “regolamentano” forestazione, deforestazione e cosiddetta “lotta agli incendi”. Le condizioni coloniali cui è stata costretta l’isola nel corso dei secoli si possono riassumere, per quanto concerne l’aspetto economico, nella rapina delle risorse (minerali, derrate alimentari, schiavitù salariale, immiserimento delle popolazioni a causa di esosi tributi, e così via) e l’esportazione dei profitti, investiti altrove, in funzione del rafforzamento delle diverse centrali capitalistiche operanti in Italia e altri siti. In tal maniera i settori dell’economia isolana che han potuto avere per così dire un certo sviluppo autonomo sono ben pochi: l’allevamento prima di tutto (ove la fa da padrone il settore ovino, quindi bovino – quello suinicolo è stato in pratica distrutto completamente dalla politica economica congiunta con quella “sanitaria”, negli ultimi decenni), quindi l’agricoltura (con grossi limiti dovuti alla dipendenza di questo settore imposta dalle politiche comunitarie nel corso degli anni). La politica degli incentivi e disincentivi in agricoltura ha determinato in un primo momento l‘imposizione della monocoltura (cereale e barbabietola, un tempo), quindi la crisi generale a causa vuoi dell’immissione nel mercato di tali derrate dei prodotti provenienti da altri continenti, vuoi per la scomparsa delle sementi autoctone o radicatesi in Sardegna nel corso dei secoli. Medesima cosa sta accadendo nel settore vitivinicolo che, salvo qualche rara eccezione, appare “prospero” grazie a vitigni importati. In generale, da una situazione di autosufficienza si è passati, nella bilancia commerciale agro-alimentare, ad un segno negativo annuale di immani proporzioni. Il crollo dell’agricoltura ha comportato l’esclusione dal settore degli addetti in eccedenza, che d’altra parte non possono trovare lavoro in altri settori. Da qui il progressivo spopolamento dei paesi fino a qualche decennio fa produttori di derrate alimentari, anche di quei centri siti di zone collinari o addirittura ai margini delle pianure. L’emigrazione in massa attraversando il Tirreno è, ancora oggi, ciò che appare come soluzione per i disoccupati.

Nelle zone “montuose” si è verificato un fenomeno simile, col risultato identico: lo spopolamento progressivo e inarrestabile di paesi un tempo non certo floridi ma in cui era possibile vivere. Qui, però, all’abbandono di quel minimo di agricoltura che pure era praticata fino a qualche decennio addietro, e che riduceva l’importazione delle derrate, è seguito il progressivo aumento dei pascoli, fino quasi alla monopolizzazione del territorio disponibile da parte degli allevatori.

Ora, nelle pianure, a parte il periodo che precede immediatamente le messi dei cereali, quando gli incendi possono distruggere il prodotto dei campi, il fuoco non rappresenta un pericolo così grande come nelle zone montane, ove macchia, boschi e foreste rischiano l’incenerimento. Inoltre, se è prassi costante, a fine estate, bruciare le stoppie nelle zone adibite a coltivazione, al fine di distruggere i semi delle erbacce, vi sono pratiche acquisite che, se eseguite con attenzione, impediscono il divampare incontrollato del fuoco. In tutti i casi, è ovvio che i danni, se pure il fuoco si espande incontrollato, sono più limitati di quelli che si verificano nelle zone boschive.

Nei paesi “dell’interno”, per lo più sparsi in quella che per semplicità chiamiamo montagnosa, e in certo qual modo boschiva, ove domina l’allevamento del bestiame, si cerca un equilibrio tra le necessità di pascoli per il bestiame brado, e la vegetazione sia questa boschiva, sia costituita dalla cosiddetta macchia mediterranea (arbusti per lo più). La scomparsa generalizzata dell’agricoltura, che in certo qual modo concorreva a limitare l’espandersi della flora costituente ostacoli al pascolo brado (rovi, arbusti spinosi quali la “ginestra selvatica” – sa tirìa in sardo – e così via), ha fatto automaticamente ricadere soltanto sugli allevatori il lavoro di salvaguardia degli spazi per il bestiame. La stessa composizione demografica della gran parte anziani e pochi giovani (essendo i restanti andati altrove), ha diminuito enormemente gli individui che, in caso di incendio nel territorio comunale, accorrono per circoscriverlo e spegnerlo.

A parte questo, per paradossale che possa sembrare, i motivi di incendio in queste aree, lungi dall’essere diminuiti per la scomparsa o diminuzione di attriti tra pastori e agricoltori a casa della scomparsa di questi ultimi, si sono moltiplicati. In primo luogo perché la campagna è frequentata quotidianamente ormai solo da allevatori (non avendo gli altri abitanti che scarso interesse per frequentarla e “coltivarla”), in secondo luogo perché, con l’istituzione del Corpo Forestale Regionale, gli stessi allevatori sono stati espropriati del diretto controllo e della gestione diretta del territorio. È tale Corpo che decide chi, come, quando e che cosa pulire, tagliare, impiantare, così che la conoscenza, i saperi di quanti foreste e boschi e territorio in generale hanno “abitato” e “abitano” tutt’oggi vengono forzatamente abbandonati o costretti alla “illegalità”. Inoltre, essendo il servizio antincendio parte delle competenze del Corpo Forestale, e concentrandosi tale servizio nei mesi “estivi” (in particolare da maggio-giugno fino alla fine di settembre, di norma), vengono assunti degli addetti temporanei per operare in questi soli mesi. Spesso, molteplici famiglie possono evitare l’emigrazione forzata contando sul reddito proveniente dall’assunzione temporale presso il servizio antincendi, ma essendo questo soggetto alla variazioni politiche, e finanziarie, della sarda regione, è conseguente che fondi e assunti varino a seconda delle clientele dei politici di turno. Pertanto l’essere o non essere assunti per tale servizio, spesso determina la quantità degli incendi che vengono appositamente appiccati in tali zone (più gli incendi si moltiplicano, più sono gli assunti nel servizio).

Infine, vi è da tenere nella giusta considerazione il fatto che, soprattutto oggi, gli stessi allevatori, forti in certo qual modo della clientela politica che in massa rappresentano, delegano “ad altri”, cioè il Corpo Forestale, che non lo fa, la pulizia del sottobosco, cosa che potrebbero benissimo effettuare essi stessi con la cooperazione, invece che restare isolati l’uno dagli altri, dato che possiedono mezzi e attrezzi adeguati a tal fine (trattori e accessori di ogni tipo, che permetterebbero il continuo controllo di rovi e quant’altro tende, in ogni stagione, a fungere da impedimento al pascolo del bestiame brado). Ma vi è pure un altro metodo per ottenere simile risultato: l’allevamento delle capre che, con un minimo di lavoro in più accrescerebbero le entrate e, allo stesso tempo, alimentandosi a loro volta, terrebbero sotto controllo rovi e arbusti spinosi; ciò è certamente possibile se non ovunque, dato che la particolare presenza di certa flora verrebbe distrutta dalla capre, almeno in determinate situazioni.

Sarebbe così risolto il problema degli incendi nelle zone interne? No, di sicuro.

La soluzione, per essere definitiva, o approssimarsi alla definizione, consiste nel rimuovere tutte le cause, di ogni natura, che stanno all’origine del problema. Il che implica una nuova “cultura”, un nuovo approccio non tanto a quel vago e virtuale “mondo naturale” (che onestamente non so cosa sia), ma contrapposti – rispetto ad oggi – rapporti sociali e con l’ambiente in cui viviamo. Tutto il resto son rattoppi che spesso amplificano il problema, rendendo il rimedio peggiore del male.