Aresti in sardo significa selvatico – selvaggio, ma nell’uso comune della lingua sarda viene utilizzato anche per descrivere l’antipatia, la diffidenza e in generale l’essere poco avvezzi a dar fiducia e confidenza a quello che non si conosce o non sia in qualche modo riconosciuto come positivo.

L’idea che ci ha spinti a scegliere questo nome è il comune intento di ritrovare e risvegliare in noi e in chi incontreremo, quella tensione di conservazione nostra e della terra in cui viviamo, troppo spesso svenduta al miglior offerente e sfruttata per il profitto di pochi.

Sotto ai mari cristallini vediamo cumuli di plastica e ordigni bellici; sulle spiagge bianchissime si affacciano colate di cemento, dalla sabbia emergono rifiuti lasciati in dono da mesi di stagione turistica e tra i granelli si nascondono pericolosi metalli pesanti; la natura selvaggia – quel poco che ne è rimasto – è devastata da incendi e alluvioni e contaminata da enormi complessi industriali e basi militari.

Le devastazioni piu” gravi ed evidenti vengono portate avanti da secoli in nome della crescita economica e con la promessa-ricatto di posti di lavoro e ricchezza. Lo Stato italiano e le grandi multinazionali, con la complicita” delle istituzioni locali, sfruttano la Sardegna fino all’ultimo angolo di terra come luogo da cui estrarre profitto.

Lo  vediamo  oggi nelle  conseguenze  dell’attivita”  mineraria  nel  Sulcis-Iglesiente  che, dopo  aver  esaurito filoni e giacimenti, ha lasciato solo poverta”, malattie, disoccupazione e numerose zone da bonificare; lo riscontriamo nelle grandi industrie dove ogni giorno, in cambio di qualche migliaio di stipendi da operai, fumi altamente tossici vengono rilasciati nell’atmosfera, acque malsane sfociano in mare o scarti inquinanti vengono sotterrati nel suolo. La svendita della salute del territorio e di chi lo abita, per qualche briciola  di  denaro,  e”  ormai  la  prassi,  e  ad  ingrassare  sono  sempre  i  soliti  pochi  imprenditori,  pronti  a lasciare il deserto non appena trovano nuove opportunita” di rapina.

Al contempo avanza lo sfruttamento turistico: ogni estate vediamo l’aumento di zone costiere privatizzate e cementificate in nome del mito del turismo di massa e di lusso, imposto come unica vera fonte di sostentamento, ma che e” l’ennesima economia di dipendenza. Per la gran parte degli abitanti del territorio significa solo lavoro stagionale sottopagato che va a gonfiare i guadagni della solita manciata di padroni.

Intere aree sono sottratte alla popolazione sarda per “ospitare” le basi militari ad uso di eserciti di tutto il mondo che distruggono il nostro territorio per addestrarsi a devastarne meglio altri, lasciando dietro di loro una scia di inquinanti, scorie, leucemie ed altre gravi patologie. E vorrebbero convincerci che questo sia l’unico presente (e futuro) possibile per quei territori.

Intanto l’occupazione e lo sfruttamento di alcune zone dell’isola determinano danni indiretti su quelle che invece  portano  meno  guadagno:  le  istituzioni,  investendo  solo  laddove  si  puo”  creare  profitto,  lasciano intere  zone  prive  dei  piu”  basilari  servizi  e  si  dimenticano  volentieri  degli  interventi  di  manutenzione, messa in sicurezza e salvaguardia di ambiente e salute.

Ma quali di queste scelte sono state fatte coinvolgendo chi l’isola la vive ogni giorno?

Come individui e collettivita”, veniamo troppo spesso identificati come responsabili della crisi ambientale, ci vorrebbero convincere che fare la differenziata e eliminare la plastica dalla nostra vita quotidiana siano rimedi alla situazione catastrofica che ci circonda, o che la questione ambientale non sia legata alle dinamiche economiche e sociali che la determinano.

Quanto e” paradossale non venire coinvolti nella gestione del territorio che abitiamo e poi essere accusati dei danni arrecati?

Quanto ancora dovremo subire imposizioni che, mentre ci sfruttano o uccidono lentamente, ci rendono complici di un sistema non sostenibile?

Quanto ancora ci deve essere proposto l’ambiente solo come un oggetto il cui unico fine e” essere utilizzato, e non come cio” di cui facciamo parte?

Quando lo Stato dichiara di attuare progetti per la tutela della biodiversita” (parchi, zone protette, SIC), le sue intenzioni sono legate piu” al lucro che si potra” ottenere da quel luogo che a una salvaguardia reale, così” come  e”  sempre  piu”  evidente  la  menzogna  che  si  nasconde  dietro  le  sedicenti  metodologie  “zero emissioni” o “eco”, di cui e” solo la facciata a tingersi di verde, per rendere piu” accettabile la violenza in atto.

Come  se non bastasse,  va  riducendosi  la  coscienza  naturalistica,  stiamo  quindi perdendo  la  capacita”  di interagire nella natura in modo attento e consapevole, ma specialmente di riconoscere le nocivita” intorno a noi. Un vuoto di sapere che fa molto comodo a chi non vuole bastoni fra le ruote per le proprie speculazioni.

Proponiamo di rispedire le accuse al mittente, riconoscendo, da una parte, i veri responsabili della devastazione che ci circonda e, dall’altra, rivendicandoci come individui e comunita” la cura della natura che abitiamo.

Questo lo sentiamo possibile solo senza avanzare richieste alle istituzioni. Ci vogliamo slegare quindi da questo rapporto di deleghe e dipendenza dagli stessi complici dello scempio ambientale che abbiamo intorno, in favore di un nuovo significato del “vivere il territorio”, alla ricerca di un’autodeterminazione individuale, collettiva e territoriale.

Vogliamo quindi dare vita ad un percorso auto-organizzato fatto di piccole pratiche di inchiesta e ricerca, ma specialmente di intervento e azione diretta.

Ma ancora di piu” vorremmo arginare la distruzione di quel che e” rimasto, portando avanti una necessaria forma di opposizione attiva e consapevole agli abusi sulla nostra terra.

Anche se non disponiamo ancora dei mezzi per poter risolvere tutti i problemi che la questione sociale- ambientale comporta, possiamo iniziare almeno ad agire negli spazi che attraversiamo quotidianamente, provando  a  frenare  i danni gia”  esistenti,  a  impedire che l’incuria ne produca  di  nuovi e a  ostacolare  i continui tentativi di saccheggio delle risorse e di sfruttamento del territorio.

Non abbiamo la pretesa che queste pratiche bastino da sole, ma pensiamo che il loro moltiplicarsi, in forme e luoghi diversi, possa fare la differenza.

Sardinnia Aresti

Cagliari, primavera 2021