Riportiamo qui di seguito un contributo pubblicato lo scorso gennaio, si tratta di un’analisi sull’operazione Lince e sull’uso dei reati associativi. Ne consigliamo la lettura per l’attualità del tema e per l’approssimarsi dell’inizio del processo.

Operazioni repressive in Sardegna: passato e presente.
In queste poche righe cercheremo di dire la nostra su quanto accaduto negli ultimi mesi in Sardegna, cioè la doppia tornata repressiva che tra settembre e ottobre ha messo sotto attacco le esperienze degli ultimi anni, tirando in ballo reati e misure di prevenzione dal peso specifico assai elevato.
Era da un po’ di anni che da queste parti non si vedeva una mossa del genere da parte della procura: in particolare per quanto concerne le lotte sarde bisogna tornare indietro al biennio 2005/2006 per trovare le ultime due grandi operazioni, Fraria e Arcadia.
Allora il PM De Angelis, in preda a deliri di onnipotenza, andò più pesante del suo attuale collega Pani. Tra arresti e domiciliari furono decine le misure cautelari notificate, ma per fortuna oltre i lunghi mesi di preventivi il costo non si rivelò troppo salato come si sarebbe potuto temere in entrambe le circostanze.
Guardare al passato per comprendere parte del presente ci sembra un buon esercizio per partire in questa piccola analisi, e per trovare o scartare similitudini, corsi e ricorsi
storici, che in una terra isolata e unica come la Sardegna spesso fanno la differenza.
Le differenze più evidenti tra l’operazione Lince e quelle Arcadia e Fraria sono nelle conclusioni ottenute dai PM (che nell’ultimo caso non sono riusciti a trovare prove
neanche per fare delle perquisizioni), nella tipologia dei reati principalmente contestati (in Lince hanno moltissimo spazio le indagini su reati di piazza e varie iniziative pubbliche) e nell’obbiettivo scelto dagli inquirenti. Lince nasce come operazione contro una lotta specifica – l’antimilitarismo sardo – e non come un’operazione riconducibile ad un gruppo (Fraria) o all’area indipendentista (Arcadia). Si trova conferma di questa teoria anche guardando nel faldone quali siano i compagni
“scelti” dal PM per le intercettazioni: sono appartenenti a vari gruppi, di età e esperienze variegate.
Il fatto che poi siano stati messi “a capo” dell’associazione cinque compagni appartenenti a vario titolo alla galassia anarchica può trovare parte della motivazione nella esplicita volontà dello Stato italiano di questi ultimi anni di attaccare e reprimere un po’ dovunque le pratiche anarchiche, e un’altra parte nei ragionamenti legnosi dei PM che non riescono a immaginare organizzazioni orizzontali, e scelgono quindi parametri come la generosità e la disponibilità per individuare i presunti “capi”.
Una similitudine che si può riscontrare con il passato invece è proprio quella di non saper o voler riconoscere in modo chiaro ed evidente un’area e i suoi appartenenti. In
questo senso la Sardegna fa storia a sé nella capacità e forza di far convivere tante e diverse anime nelle lotte, rendendo nella maggior parte dei casi superflue definizioni, etichette e sigle.
Infatti i 45 indagati rispecchiano l’intero e variopinto panorama ideologico isolano. Questa caratteristica, diventata forza, è stata ed è il fattore che rende veramente
possibile il motto “tanti modi un’unica lotta”, che si riversa poi positivamente nelle molteplici e multiformi espressioni di solidarietà manifestate nei confronti degli indagati e contro la repressione.
Infine, forse in maniera più azzardata, si potrebbero inscrivere le tre operazioni repressive nel contesto di una Sardegna come una terra sottoposta ad una fortissima
repressione sociale da parte dello Stato italiano. I motivi sono sia gli enormi interessi economici (la Saras e il turismo ad esempio) che quelli strategici (come le basi militari), e allo stesso tempo la continua necessità dello Stato di stroncare sul nascere qualsiasi forma organizzata di lotta che possa collegarsi con la residua forza resistenziale da sempre parte della storia dei sardi.
Nei primi anni 2000 come tra il 2014 e il 2017 qualcosa di questo forse si è intravisto, ed ecco subito arrivata la mazzata dello Stato. Questa teoria la ritroviamo nel migliaio abbondante di denunce arrivate negli ultimi tempi a coloro che hanno partecipato alla lotta dei pastori dell’inverno 2019.
Lo Stato non accetta forme di contrasto organizzato ed
efficace, ed è sempre pronto a ricordarlo, adoperando tutti
gli strumenti di cui si è dotato.

L’operazione Lince
Come accennavamo, dai documenti dell’Operazione Lince emerge chiaramente come l’indagine non voglia indebolire semplicemente un determinato gruppo, ma, attraverso i 45 indagati, criminalizzare una lotta e le sue svariate pratiche.
I capi di imputazione lo confermano, ma nonostante vada a colpire un insieme così ampio, prende meglio la mira, accusando cinque degli indagati per 270 bis, associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, in cui due di essi verrebbero ritenuti i “capi”. L’indagine ha inizio nel settembre 2015, a solleticare l’interesse del PM Pani fu un attacco fallito contro dei mezzi militari “Lince” avvenuto nel luglio precedente, in un’officina ad Elmas, intorno alla quale in seguito vengono messe ben quattro telecamere, come nell’attesa di un ritorno di coloro che non erano probabilmente riusciti a portare a termine il loro obiettivo.
Da lì a poco inizieranno le intercettazioni telefoniche e poi ambientali nelle autovetture di due compagni (che poi risulteranno essere i “capi” dell’associazione, chissà se le macchine messe sotto controllo fossero state di più quanti capi avrebbe avuto questa fantomatica operazione?)
I metodi e gli strumenti usati durante le indagini sono svariati ma abbastanza comuni, completati dal coordinamento con Digos di altre città; intercettazioni ambientali e telefoniche, pedinamenti, identificazioni durante cortei e iniziative o attraverso le riprese.
Significativamente vengono accennati, attraverso l’analisi di manifesti, l’utilizzo di intercettazioni e l’indagine su alcune azioni, anche altri campi su cui opera la cosiddetta “associazione”: lotta alle carceri, antifascismo e immigrazione.
Rispetto ad altre recenti indagini in questa viene dato molto peso anche a reati minori, addirittura ai volantinaggi. Quello che la procura vuole provare a sostenere con tale scelta è che anche queste azioni siano inserite nella progettualità di un antimilitarismo sovversivo: che sarà poi il pretesto per avanzare l’accusa per 270bis, verso i 5 che diventano quindi i burattinai di una serie di iniziative e azioni. I rimanenti 40 indagati si iscriverebbero quindi nella messa in pratica di questa progettualità, come partecipanti o esecutori. Mentre è risaputo che la volontà di lottare contro le basi militari, con tanti mezzi diversi, inclusa l’incriminante azione diretta, era condivisa da svariate persone in tutta l’isola durante la lotta, come pure tutt’oggi.
Nel faldone si può facilmente scovare la richiesta, da parte della Digos, di applicare misure cautelari (che poi non verranno accettate dallo stesso PM Guido Pani) e decreti di perquisizioni personali e locali. Tale scelta è probabilmente da interpretare attraverso lo scarso profilo indiziario che gli inquirenti erano stati in grado di ricostruire e il conseguente rischio che in sede di riesame tutto il castello accusatorio crollasse.
Le pratiche che più risaltano nella parte dell’indagine relativa al 270bis son varie: l’azione diretta (taglio delle reti, blocco delle esercitazioni), l’“invito” ad essa, alcuni sabotaggi notturni, i contatti con il mondo anarcoinsurrezionalista italiano, le richieste di partecipazione, gli eventi di informazione sulla lotta antimilitarista, l’organizzazione di campeggi e la partecipazione a questi, infine la propaganda attraverso alcuni siti internet e pubblicazioni cartacee o murarie.
Per quanto riguarda i contatti con realtà anarchiche, l’operazione si concentra in particolare sulle presentazioni della lotta antimilitarista e delle iniziative avvenute in
varie regioni, e la partecipazione di compagni non sardi ai campeggi e ad altre iniziative organizzate nel cagliaritano.
Su questi compagni l’operazione non si concentra particolarmente, se non con l’inserirli quasi esclusivamente per reati minori (come ad esempio le violazioni dei fogli di via) a dimostrazione della reale creazione di contatti e “sodalizi”.
Si nota anche l’importanza data alle azioni contro diversi complici della guerra: da quelli specializzati nella logistica (Tirrenia, Moby e F.lli Rubino), al consorzio DASS e i suoi soci, come la Vitrociset. Altre azioni prese di mira sono dei danneggiamenti alle Poste Italiane per la loro responsabilità nelle deportazioni degli immigrati dall’Italia
verso i paesi d’origine.

Il ruolo della propaganda dell’azione diretta.
Uno dei tre cardini su cui si è basata l’indagine che ha poi portato alla chiusura dell’operazione Lince è, appunto, la propaganda e gli strumenti con cui questa è
stata diffusa negli ultimi anni di lotte antimilitariste.
Da sempre, ben prima che nascesse la Rete No Basi né qui né altrove, i compagni e le compagne sarde non hanno mai fatto mistero in nessuna assemblea e in nessun manifesto dell’intento di disturbare la macchina bellica attraverso l’utilizzo dell’azione diretta di massa o di pochi.
Con l’andare del tempo e lo strutturarsi della lotta e delle formazioni che la componevano, il proclama di tali pratiche è diventato un mantra diffusissimo e riprodotto da tantissime persone. L’uso dell’icona delle tenaglie a significare il taglio delle reti militari e la violazione delle basi è divenuta, ed è tuttora, il simbolo della lotta contro l’occupazione militare della Sardegna.
Nonostante l’assunzione così massiva delle pratiche, queste sono state utilizzate dal PM come prova a carico di chi è stato messo a capo dell’associazione eversiva – terroristica.
Il PM ha scritto una sceneggiatura piuttosto fantascientifica in cui sostiene che solo poche persone (5 appunto) avrebbero convinto altre dell’efficacia e necessità dell’utilizzo di tali pratiche e che, in conseguenza di questo, siano loro i materiali esecutori di svariate azioni. Per supportare queste accuse e queste teorie il PM Pani ha ovviamente giocato sporco: ha infatti totalmente omesso il fatto che in decine se non centinaia di assemblee della Rete si parlava apertamente di organizzazione dell’azione diretta, che tutti i partecipanti ne parlassero e che in tutti i manifesti e in tutti i documenti questo fosse spiegato e propagandato. Inoltre non è neppure casuale che nel faldone siano riportate migliaia di foto e documenti ma fra questi non vi siano i manifesti del corteo dell’11 giugno e del campeggio antimilitarista dell’ottobre 2015, in cui rispettivamente erano ritratti una rete tagliata e un individuo travisato con in mano delle trance. E si potrebbe andare avanti a lungo con l’elenco delle iniziative pubbliche dove le tenaglie e il taglio delle reti si sono presi il primo piano.
Ora a indagini chiuse e triennio di lotte superato, si possono provare a elaborare svariati ragionamenti – a partire anche dalle carte – assai utili al proseguo delle lotte
contro le basi militari e non solo.
Il motivo di tanta attenzione alla propaganda dell’azione diretta e al racconto della stessa (nel faldone ci sono diverse denunce per coloro che sono ritenuti i responsabili
della diffusione delle rivendicazioni arrivate ai siti, assegnando loro la paternità dell’azione stessa), è sicuramente dovuto alla notevole presa avuta da essa.
Migliaia di persone, infatti, si sono rivendicate a vario titolo le azioni di pochi e i cortei di tanti che hanno violato le basi militari, tagliato le reti e bloccato l’attività militare.
La quantità di azioni notturne per le quali non è mai stato individuato nessun responsabile sono il risultato di questa propaganda.
Nello scontro di pratiche, tra la presa di responsabilità individuale e collettiva dell’azione diretta, e quella vuota e riformista del voto al referendum consultivo, ha prevalso la prima. Anche questi passi sono stati accompagnati dalla propaganda attiva fatta da decine di compagni e compagne, con volantini, giornali e post.
Attaccare coloro che si sono esposti di più in questo ambito, criminalizzare i siti e le pratiche di informazione non convenzionale o sovversiva è ovviamente un obiettivo
fondamentale per la controparte, perché è anche da essa che la lotta contro la guerra può ritrovare fiato, energie e idee.

Dal 270bis alle richieste di sorveglianza speciale
Alla chiusura delle indagini dell’Operazione Lince non è seguita tutta la trafila di avvenimenti alla quale di solito si assiste quando si sente parlare di 270bis.
Nessun arresto, nessuna misura cautelare, nessuna perquisizione.
Come si accennava sopra, dalla lettura delle carte risulta che il PM Guido Pani non abbia neanche provato a richiedere delle misure, neppure quando nel novembre 2017 la DIGOS gli propose di farlo. Questa mossa per alcuni versi inconsueta, è diventata più chiara il mese successivo.
Il 14 Ottobre viene infatti notificata la richiesta di sorveglianza speciale per i cinque compagni precedentemente inclusi nel reato associativo. Come si evince dalle carte, la richiesta è strettamente legata a questa accusa e, non a caso, la richiesta è firmata sempre dal PM Guido Pani.
In poche parole quest’ultimo sostiene che questi cinque compagni meritano di ricevere la sorveglianza speciale in quanto socialmente pericolosi, e a dimostrazione della loro pericolosità ci sarebbe proprio l’accusa di 270bis.
Emblematico – e assai pericoloso – è il fatto che ad accusarli di terrorismo e poi a richiedere la sorveglianza speciale sia il medesimo PM, il quale sembra voler ad ogni costo far tornare i conti, e quindi mettere alle strette chi si è battuto e si batte contro la guerra.
In questo caso si assiste quindi ad una richiesta di sorveglianza speciale basata quasi esclusivamente non sul cosiddetto curriculum criminale bensì su un’accusa non
ancora andata a processo.
Per tre di loro non è la prima volta, già nel 2015 durante le lotte antimilitariste, fu richiesta la sorveglianza speciale a loro carico ma il giudice le rigettò in tutti e tre i casi.
Questa connessione tra accuse di 270bis e richieste di sorveglianza speciale sembra essere una moda che piace ai PM sardi. Recentemente, sempre a Cagliari, è capitato che la Procura (in quel caso fu il PM Danilo Tronci, anch’egli della DDAT) richiedesse la sorveglianza speciale per un compagno tornato dal Kurdistan, accusato di essersi
battuto al fianco delle YPG. Precedentemente a casa del compagno, e di altri due, era stata eseguita una perquisizione in merito ad una indagine per 270bis. La vicenda si è conclusa da poco con l’archiviazione del procedimento. In tale occasione la richiesta di sorveglianza era focalizzata sulla pericolosità sociale legata ad una presunta capacità di utilizzare le armi e non collegata all’indagine che faceva acqua da tutte le parti. Ma anche qui per la sorveglianza arrivarono buone notizie e la richiesta fu rigettata.
Questo metodo repressivo (270bis + sorveglianza speciale) che stanno tentando i PM, potrebbe rappresentare un precedente pericoloso dal punto di vista legale, ovviamente nel caso in cui le richieste venissero accolte.
Visto l’uso massiccio fatto dalle procure di varie città dell’articolo 270bis, ci sembra che questo meriti un piccolo approfondimento, specialmente per quanto si adatti
sempre di più a misura delle lotte.
Art. 270bis: Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni
Per chi sorveglia e reprime è sempre più facile accusare chi lotta di 270bis, dal momento che non servono dei fatti realmente accaduti e ritenuti “terroristici” per scomodarlo, bensì solo la presunta esistenza di un’organizzazione che rende – o renderebbe – possibili tali fatti. Proviamo a pensare a quanti compagni, anche solo nell’ultimo decennio, sono stati indagati con tale accusa.
Nella maggior parte dei casi, ma non sempre, chi viene accusato di 270bis viene incarcerato preventivamente per dei mesi per poi essere scarcerato o passare ai domiciliari.
Nell’ultimo periodo l’unico caso nel quale tale accusa è rimasta in piedi è quella relativa all’operazione Scripta Manent (condanne in primo grado fino a 20 anni). Il meccanismo rodato in tante città e riutilizzato in Sardegna è il seguente: di fronte a un vero o presunto innalzamento del livello o della frequenza di alcune pratiche, DIGOS o ROS, coordinati con un PM, aprono un’indagine per 270 o 270bis, che permette loro di sbloccare ingenti finanziamenti e di mettere al lavoro numerose forze.
Abbiamo visto come intercettazioni, pedinamenti e in generale un monitoraggio più stretto sulla vita e l’attività dei compagni diventano l’obiettivo della cosiddetta polizia politica, tutto ovviamente coperto dal più totale segreto (tanto per capirci se si è sottoposti a un’indagine per 270bis e si fa richiesta del proprio Registro notizie di Reato non apparirà mai nulla). Una volta messa in moto la macchina questi signori fanno di tutto per non farla spegnere, e quindi vanno di proroga in proroga (per l’indagine Lince sono state richieste e accettate proroghe ogni venti giorni per quasi tre anni) per le intercettazioni telefoniche e ambientali, e se serve non si fanno problemi a forzare palesemente la realtà pur di far continuare a esistere il “pericolo terroristico” che giustifichi il mare di soldi che il Ministero dell’Interno stanzia per queste indagini.
Perché lo fanno? Qualcuno per i soldi di posti di lavoro ambiti e altolocati, altri per carriera, altri per le pagine dei giornali, altri per campagna elettorale, qualcuno proprio per fervore statalista.
Come poi queste vadano a finire spesso poco importa, il fatto stesso di aver monitorato per anni le attività dei compagni e magari di averne messi alcuni al fresco per un po’ di mesi in regime preventivo, può a volte soddisfare gli inquirenti (nei casi in cui il teorema associativo crolli i compagni vengono portati a processo per i reati specifici, che però hanno peso assai minore). E quando questo non avviene? E se invece la sete punitiva si fa più forte?
O vengono imbastiti mega processi, o come qui si richiedono immediatamente le sorveglianze speciali, in attesa che poi arrivi anche il processo.
La sorveglianza speciale potrebbe perciò diventare quella misura per così dire “intermedia” che assicura alla controparte di tenere lontani dalle lotte alcuni compagni, avvalorandosi esclusivamente della motivazione di essere indagati per 270bis, poco importerà se poi l’indagine non dovesse andare a processo o se il reato dovesse essere derubricato. Di questo ovviamente i PM non dovranno mai rispondere, ma i compagni magari potrebbero essersi fatti nel frattempo la sorveglianza.
Questa misura, a differenza di una condanna per 270bis, ha un peso giuridico ben diverso, è meno afflittiva, ma può essere data con più facilità e il suo utilizzo ricorrente potrebbe essere un gran fastidio per le lotte.
In un modo o nell’altro la vita del malcapitato che la riceve muta non di poco: rientro notturno, ritiro della patente, divieto di incontrare pregiudicati e di frequentare assemblee e manifestazioni (a queste solite prescrizioni il PM Pani ha aggiunto l’obbligo di dimora), sono tutti impedimenti molto fastidiosi e afflittivi che, seppur non
come il carcere, ti isolano dalla partecipazione attiva delle lotte e ti complicano non poco la vita intima e lavorativa.

Concludendo,
ci sembra un buono spunto portare la questione al di fuori dell’ambito strettamente antimilitarista e far emergere nelle pratiche di vita e lotta quotidiana tutto ciò che il
potere ha imposto, e continua a imporre altrove come in Sardegna. Un territorio che, dopo essere stato privato a più riprese delle proprie risorse attraverso processi di
espropriazione coloniale che ne hanno intaccato la cultura, l’economia e i rapporti sociali, ha dovuto accettare quasi di buon grado l’occupazione militare, arrivando ad ambire per i propri giovani un futuro nelle fabbriche di morte, o peggio ancora nelle forze armate.
Rispondere alla repressione significa, ora più che mai, opporsi ad azioni immonde come la guerra, alla povertà che da questa ne deriva, al conseguente ordinario controllo delle autorità, ed è oramai non solamente doveroso, ma necessario.
Quanto accaduto in Sardegna – e in particolare a Cagliari – non ci stupisce, e in parte forse c’era da aspettarselo.
Lottare contro la guerra e i suoi loschi interessi non è una cosa che lo Stato può far passare liscia, se poi si unisce il fatto che a farlo sono migliaia di persone con molte
pratiche differenti, tutte ugualmente rispettate, ecco che forse appare ancora più scontato. Se fra questi poi si annidano dei sognatori testardi e ribelli, a cui non basta
l’idea di un mondo senza eserciti, ma sognano un mondo di libertà e uguaglianza, allora si ha quasi la certezza che lo Stato reprimerà.
Le due ondate repressive sono arrivate lontano dall’ultimo apice conosciuto dalle lotte antimilitariste sarde.
Il 2015 e il 2016 resteranno per sempre nel cuore di chi li ha vissuti, e probabilmente anche in quello di chi li ha conosciuti in racconto, la solidarietà messa in campo nelle
più svariate forme, dagli abbracci alle cene in piazza, ai presidi, ai cortei, ai concerti, ai tagli delle reti lo dimostra.
Non saranno delle sorveglianze o un 270 a fermare la voglia di liberare la Sardegna dal peso e dalla responsabilità dell’occupazione militare che da più di settant’anni fa di quest’isola la regione più militarizzata d’Europa.
Lo si è visto il 12 ottobre a Capo Frasca e speriamo di poterlo dimostrare di nuovo al più presto.
Ma non solo.
In questi anni abbiamo lottato per tante altre cose e contro tanti altri mostri, pilastri più o meno grandi di questo sistema di sfruttamento.
Continueremo a farlo, perché è proprio in questo che vediamo la risposta a chi ci vuole rinchiudere o isolare.
Questa indagine è servita solo a farci riavvicinare, a ricordarci quanto è facile armati di determinazione e un pizzico di follia, far saltare i piani della NATO o della LuftWaffe.
E questa lezione di vita e di lotta la utilizzeremo per rendere più forti le nostre battaglie e più ostili i nostri territori nei confronti di chi porta solo sfruttamento e
devastazione.

Assemblea per l’autodeterminazione
Kasteddu
Gennàrgiu 2020