Molto spesso nel mondo isolato del carcere si vive il riflesso di ciò che accade nel mondo esterno. Le novità, positive o negative, arrivano sempre un po’ in ritardo e anche gli sconvolgimenti sociali di solito arrivano dopo.

Nel caso del Covid e delle misure restrittive che ne sono conseguite non è stato così, anzi si può dire che in carcere i detenuti hanno di gran lunga anticipato ciò che sarebbe successo solo dopo sette mesi fuori. All’inizio di Marzo, con l’annuncio delle prime restrizioni e anche del blocco dei colloqui, tantissimi detenuti dello Stato italiano decisero di ribellarsi. Le rivolte furono violente e lasciarono il segno in tutti i sensi, diverse carceri vennero in gran parte distrutte, ci furono decine di evasioni, e purtroppo diverse morti.

In un certo senso i detenuti hanno anticipato il mondo di fuori: quella rabbia, quella indisponibilità ad accettare le misure restrittive nelle piazze si sta facendo vedere solo adesso. Senza dubbio ciò che ha scatenato le rivolte è stata solo una goccia che ha fatto traboccare un vaso, un vaso pieno di merda, quello delle condizioni detentive.

Il sovraffollamento è prassi nelle carceri dello Stato italiano, e con esso la paura di non poter rispettare le misure di sicurezza previste dalle norme anti-contagio (sempre che servano a qualcosa). Dal prezzo maggiorato del vitto alle dotazioni sanitarie, passando per la spavalderia delle guardie, si può facilmente ammettere che il carcere è molto distante da come viene presentato da chi lo gestisce.

Nel caso dell’epidemia e delle misure che ne sono conseguite si può forse dire che i problemi principali vissuti dai detenuti possono essere legati a due questioni: quella sanitaria e quella dell’isolamento.

Nell’ultimo ventennio lo Stato italiano si è impegnato per smantellare in parte la vecchia struttura penitenziaria, fatta perlopiù di carceri molto vecchi, poco tecnologici e all’interno dei centri abitati. Qua in Sardegna è stato il Piano Carceri del 2010 a deliberare la costruzione di quattro nuove carceri di massima sicurezza, tutti in zone rurali, andando a sostituire e definendo la chiusura dei quattro rispettivi carceri cittadini (Buoncammino a Cagliari, San Sebastiano a Sassari, la Rotonda a Tempio e Piazza Manno ad Oristano). Una delle principali variazioni nella vita dei detenuti è stata la netta differenza di comunicazione (di ogni genere) con l’esterno. Per fare un esempio: quando a San Sebastiano ci fu il famoso pestaggio nel 2000 i passanti fuori dalla struttura si accorsero delle urla dei detenuti e fuori dal carcere si formò un presidio di preoccupati. Se oggi a Bancali, a Massama, a Nuchis o a Uta avvenisse un pestaggio del genere nessuno fuori si accorgerebbe di nulla. Le urla si perderebbero facilmente nella solitudine che circonda queste nuove strutture. Allo stesso tempo questo meccanismo lascia le mani libere alle guardie e alle amministrazioni che hanno carta bianca nello scegliere quali notizie escono o no fuori dal carcere, tramite giornali e mezzi di informazione.

Il blocco dei colloqui deliberato ad inizio Marzo ha di fatto accentuato all’eccesso questo isolamento: i colloqui con parenti e amici sono quasi l’unico brandello di comunicazione con l’esterno. Inoltre non dev’essere facile abituarsi all’idea di essere recluso mentre fuori le proprie famiglie devono affrontare un momento difficile come quello del lockdown, figuriamoci in caso di contagiati o defunti.

Ergere un muro ancora più alto attorno ai detenuti, anche di fronte ad un’emergenza sanitaria, ha mostrato la parte più crudele di uno Stato che preferisce rischiare e mettere a repentaglio la vita di migliaia di reclusi piuttosto che concedere un’amnistia, un indulto o una liberazione parziale per una fetta di prigionieri.

C’è poi tutta la questione legata alla situazione della sanità all’interno del carcere. Se pensiamo a quali condizioni versa l’apparato sanitario fuori dal carcere e se prendiamo come assunto che in carcere è sempre peggio non faremo fatica a mettere a fuoco la situazione. La carenza generale di materiali si è fatta sentire ancora di più in tempo di Covid: le mascherine e le dotazioni non erano abbastanza e le amministrazioni hanno preferito dare un’ulteriore stretta su quarantene ed isolamento per cercare di arginare il contagio anche se, come dicevamo sopra, il problema del sovraffollamento rimane un intralcio grosso. In questo senso ben riassume uno slogan che gira tra i solidali ai detenuti “fuori un metro di distanza, in cella in otto in una stanza”.

Eppure questa carenza è legata a delle scelte ben precise: se si risparmia su dotazioni sanitarie adatte di certo non si risparmia sull’uso degli psicofarmaci, distribuiti generosamente per sedare gli animi dei reclusi. Oltre al fatto che i detenuti non possono essere visitati da medici esterni all’istituto penitenziario ed è facile immaginarsi quanto i medici interni siano ben integrati e complici alle scelte delle guardie.

Probabilmente la consapevolezza di essere in mano ad una apparato sanitario instabile e inaffidabile unita alla paura di un virus altamente contagioso (e di cui a Marzo si sapeva ancora poco) è stata un buon innesco per le rivolte in primavera.

Adesso, con l’arrivo del freddo e l’aumento dei contagi, il governo e i consigli regionali si stanno adoperando per decretare delle nuove misure contenitive del virus. Tra un’ordinanza e l’altra non è ancora chiaro l’intento nei confronti dei detenuti e sembra che il governo non voglia sbilanciarsi, preferendo applicare dei piccoli cambiamenti alla volta. A fine Ottobre, con il D.L 137/2020, il cosiddetto “decreto Ristori”, ci sono state le prime novità. Sostanzialmente i processi continueranno in videoconferenza, sarà più facile accedere ai permessi premio più lunghi (per chi li aveva già o per i detenuti in semilibertà) e anche ai domiciliari per chi ha pene inferiori ai 18 mesi anche se non è così per tutti i tipi di reati commessi. Le prime stime sostengono infatti che saranno circa 3000 (il 5 % della popolazione penitenziaria) i prigionieri che potranno beneficiarne. Riguardo ai colloqui il governo sta cercando di scrollarsi del peso della decisione affidando la scelta alle direzioni e infatti in alcune carceri italiane sono già stati bloccati.

Qui in Sardegna per ora sembra che sia rimasto tutto invariato, i colloqui ancora proseguono ma le certezze sono poche. Ad inizio Ottobre dal carcere di Uta sono trapelate delle notizie di contagi nella sezione dei lavoranti ma la direzione si impegna per nascondere questo fatto, parlando solo del contagio di alcune guardie. È evidente che cercano di camuffare tutti quei possibili pretesti di lamentele o proteste sia dentro che fuori, così come cercano di guadagnare tempo non esprimendosi sulla chiusura o meno dei colloqui.

È questa la momentanea strategia dello Stato per rapportarsi al mondo carcerario che a Marzo ha dimostrato a cosa possono portare la rabbia e la disperazione, mostrando che sotto il fitto strato di pacificazione ancora cova un sentimento di riscatto e ribellione.

E se una nuova ondata di rabbia dovesse travolgere le carceri? Siamo pronti qui fuori a far nostra quella tensione e riportare il problema del carcere nelle nostre città?

B.L.