Lo scorso 17 marzo a Sestu, paese vicino Cagliari, con grandi cerimonie sono state “restituite alla collettività” delle abitazioni sequestrate nel 2016 ad alcune figure dello spaccio.

I beni sequestrati sono rientrati nel progetto di riappropriazione da parte dello Stato di tutte quelle proprietà ritenute frutto dei proventi delle attività illegali, che quindi vengono rimesse in circolazione ed assegnate.

In questo caso la riconsegna alla collettività avviene con l’assegnazione di alcuni appartamenti ai Carabinieri che li utilizzeranno come alloggi appena sarà inaugurata la nuova caserma.

Lo Stato sequestra e riconsegna a se stesso.

La cerimonia ha avuto grande risalto sia per la presenza di tutto l’apparato istituzionale sia come esempio della “riconquista” dei beni frutto di attività illegali.

Ora, in un momento difficile come questo, in cui la pandemia dirige rapporti, spostamenti e relazioni far rientrare nel benessere collettivo l’assegnazione di abitazioni ai Carabinieri è quantomeno strano.

Se la collettività è la condivisione di rapporti siano sociali o economici sarebbe giusto sapere quale sia lo scambio in questo caso. Non sarà certo barattare la propria sensazione immaginaria di sicurezza con la costruzione di caserme o l’assegnazione agli sbirri di case confiscate

Se invece consideriamo la collettività come un insieme di individui legati da rapporti nel senso generale del termine siamo convinti che le forze dell’ordine siano parte di questa collettività?

L’imposizione delle caserme in maniera sempre più capillare ci ha abituati a vedere le forze dell’ordine come un accessorio imprescindibile. Un qualcosa di scomodo, che non vorremmo vedere inserite nelle nostre vite ma che purtroppo vengono imposte a definire e difendere i territori che abitiamo. Le comunità hanno però nei secoli costruito dei rapporti e delle regole di autogestione in cui le forze dell’ordine sono degli intrusi, niente più dell’imposizione della presenza dello Stato nel tessuto comunitario. La pandemia è stata in un certo senso un’ulteriore grimaldello verso l’apertura agli apparati repressivi. La presenza alle entrate ed uscite dai paesi e dalle città, i posti di blocco ed i controlli sono stati un modo per abituarci ulteriormente alla presenza poliziesca giustificandola attraverso la difesa della salute collettiva. La propaganda verso le forze dell’ordine, guardiani delle strade e argini alla diffusione del virus è stata lanciata con i canali mediatici, divenuti praticamente l’unico strumento sostitutivo dei rapporti vis-a-vis, e sparata tramite video, post e quant’altro per far passare il messaggio di accettazione dei controlli e delle restrizioni.

L’aumento annunciato di militari e sbirri nelle strade (si parla di almeno 70000 unità) non fa certo presagire il ritorno alla normalità ma anzi decreta un ulteriore passaggio che mina le comunità, siano esse riconoscibili o meno, rendendole delle collettività falsate nei rapporti quotidiani ed in cui serve la presenza militare sempre più forte per inculcare quel messaggio in cui la sicurezza ed il controllo sono beni non sacrificabili e necessari.

Oltre all’aspetto sociale rientra anche l’aspetto più concreto che riguarda l’assenza di case e la conseguente assurdità di consegnare delle abitazioni ai Carabinieri. Con la situazione pandemica la problematica abitativa ha subito come un congelamento. Gli sfratti sono stati sospesi(quasi tutti), sono state attuate delle misure di “ristoro” per i padroni e una maggiore tolleranza per gli affittuari o gli occupanti.

Le occupazioni in questi mesi sono continuate. L’approcio delle istituzioni è stato di tolleranza nei primi mesi di lock down e poi di concertazione tramite gli assistenti sociali. Agli e alle occupanti sono state proposte soluzioni tampone: dalle caparre per case in affitto a case famiglia per madri e figli e il famoso arrangiarsi per i padri. Ora che il vaccino sembra la panacea dei mali il lavoro degli ufficiali giudiziari e ricominciato per ora con le proposte di rinvio degli sfratti ma comunque facendo sentire la loro presenza.

Vista la situazione economica non è strano che quando la sospensione degli sfratti verrà meno ci saranno tantissime persone per strada, se non si attua una resistenza.

Sospendere gli sfratti ha la funzione di non creare la situazione per cui non si possono buttare in strada le persone in un momento in cui in strada sono tollerate meno persone possibile ma appena si percepirà la tanto agognata normalità torneranno gli ufficiali giudiziari e tutta la loro schiera di sgherri a bussare alle case di chi occupa o di chi non può più permettersi un affitto-

Negli ultimi anni il concetto di case popolari è stato in gran parte sostituito dal fenomeno dell’housing sociale stabilendo così un cambio di classe nella questione abitativa. L’housing sociale infatti comporta degli affitti agevolati per persone a reddito medio a volte con la richiesta di prestazioni in cambio dello sgravio sulla locazione. Le case popolari destinate a persone a reddito zero o quasi creano solo problemi allo Stato sia per l’insolvenza degli affittuari che per le situazioni di disagio che si vengono a creare. L’housing sociale garantisce o dovrebbe farlo, un diverso livello di controllo ed una solvibilità degli inquilini che alle amministrazioni fa gola. Ovviamente il problema abitativo non si risolve di certo, ma trova l’ennesimo tampone mantenendo una facciata assistenziale per le istituzioni.

Di fronte all’enorme numero di persone senza casa chiamare “restituzione alla collettività” la consegna delle case alla “Benemerita” stride, a dir poco.

Queste situazioni surreali sono un esempio di come il concetto di collettività sia una questione di punti di vista tra chi lo vede come un’unione di sorveglianti e sorvegliati, di gestori e gestiti, oppressori e oppressi e chi la vede invece come un’unione di persone che nell’ottica dell’autogestione preferirebbe coltivare dei rapporti non mediati dalle istituzioni.

Nel mio concetto di collettività le forze dell’ordine restano un intoppo a quei rapporti “sani” tra individui e nel mio immaginario, forse antiquato, la collettività rimane una bolla da cui lo Stato e le sue propaggini sono irrimediabilmente escluse o almeno guardati con fastidio come dei punti scuri in un bellissimo panorama. Le forme di autogestione che restano e resistono ad animare ciò che consideriamo comunità sono un ottimo strofinaccio con cui lavare via quei punti scuri e lasciare che in quel bellissimo panorama risplenda un luminoso sole.

gbh