Seaspiracy è il titolo di un documentario pubblicato sulla piattaforma Netflix dal 24 marzo scorso, nel giro di pochissimi giorni è entrato nella topten di Netflix e oltre a riscuotere un notevole successo e consenso, sta anche scuotendo alcuni degli ambienti su cui l’inchiesta documentaria si basa.

Ma andiamo con calma, il titolo e il progetto riprendono il filo di un altro grande documentario, Cowspiracy incentrato sull’impatto dell’industria animale.

Seaspiracy invece è un’inchiesta sulla pesca industriale, sui danni che essa produce, sulle menzogne e le truffe che la sostengono e peggio ancora sulle strategie usate per ottenere le certificazioni di sostenibilità di alcuni prodotti, attraverso la creazione e l’utilizzazione di marchi garantiti.

Il documentario nonostante la durezza delle immagini è particolarmente gradevole e incalzante, non scade nella volontà di impressionare il pubblico attraverso immagini esageratamente cruente, anche se ovviamente non è una commedia romantica.

Nonostante io non sia un esperto, meno che mai uno scienziato, mi sembra chiaro che l’intento dei registi non è quello di fornire dati precisi, ma di mostrarci che siamo arrivati alla linea rossa oltre la quale gli oceani e i mari del mondo non riusciranno a sopravvivere.

Il documentario ci mostra quanto intricate siano le logiche che stanno portando alla distruzione della fauna ittica mondiale, evitando quindi banali letture che propongono parchi marini o aumento degli allevamenti dei pesci.

Sebbene nel documentario ci siano esplicite richieste di regolarizzare le attività di pesca, emerge bene che è un problema di concetto: la pesca non può più essere concepita nel modo attuale, l’aumento della popolazione mondiale con conseguente maggiore domanda di pesce, unita all’aumento di richieste specifiche del mercato, ci ha portati ha un punto di non ritorno, di collasso.

Se la pesca industriale non subirà uno stop immediato, non avremo più pesci in mare, ma non solo, il documentario ci racconta di come la morte della vita nei mari avrebbe delle conseguenze pesantissime anche per gli ecosistemi vicini, cioè le terre emerse, cioè noi.

La pesca industriale muove ogni anno miliardi di euro, questo ovviamente complica le cose e – sempre come mostra il documentario – attira mafie, inganni, corruzione, violenze e via dicendo, tutto questo è un ulteriore complicazione, ma mi sembra ovvio che il gioco val bene la candela, e quindi lo sforzo di coscienza prima e pratica poi non si possa in ogni caso rimandare.

Il documentario ha ricevuto critiche da parte di alcuni enti, marchi e aziende che vengono smascherati, di solito quando questo avviene si può star certi che i registi hanno colpito nel segno, e che le smentite servono solo a provare a ridurre le perdite economiche che le menzogne svelate portano con loro.

Infine, è a mio modo di vedere molto apprezzabile, che i registi non si lascino andare a un’esagerata – e in parte ipocrita – visione animalista in cui la soluzione sia solo la pacifica convivenza tra uomo e mare, in quanto sappiamo bene che anche l’agricoltura produce milioni di morti tra insetti e altri piccoli animali, inquinamento, deforestazione ecc.

Come dicevo prima è un problema di concetto, di logica, di capitalismo.

La soluzione non potrebbe che essere trovata in un blocco totale di alcuni metodi di pesca intensiva e nella protezione di alcune specie animali particolarmente colpite e ormai vicine all’estinzione.

Purtroppo mi sembra ovvio che i governi non faranno un bel niente, le lobby della pesca industriale faranno pressioni affinché nulla cambi.

Per questo l’unica via non può che essere il qui ed ora di ognuno di noi, boicottare l’industria del pesce non comprandone più nei mercati, non consumandolo più nei ristoranti o nei sushibar.

Sembra difficile? Sicuramente lo è, però è altrettanto difficile credo, pensare di non vedere più pesci nel mare.

Qualcuno starà pensando come al solito che il problema è altrove, che smettere di comprare il pesce al mercato di San Benedetto di Cagliari non è la soluzione, che non sarà proprio lui con i suoi gamberi, o le sue orate a fare danno.

Purtroppo così non è, chi per passione mette la testa sott’acqua tutte le settimane dell’anno, vi può dire che il nostro caro mare sardo è messo molto male, nonostante sia al centro del Mediterraneo sta subendo un declino irreversibile e riscontrabile di anno in anno.

Neanche 13 mesi (di cui almeno 5 di chiusura totale) di allentamento della vita normale, della pesca, del turismo e dei consumi in generale hanno portato qualche piccolo miglioramento.

Questo segnale va colto nella sua gravità.

Quello che è accaduto negli ultimi anni con i ricci di mare può essere l’esempio di una strategia da seguire, ma dobbiamo farlo ora e con determinazione, perché il boicottaggio è appena sufficiente a non peggiorare la situazione, non sempre porta a migliorarla.

La riduzione del consumo dei ricci ha permesso alla specie di non sparire, ma per adesso questa non sta riuscendo a uscire dalla condizione di altissimo rischio.

Concludo con uno degli aspetti a cui il documentario da maggior rilievo, lo scarto della pesca industriale. Milioni di pesci ogni anno vengono pescati e ributtati in mare già morti, tantissimi altri muoiono per l’abbandono in mare di attrezzature da pesca. Probabilmente se già questo venisse evitato il mare potrebbe riprendere a respirare, ma come farlo?

Privilegiando – qualora non ci si senta di adottare un boicottaggio totale – l’acquisto di pesci pescati con metodi e pratiche selettive, come ad esempio i muggini di laguna, il tonno di tonnara, la pesca con le nasse, la pesca subacquea e alcuni tipi di pesca con il palamito.

Non rinunciamo però all’idea e alla pratica del boicottaggio, se fatto in massa imporrebbe di fatto una riduzione delle giornate di pesca dei pescherecci e un’aritmetica riduzione del pescato, con conseguenti speranze per i nostri mari.