La testimonianza di un prigioniero

Sono stati mesi di apertura mentale, di conoscenza sia di un tipo di criminalità, ma in particolar modo di conoscenza dei servi dello stato.
In tutti questi anni di carcere il mio pensiero principale è stato quello di denunciare (è un brutto termine lo so!) le merdate, le vigliaccate, o chi più ne ha più ne metta, di questi esseri inutili in divisa… Ma non solo in divisa, perché le schifezze le fanno tutte e tutti che si sentono partecipi di questa società verticale: il carcere. Mi limiterò a parlare del carcere circondariale Ettore Scalas di Uta, come invito chiunque abbia soggiornato nelle prigioni sarde a raccontare con dovizia di particolari tutto ciò che fuori nessuno ha mai conosciuto.

Parto dalla vicenda di Doddore Meloni di Terralba, ucciso nel carcere di Uta, durante uno sciopero della fame lungo più di sessanta giorni, ebbene la vita di Doddore si è giocata tra il menefreghismo dell’area sanitaria, con la consapevole complicità dell’area securitaria (secondini), il beneplacito dell’area educativa/psicologica, ed il sigillo della direzione. Quando si è deciso di aprire un’indagine giudiziaria sull’anomala (il termine è mio) morte di Doddore, tutte quelle componenti fecero quadrato sulla morte di Doddore, scompigliarono le carte giocando sporco sul resoconto della sua morte, inizialmente nell’elenco dei testimoni c’erano anche i due prigionieri che lo assistevano nel suo calvario, successivamente i due prigionieri spariscono dall’elenco dei testimoni, con il connubio del PM di turno, perché forse avrebbero raccontato sulle negligenze e complicità che avrebbero portato alla sua morte, oppure avrebbero raccontato sulla “preoccupazione” dei medici se Doddore mangiava di nascosto, e questo anche negli ultimi giorni della sua esistenza.

Un’altra morte anomala è stata quella di Mamadou Sow (spero che si scriva così), un prigioniero senegalese al termine della sua carcerazione, pronto a riassaporare quella libertà perduta tempo addietro. Purtroppo in questo lasso di tempo ebbe uno scontro verbale con alcuni secondini, da ciò venne poi un suo pestaggio lo stesso giorno sempre ad opera dei secondini… Di quei momenti si ricordano le ben famose parole urlate sovente dentro la cella: “fuori ci sono le telecamere”.
La sera Mamadou è morto impiccato, gli mancavano poco meno di tre mesi per uscire.

Meritano vendetta altri suicidi per la negligenza ed il menefreghismo di tutte le componenti (direttiva, securitaria, sanitaria, educativa, psicologica) del carcere. Ricordo ben bene il dramma di un prigioniero bielorusso, che sin da quando arrivò da un carcere della Puglia, diede vita ad azioni che denotavano un disagio mentale molto importante, cercato di attenuare con una cascata di psicofarmaci ed intingoli vari, finché un giorno tentò di impiccarsi alla grata della finestra del cucinino.
In quella occasione fu salvato dal provvidenziale intervento dei suoi compagni di cella, subito dopo sparì e finì in CDT (Centro Detenzione Temporanea) e quando ritornò in sezione, sempre nella stessa cella, era un automa… E ricordo anche il commento di un secondino che disse: “Con quello che gli hanno fatto giù, è sicuro che non ci riprova con il suicidio”.
Fatali parole… Il giorno dopo Aleksandr riprovò ad impiccarsi e stavolta i suoi compagni si accorsero del suo gesto con notevole ritardo, fu un accanimento terapeutico il tentativo di far ripartire il suo cuore, certo non fu fatto per salvargli la vita, visto che il cervello per lunghi interminabili minuti non ebbe nessun tipo di ossigenazione, ma per il preciso motivo di
evitare che dal carcere uscisse un cadavere.

Infatti svariate volte ho assistito, o mi è stato raccontato, di suicidi “riusciti” che miracolosamente vengono sventati grazie all’utilizzo del defibrillatore, salvo che tra l’arrivo del personale sanitario e l’utilizzo del macchinario, il cuore degli sventurati era fermo da almeno una dozzina di minuti, con tutto quello che ne viene per la salute/vita del cervello.
Di fatto questo accanimento sanitario non era/è dovuto alla necessità/volontà di salvare una vita, ma è dovuto al malevolo bisogno di fare in modo che chi esce dal carcere ne esca da “vivo”, cioè nessuno deve morire suicida nel carcere Ettore Scalas, poi se esce da vegetale cavoli suoi.
In questo “manicomio” una cosa che risalta è il silenzio assordante di tutti gli elementi che compongono l’area educativa su tutte queste “brillanti” situazioni che viviamo, di fatto tutti questi elementi sono soltanto degli scherani del direttore, e/o per viltà o per menefreghismo innanzitutto non sputano nel piatto dove mangiano, pertanto si piegano ai voleri del direttore o addirittura sono più realisti del re e si prendono delle “licenze” che sicuramente non sono prese a pro del prigioniero.

Emblematico è il caso di un ragazzo irakeno che a meno di sei mesi alla fine dell’espiazione della sua carcerazione, con il nostro aiuto riesce ad ottenere il consenso per essere ospitato in una comunità dell’oristanese, per poter usufruire di un permesso premio.
Quando il tutto finisce nelle mani della sua educatrice, lei dolosamente non consegna il famigerato foglio dell’accoglienza al magistrato di sorveglianza, che prontamente rigetta il permesso premio proprio perché mancava un luogo di accoglienza.
Con queste “perle” i prigionieri fanno i conti giornalmente, come fanno i conti dei selvaggi pestaggi che sono finiti con l’isolamento in CDT al primo piano della struttura.

È quello che è successo ad un prigioniero sardo che fu pestato selvaggiamente al II piano della struttura da un ispettore e svariati suoi scherani e successivamente isolato nel CDT per 45 giorni, affinché nessuno di noi si potesse relazionare con lui.
Che dire di un altro prigioniero anch’esso selvaggiamente pestato da una mezza dozzina di secondini, in cui il medico rifiutò di fare una visita per certificarne i danni subiti. Non rimane che parlare del pestaggio razzista, fatto sempre da un nutrito numero di secondini, che il direttore lasciò passare sotto silenzio “comprando” la sua giusta riprovazione con un misero posto di lavoro.
Mi rimbombano nella testa le urla del prigioniero tunisino, non ricordo il suo nome, forse Mohammed, che per aver richiesto che la sua roba e il suo denaro gli fossero trasferiti dal carcere di Opera, da dove lui si era volatilizzato durante un ricovero in ospedale, a quello di Uta, ma chiamiamola burocrazia sa esser bastarda e vigliacca perché gli scherani di questo carcere chiedevano al tunisino di fare un telegramma al carcere di Opera per richiedere il tutto, ben sapendo che il prigioniero non aveva il becco di un quattrino.
Le urla di, chiamiamolo Mohammed, erano dovute ai ripetuti pestaggi notturni con notevole utilizzo degli idranti, probabilmente i secondini andavano al di là del “loro consentito”, tanto che un bel po’ di volte Mohammed venne portato in ospedale per accertamenti, e che io sappia in quelle occasioni fu accusato anche di un tentativo di evasione. Era l’Estate del 2018.
Voi pensate che nel tempo le cose siano cambiate?
Per niente, anche al reparto femminile queste “chicche” di comportamento sono all’ordine del giorno, ragazze letteralmente trascinate per tutta la sezione in maniera brutale per un cambio di cella, oppure alluvionate con idrante perché richiedevano ciò che gli spettava, o era di loro proprietà… Tutto questo nel 2021.

In ultimo il dramma di Osvaldo Olla, che entrato a cavallo del 2020/2021 in carcere, con una frattura ad un piede tra l’altro operato, richiedeva alla visita medica di poter utilizzare una carrozzina, cosa che il medico accordava. Però, c’è sempre un però nelle cose, una guardia si metteva di traverso e non gli faceva consegnare la carrozzina “perché non dovuta”. Poco male, Osvaldo riprovava con il medico nel chiedere le stampelle, il medico approvava ma la stessa guardia non gliela faceva avere “perché non dovute”.
Al che Osvaldo sbottava nel minacciare denunce per ottenere quello che gli spettava, mai lo avesse fatto, la guardia in questione gli diceva “BRUTTA CAROGNA” e, non contento, continuava ad urlargli il suo odio e il suo livore chiamandolo ripetutamente al citofono “BRUTTA CAROGNA”. Non contento di ciò informava gli altri prigionieri della sua sezione che il tipo (Osvaldo) era una brutta carogna e che se loro avessero dato una lezione ad Osvaldo,
lui (il secondino) non avrebbe mosso un dito. Tanto ha fatto che i prigionieri della sezione volevano picchiarlo, ma non lo hanno fatto per la evidente menomazione del prigioniero.
Il secondino non felice della situazione che si era creata nei confronti dello zoppo, mentre quest’ultimo era fuori dalla cella, è entrato nella cella insieme al suo socio (due esseri inutili in divisa) e ha distrutto il tavolo che c’era in cella accollandolo al prigioniero e redigendo un falso rapporto disciplinare.
Tutte queste magagne sono venute a galla, ed un sottufficiale ha parlato con Osvaldo chiedendogli se avesse dei problemi in sezione e con chi. Osvaldo si è confidato con il brigadiere e questi lo ha esortato a fare una relazione scritta, ed ha anche disposto il trasferimento del prigioniero nella sezione CDT (quindi sotto il controllo di un altro gruppo di guardie diverso da quello di prima).
Dopo un po’ di giorni il prigioniero è stato convocato dal direttore, il comandante delle guardie, un medico, un educatore e psicologo che gli hanno assicurato che queste angherie sarebbero finite, che avrebbero preso i provvedimenti del caso e dicendogli di non fare menzione di questa storia con nessuno.
Osvaldo lo ha raccontato a me.
La sua storia è finita in maniera tragica, Osvaldo si “sarebbe” suicidato tra il 10 e il 12 Aprile scorsi, tagliandosi la gola con una lametta.

Sarà possibile un cambio di situazione, riusciremo a non perdere la nostra incolumità, la nostra salute, la nostra dignità?

Certo non con l’aiuto dell’area educativa e quella sanitaria, che succubi se non complici di tutte queste schifezze che avvengono nel carcere di Uta, e non sarà neanche possibile con “l’equilibrato” comportamento del direttore, stante la totale copertura che lui da all’area securitaria del carcere, e non aspettiamoci nulla di buono neanche da parte del tribunale di sorveglianza di Cagliari, che con la sua furia giustizialista ha un comportamento omissivo sulle bestialità commesse dai secondini di Uta, nonché un comportamento notarile sulle varie richieste di attenuazione della custodia in carcere.
L’unica ancora di salvezza che abbiamo noi prigioniere/i sta nella nostra unione e solidarietà, e nella denuncia sistematica verso l’esterno di tali problematiche, saltando il filtro della burocrazia carceraria.

Un prigioniero del carcere di Uta